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mercoledì 26 febbraio 2020

ARMIR Fronte Russo Operazione Piccolo Saturno 20 novembre 21 dicembre 1942 Considerazioni 4

Molti studiosi di storia o strategia militare si sono chiesti perché mai alla luce delle considerazioni esposte, i nostri non dichiararono la resa incondizionata sul posto anziché tentare la disperata ritirata che come abbiamo visto, si trasformò in tragedia.
Una prima ragione può ravvisarsi negli ordini stessi, resistere. L’etica militare avrebbe inoltre impedito una resa senza combattere soprattutto perché in quel momento non si capiva bene l’esito che avrebbe avuto la situazione.
Si sperava ancora nell’aiuto della Wermarcht  ma soprattutto di poter raggiungere alcuni caposaldi da dove far ripartire un’offensiva in primavera.
Sicuramente ha inciso la consapevolezza che dopo quello che i Russi subirono dai tedeschi, il trattamento per i prigionieri alleati di Hitler sarebbe stato feroce, come infatti fu.
Le contrapposte ideologie fascista e comunista negli anni precedenti la guerra e durante la stessa avevano inoltre creato nell’animo dei combattenti idee distorte sulla fazione opposta. Fra i soldati italiani serpeggiava la paura di morire, ma l’idea di finire in un gulag sovietico non tranquillizzava affatto per cui tranne poche defezioni l’idea di arrendersi non balenò mai nell’animo di quei valorosi.
Analizzando i dati, i documenti che sono diventati disponibili con l’apertura degli archivi di Stato russi, (alla fine della guerra fredda) i numeri dicono che una resa non avrebbe cambiato di molto le cose.
I trasferimenti dal campo di battaglia ai campi di prigionia, attraverso lunghe marce a -40 C. non avrebbero risparmiato più vite, anche perché la stragrande maggioranza di italiani morirono nei gulag e non sul campo di battaglia.
(massimo coltrinari  - ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org)

giovedì 20 febbraio 2020

ARMIR Fronte Russo Operazione Piccolo Saturno 20 novembre 21 dicembre 1942 Considerazioni 3

Le condizioni meteorologiche ed ambientali ebbero inoltre un ruolo importante sulle sorti del conflitto, rendendo decisiva la scarsa mobilità dell’ARMIR.
Un primo elemento da rilevare è la responsabilità politica. I politici sono i responsabili dell’Esercito, loro decidono dove mandarlo e a fare cosa. Questo però - e qui la lezione clausewitziana appare in tutta la sua efficacia - non vuol dire che possono chiedergli cose impossibili. Devono invece essere coscienti di cosa può fare lo strumento che hanno a disposizione. Inviare gli Alpini - truppe da montagna con attrezzatura inadatta a quell’ambiente, in aperta pianura e per di più in un territorio vasto come quello russo - fu una decisione sconsiderata. In un’ottica ancora più ampia fu l’idea stessa di impiegare l’esercito su un fronte enorme e con un clima che non permette errori. Per muovere e combattere, ma soprattutto sopravvivere a – 40 C. servono attrezzature speciali che non sono mai state a disposizione dei soldati e inoltre non sono mai state ordinate o pensate dalle alte sfere (anche se alcune voci critiche all’epoca dei fatti si levarono). L’esercito italiano era carente in tutto e aveva già dimostrato in altri settori di non poter competere con forze armate moderne e il fatto di essere impiegato sia nelle colonie africane sia nel gelo russo di certo non ha aiutato a mettersi al passo con i tempi e un’uniformità di equipaggiamento. Da questo punto di vista restano di grandissima utilità i libri che raccontano quei momenti dalle “Centomila gavette di ghiaccio” di Bedeschi, ai volumi di Nuto Revelli (entrambi reduci di Russia) e di Alfio Caruso. Chiunque abbia letto questi o altri resoconti non può far altro che costatare le similitudini tra i trinceramenti in Russia e quelli della prima guerra mondiale, il problema è che si sa che la guerra successiva non è mai uguale alla precedente.
La maggior parte delle forze aeree russe vennero annientate nella primavera del 1941, ma, allungando le operazioni oltre il periodo invernale, si consentì l’arrivo di nuovi mezzi, provenienti soprattutto dagli Stati Uniti. Con l’assoluta padronanza dei cieli, ed in considerazione delle enormi distanze da ricoprire, fu un grave errore non aver utilizzato l’arma aerea per inseguire le forze russe in ritirata e colpire in profondità le riserve logistiche nemiche.
L’aviazione avrebbe potuto consentire di accorciare il fronte terrestre di alcune Divisioni, che in alcuni casi superò i 300 chilometri.
I Comandanti della componente aerea, tra l’altro, avevano brillantemente pensato di impiegare anche i velivoli caccia (poco utilizzati in virtù del fatto che praticamente tutti i bombardieri russi vennero distrutti subito), in azioni di bombardamento leggero, in picchiata contro obiettivi fissi.
Invece, ad ogni occasione, gli aerei efficienti venivano spostati su altri campi, impiegati in altri teatri vicini, sotto il comando tedesco, od utilizzati con soli compiti di ricognizione.
Le condizioni climatiche furono il principale fattore che condizionò l’impiego dei velivoli. Pur tuttavia, nell’inverno del ’41, si poté constatare quanto le rigide temperature potessero influire sull’attività dei velivoli. Tale esperienza non fu tenuta nella giusta considerazione durante le azioni della primavera ed estate del ’42, allorquando i russi iniziarono le loro azioni offensive. Non sfruttando, l’enorme opportunità dell’assoluta padronanza dei cieli, ci si avviò a dover affrontare un secondo inverno.
Ed in tale contesto la ripresa delle attività aeree russe anche in condizioni meteorologiche marginali colse impreparate le nostre forze, logorate ed esauste da quanto fino a quel momento fatto.
La superiorità aerea conseguita nel ’41 fu data per assodata dal comando tedesco.
Si legge in una lettera di Hitler del 30 giugno 1941 che “l’arma aerea russa è cattiva (…) La padronanza dei cieli è assoluta (…) l’arma aerea tedesca potrà essere distolta per rafforzare l’appoggio delle truppe di terra …”.
Ma, mentre i velivoli italo-tedeschi  non venivano sostituiti, riparati o avvicendati (dato che non vi era opposizione aerea), in campo nemico invece furono fatti arrivare nuovi velivoli, e soprattutto nuovi armamenti.
Tra gli aerei russi si menziona il caccia I18, in grado di utilizzare varie mitragliatrici ed un cannone con proiettili pesanti che “sfasciano i carri armati”, il bombardiere IL2 Shturmovick, fornito del “siluro pazzo”, che penetrava nei carri, il L760, bombardiere con 6 motori e un payload di parecchie tonnellate.
Questa differente capacità fu determinante allorquando i russi ripresero le offensive, già forti di una schiacciante superiorità di mezzi di terra.
Un secondo problema fu quello delle comunicazioni in senso lato. Non solo le nostre radio non erano in grado di coprire le grandi distanze che l’ambiente russo offriva, ma tutto l’apparato logistico, già di per sé fragile, collassò e per tutta la ritirata i nostri non riuscirono ad avere un solo rifornimento. Discorsi simili si possono sostenere anche per i tedeschi e, in effetti, i resoconti dalla sacca di Stalingrado o dalla battaglia per Mosca non si differenziano molto da quelli italiani, ma alla divisione corazzata che si ritirava con i nostri soldati fu inviato del vettovagliamento grazie ad alcuni aerei. Non solo i comandi non comunicarono con le divisioni in ritirata, ma non sapevano nemmeno se erano in movimento e dove oppure se erano già state annientate dai russi. Lo stesso ordine di ritirata fu tardivo perché ormai la situazione era compromessa, specie se si pensa che la fanteria russa avanzava con i carri armati mentre i nostri soldati erano costretti a muoversi a piedi e quindi erano infinitamente più lenti. La mancanza di comunicazione fu fatale a migliaia di uomini che si trovarono a combattere per aprirsi la strada non verso l’agognata linea del fronte amica ma verso la prigionia, che per molti di loro si rivelò letale e per altri durò più di 10 anni. La mancanza di comunicazione provocò anche la totale disunione delle colonne, perciò i reparti dovettero combattere e morire per conquistare un villaggio magari appena abbandonato da un altro reparto e subito rioccupato dai partigiani.
( a cura di massimo coltrinari  ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org)



venerdì 14 febbraio 2020

ARMIR Fronte Russo Operazione Piccolo Saturno 20 novembre 21 dicembre 1942 Considerazioni finali 2

Il principio “dell'unitarietà del comando” inteso come unica mente direttiva, in teoria è l'unico ad essere stato rispettato, ma in modo talmente esasperato che tutte le decisioni erano demandate a Hitler. Il principio cosi inteso ha il grosso difetto che al vertice della piramide si ha la visione panoramica della situazione, ma viene persa la sensazione delle concrete possibilità dei reparti. Soprattutto quando si è in carenza di forze, come lo erano i tedeschi, è essenziale che la situazione sia valutata in loco, perché solo in loco possono essere adottati i migliori e più convenienti correttivi. Questo è il corretto esercizio del Comando, non quello che intendeva Hitler e cioè gestire di persona tutto il potere militare avocando a sé ogni decisione in merito all'impegno delle riserve e ai ripiegamenti. Succede così che anche quando le decisioni sono prese, vengono comunicate alle unità in ritardo e sono ormai superate. I Comandanti ai vari livelli sono una ostentazione di volontà combattiva ed un desiderio di gareggiare con le vecchie truppe del CSIR; ma dietro questa vernice brillante si nascondeva un diffuso senso di sfiducia; esso era eco evidente della inefficace propaganda attuata in Patria e della penetrazione nociva della propaganda nemica che si diffondeva sempre più in profondità, appoggiandosi ai recenti successi inglesi In Africa. Di certo, in profondità, le condizioni del morale non erano affatto buone Le motivazioni erano molteplici: l'inverno e il freddo erano alleati dei russi e ostili agli italiani, popolo mediterraneo per eccellenza; la guerra che si combatteva non era sentita, era la guerra di Hitler; la famiglia e la casa erano lontane migliaia di chilometri.
A questo punto, riferendosi ai cinque principi classici e cioè “offensiva (iniziativa)”, “manovra”, massa, “sicurezza” e “sorpresa”, possiamo dire, senza alcun dubbio, che sono stati tutti violati.
Le motivazioni principali sono da ricercarsi:
-      negli errori commessi da Hitler nel campo della grande strategia, con la dispersione delle forze nei numerosi Paesi occupati, la scelta di obiettivi divergenti e l'ostinazione con cui ha perseguito l'offensiva anche quando i rapporti di forze, materiali e morali, non erano dei più favorevoli (battaglie di Mosca e Stalingrado);
-      nella conseguente assoluta inadeguatezza, per quantità e qualità, delle forze disponibili sul fronte orientale;
-      nell'assunzione di un dispositivo tattico e logistico troppo proiettato in avanti;
-      nell'immobilismo e nello schematismo dei Comandi ai vari livelli, ormai privi di qualsiasi fantasia operativa.
Considerando poi, sempre panoramicamente, gli altri tre principi non si può non rilevare come anch'essi siano stati profondamente disattesi in quanto l'unitarietà del comando, indubbiamente difficile da mantenere nell'ambito di Grandi Unità miste, è stata inficiata dalle eccessive ingerenze tedesche a livello strategico e tattico.
In ambito Gruppo Armate non è stata nemmeno realizzata l'economia delle forze (due Divisioni) ottenibile con un modesto arretramento dell'ala destra dell’Armata.
In sintesi, nella seconda battaglia difensiva del Don, nessun principio dell'arte della guerra è stato rispettato e il risultato, sotto il profilo militare, è stato un vero disastro. Questo tracollo, che purtroppo è costato la vita a 85.000 italiani, non è altro che una conferma, seppure triste e per certi aspetti ovvia, della eterna validità di tali regole.
In altre parole, un capo può arrischiarsi a violare qualcuno dei principi o a dare la preminenza ad uno piuttosto che ad un altro (ad esempio all'offensiva o alla massa a scapito della sicurezza), ma non può permettersi di disattenderli contemporaneamente tutti senza arrivare al rapido e irreversibile collasso dello strumento.
La presenza italiana sul fronte russo non trova giustificazione esclusivamente da una contrapposizione di tipo ideologico tra fascismo e comunismo, ma anche da elementi di pura convenienza sia politica che economica.
Vi era la convinzione, influenzata da una previsione troppo ottimistica avanzata dall’alleato tedesco, di una rapida e vittoriosa conclusione della guerra in territorio russo, e l’Italia non poteva mancare, assolutamente, ad un evento di cosi tanta rilevanza politico-strategica.
Al sorgere del conflitto, l’esercito italiano attraversava un periodo di grave deficienza derivante da un processo di riorganizzazione non ancora concluso, una situazione degli armamenti non adeguato alla sforzo bellico richiesto, mettendo le forze armate italiane in una condizione di inferiorità sia rispetto all’alleato tedesco sia rispetto al nemico russo.
Questa situazione deficitaria veniva ulteriormente aggravata dall’impiego delle forze armate italiane su diversi scacchieri operativi molto impegnativi sia in fase condotta che di sostentamento.
In contrapposizione a tutti questi elementi di vulnerabilità emerge l’impegno mostrato dai soldati italiani che hanno, nonostante la consapevolezza di una sicura sconfitta, mantenuto un morale sempre elevato e mostrato una resistenza accanita e caparbia come riconosciuto da fonti ufficiali russe.
Certamente il prezzo altissimo, in termini di sangue, pagato sul fronte russo deriva da una visione politica troppo spesso influenzata da quella predominante tedesca e da vertici militari  isolati e incapaci di influenzare la manovra generale  tedesca rea di non aver fornito, nei momenti cruciali, il necessario supporto per respingere l’offensiva nemica.
La carenza di mezzi corrazzati idonei per condurre azioni offensive, la disponibilità di armi controcarro appena sufficiente per difendersi dalle formazioni carriste operanti a sostegno della fanteria russa, l’ampiezza del settore assegnato e la non sempre sincronizzazione tra unità contigue italiane e tedesche mostrarono, in occasione della prima battaglia difensiva del Don, la totale inadeguatezza, da parte delle forze dell’asse, a contrastare l’offensiva dell’Armata russa sicuramente più determinata ed organizzata.
Tale inadeguatezza si mostrò in maniera ancor più tragica in occasione della seconda battaglia difensiva del Don quando, esaurita una prima fase di logoramento (durata 5 giorni), l’offensiva sovietica poté in soli 3 giorni conseguire notevoli successi strategici.
L’argomento in oggetto  si presta a disquisizioni di vario genere, comprese quelle di natura squisitamente politica. La tragedia dell’ARMIR, la triste conclusione della seconda guerra mondiale per il nostro Paese, merita attente riflessioni. Dal nostro studio emergono molte questioni da analizzare, dai problemi riguardanti un equipaggiamento quantomeno inidoneo ad un uso insufficiente dell’arma aerea , tutto questo nel quadro di ordini forse eccessivamente rigidi. Le perdite sul fronte russo furono enormi, considerando i caduti sul campo ed i prigionieri, troppi, che non fecero mai ritorno a casa.
La battaglia che sconfisse l’ARMIR  era solo l’ultima parte di una strategia assai complessa.
L’Operazione “Barbarossa” aveva indebolito, sfiancato, logorato i tedeschi; i Sovietici risposero con una strategia basata sulla resistenza , quella che lo schema logico di Neusen  definisce “CLOCKING IN RUN”.
(a cura di massimo coltrinari  -  ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org)

sabato 8 febbraio 2020

ARMIR Fronte Russo Operazione Piccolo Saturno 20 novembre 21 dicembre 1942 Considerazioni Finali 1


Alla luce di quanto sino ad ora esposto è doveroso fare alcune considerazioni finali e tentare di trarre interessanti ammaestramenti.
L'8° Armata era ormai in difensiva da mesi. La ripresa dell’offensiva era stata rinviata alla primavera successiva e fra i Comandi e le truppe si era determinato una specie di disarmo psicologico: in un contesto così chiaramente difensivo, il principio dell'offensiva va pertanto inteso come iniziativa. Anche in quest'ottica, il principio è stato comunque completamente disatteso, infatti ci si era adattati a subire passivamente il criterio della difesa rigida sancito dal Comando Gruppo Armate “B”, che aveva disposto “la difesa del fiume non deve essere realizzata in modo elastico, ma in modo rigido, occorre impedire ai nemico nel modo più assoluto di attraversare, anche temporaneamente, l'ostacolo acqueo, gli attacchi nemici devono essere stroncati davanti alta linea di difesa, che è rappresentata dalla sponda da noi occupata. Eccezioni a tale principio possono essere “autorizzate solo dal Comando Supremo”. Veniva cosi escluso ogni ripiegamento tattico sia ai fini della manovra, sia per ottenere un raccorciamento del fronte e una conseguente maggiore disponibilità di forze. In caso di rottura e di superamento, i reparti dovevano solo preoccuparsi di resistere ad oltranza sul posto, in attesa del “contrattacco liberatore” che, di fatto, non arriverà mai. L'Armata era così condannata ad una assurda difesa ad oltranza contro forze nettamente preponderanti. Il margine di iniziativa era perciò nullo e ciò era tenuto ben presente dall'avversario allorché concepì le varie manovre a tenaglia che provocarono i nostri successivi tracolli.
Per quel che riguarda il secondo principio, in difensiva la “manovra” si realizza essenzialmente con i contrattacchi che devono essere “istintivi e immediati”. Per effettuare i contrattacchi occorrono riserve mobili; nel caso in esame non solo le riserve non erano mobili, ma mancavano del tutto! La situazione era infatti la seguente:
a livello Comando Divisione e Corpo d'Armata, non vi erano riserve precostituite;
a livello Armata mancavano anche qui le riserve perché la “Vicenza”, la sola Grande Unità inizialmente non schierata sul Don, in realtà era indisponibile perché impegnata nella difesa retrovie e non aveva artiglierie;
la “Celere” poi, l'unica Grande Unità motorizzata e quindi la sola preziosa ai fini della manovra, era stata impiegata staticamente sul Don;
a livello Gruppo Armate: nessuna riserva era tempestivamente disponibile perché la 385° Divisione germanica era in lento afflusso a scaglioni (il primo reggimento arriverà in zona il 12 dicembre, il terzo reggimento arriverà il 19 dicembre, a battaglia conclusa) e la 27^ Divisione germanica, la sola disponibile a partire dal 15 dicembre, disponeva di una limitata capacità operativa.
In sintesi, a tutti i livelli mancava la possibilità di manovrare le forze.
Circa II principio della “massa”, l'8° Armata in realtà aveva poco da sbizzarrirsi. Tenuto conto delle poche forze a disposizione in relazione agli enormi settori da presidiare, non poteva che schierarsi a cordone sul Don. L'unica massa che si poteva ottenere era cioè una “non massa”. Infatti la carenza di riserve vista a livello Grande Unità, valeva anche ai più bassi livelli del battaglione e del reggimento; tutte le poche forze disponibili erano quindi proiettate in avanti.
II dispositivo restava comunque estremamente rado; il motivo è semplice; secondo la dottrina di allora una Divisione binaria poteva presidiare un settore di 10-14 km di ampiezza in presenza di un ostacolo difensivo, cioè circa la metà del settore mediamente assegnato alle Divisioni sul Don. Più che di densità, quindi, era opportuno parlare di diradamento spinto all'inverosimile, condizioni cioè che non solo non consentivano di realizzare la massa, ma offrivano al nemico la “chance” dì fare la “sua massa” con estrema facilità, poiché dovunque attaccava trovava solo un velo di forze.
Si consideri, in proposito, I’asserto del Clausewitz: “generalmente nell'attacco ad una sosta necessaria non succede più un secondo slancio”.
Né l'Armata poteva realizzare la massa con il fuoco: le artiglierie disponibili, insufficienti e obsolete, non potevano certo realizzare concentrazioni di fuoco massicce e tempestive; analoga osservazione vale per lo forze aeree tedesche, che attirate dalla fornace di Stalingrado, erano rimaste praticamente assenti per tutta la battaglia.
La carenza di forze non offriva certo obiettive garanzie di rispettare il quarto principio: la sicurezza.
I rapporti di forza erano decisamente a favore del nemico.
In difesa, specie in presenza di enormi spazi, si cerca di garantirsi con un dispositivo profondo o comunque prevedendo di reiterare l'azione in profondità, utilizzando le posizioni più convenienti. Sul Don, come accennato, veniva seguito il criterio opposto di proiettare tutto in avanti, senza minimamente pensare a predisporre una seconda posizione difensiva. In campo logistico, il dispositivo deve essere arretrato, scaglionato in profondità e pronto, se del caso, a ripiegare ulteriormente per non essere coinvolto dalle puntate avversarie. Anche in questo campo, invece, ci si comportò all'opposto ammassando tutto sul davanti, ciò in base a precise disposizioni di Hitler, che le prime linee dovevano disporre, in loco, di scorte di viveri munizioni e materiali pari a due mesi dì autosufficienza per resistere ad oltranza. Un ordine pazzesco, impartito al solo scopo di ancorare, in tutti i modi possibili, le truppe al Don, che tra l'altro, ormai colmato dai ghiacci, facilitava i movimenti anziché rappresentare un ostacolo. Hitler sembrava cioè pensare che se gli italiani non avessero lottato per la sua causa, avrebbero lottato per difendere i loro mezzi di sostentamento.
L'8° Armata, ancorata ad una difesa rigida sul Don, con scarsa mobilità e priva di riserve, con poche artiglierie e senza “ombrello aereo”, non era certo nelle migliori condizioni per realizzare la sorpresa (quinto principio).
Comunque anche in questo campo qualcosa avrebbe potuto essere fatto per disorientare l'avversario.
Ad esempio anziché insistere nella tattica schematica e malaccorta del resistere ad oltranza, che già aveva portalo al disastro di Stalingrado, si sarebbe potuto attuare un improvviso arretramento delle linee difensive per costringere l'avversario a far cadere nel vuoto il suo attacco. Altro modo di disorientare l'avversario avrebbe potuto essere quello di accennare, o quanto meno simulare, un attacco dove lui era più debole e cioè nel settore della 270° Divisione sovietica che fronteggiava pressoché da sola il Corpo d'Armata alpino; in altre parole si trattava di sviluppare un'azione lungo la direttrice Pawlowsk - Werch Mamon per accerchiare tutte le forze sovietiche che si erano addensate in corrispondenza del nostro II Corpo d'Armata (cioè gli effettivi di un'Armata). La contromanovra tedesca, anche solo abbozzata, avrebbe presentato molti lati favorevoli, il più importante sarebbe stato quello, come già detto, di partire dal vuoto cioè dagli 80 chilometri presidiati dalla sola Divisione che fronteggiava gli alpini. Certo l'azione non poteva essere affidata a truppe alpine, appiedate e quindi non idonee ad azioni rapide in pianura, né all'Armata priva com'era di riserve, ma a forze motocorazzate tedesche quali ad esempio le Divisioni inutilmente sottratte al Gruppo Armate e mandate a sacrificarsi a Stalingrado.

(a cura di massimo coltrinari  ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org)

domenica 2 febbraio 2020

ARMIR Fronte Russo Operazione Piccolo Saturno 20 novembre 21 dicembre 1942 Avvenimenti 19-20 Dicembre

(9)  19 dicembre:
-           Fronte del II C.A. (Vds. All. “Q”):
Nella notte avveniva l’”hand over”con il XXIV C.A. tedesco e le unità italiane avrebbero dovuto riorganizzarsi.[4]
A Taly i combattimenti proseguivano. Il Gen. Zanghieri considerava Kantemirovka non idonea come area di riordino delle unità italiane ma Gariboldi insisteva per rimettere subito in linea i reparti appena riorganizzati, i sovietici, nel frattempo, avanzavano su Kantemirovka creando panico e fuggi fuggi sulle unità che li stazionavano in attesa di riordino, tale episodio fu l’unico deplorevole avvenimento in cui venne meno lo spirito combattivo degli italiani. A Taly la situazione rimaneva grave e comunque la Ravenna, che li vi combatteva, ricevette l’ordine di farsi sostituire da reparti tedeschi in afflusso.
Nel pomeriggio il comando del XXIV C.A. prendeva atto che:
·      il fronte della 385^ era stato rotto;
·      il gruppo Feghelein stava per collegarsi con la 385^ a Taly ed aveva costituito una fronte continua.
Il XXIV intendeva proteggere la linea ferroviari Rossosc – Millerovo, nel mentre la Cosseria si stava raggruppando a tergo della Cuneense.
-           Fronte del XXXV – CSIR:
l’ordine era sempre quello di difendere le posizioni ad oltranza per limitare la breccia nella valle del Bucigar, ma con la cessione della 298^ Div. al XXIV C.A. sarebbe rimasta alle dipendenze la sola Pasubio la quale, nella notte, aveva contenuto furiosi attacchi, inoltre sulla destra non era stato possibile mantenere il contatto con la Div. Torino
-           Fronte del XXIX tedesco:
veniva ordinato un piccolo arretramento, comunque la Div. Torino rimaneva sul Don, anche se non riusciva a collegarsi con la Pasubio e già si combatteva nelle sue retrovie. Anche la Div. Celere avrebbe dovuto ripiegare leggermente. LA Div. Sforzesca era già ripiegata sul nuovo allineamento (linea Tihaja-Tcir).
Lo sfavorevole andamento assunto dalle operazioni sul fronte del II C.A., la ripresa offensiva contro il XXXV C.A. (Div. Pasubio), l’estensione degli attacchi a tutto il fronte del XXIX C.A. tedesco ed il peggioramento della situazione sul fronte della contigua 3^ Armata rumena avevano indotto il Gen. Gariboldi a prospettare al Gruppo d’Armate “B”, fin dal 17 dicembre, la possibilità di un arretramento generale del fronte per ricostituirne l continuità lineare.
Il logoramento delle divisioni italiane in prima schiera aveva ulteriormente ridotto le loro capacitò operative. L’afflusso limitato di nuove unità non offriva la possibilità di un contrattacco massiccio. Orientativamente si poteva seguire l’andamento della ferrovia Millerovo – Rossosc, lasciando invariato lo schieramento del C.A. Alpino, proseguendo a sud per collegarsi con il Gruppo Armate del Don, impegnato per ristabilire il collegamento con la 6^ Armata accerchiata a Stalingrado. Tale proposta non era stata accettata dal comando del Gruppo d’Armate “B”, in conformità a quanto stabilito dall’OKW. Inoltre l’errata interpretazione degli ordini della 298^ div. tedesca aveva lasciato aperta una breccia nella valle del Bucigar.
L’offensiva contro la Pasubio e la Celere stava conseguendo risultati. Anche il 18 il comando dell’8^ Armata aveva nuovamente prospettato la possibilità di un arretramento senza ottenere l’assenso. Solamente l’aggravarsi della situazione anche della 3^ Armata rumeno indusse il Gruppo d’Armate “B”, alle 1500 del 19 dicembre a disporre l’arretramento delle unità operanti a sud del C.A. Alpino sull’allineamento Ticho Sciuravskaja – Meskof – valle del Tcir.
Nel pomeriggio del 19 il II C.A. si stava riorganizzando, il nemico continuava la pressione sul XXIV C.A. che manteneva ancora Taly. Il XXXV-CSIR stava ripiegando ma aumentava la minaccia nelle sue retrovie. I carburanti iniziavano a scarseggiare e molti mezzi dovettero essere abbandonati. L’azione sulle retrovie da pare russa iniziava ad interrompere anche i collegamenti tra i vari comandi.


(10)   20 dicembre:
Nel settore del C.A. Alpino e del XXIV fino a Golaja non si verificavano avvenimento di rilievo. Nel settore meridionale si svolgevano i pianificati arretramenti verso sud per evitare l’accerchiamento di ingenti forze.
Il comando del Gruppo d’Armate “B”, ancora convinto della possibilità di mantenere la linea ferroviaria Rossosc -  Millerovo annullava l’ordine di ripiegamento del XXIX C.A. ma l’andamento sfavorevole sul fronte della 3^ Armata rumena rendeva il piano inattuabile.
La breccia fra Taly e Melskov era ormai irrimediabilmente libera da forze italo tedesche, e da questa data in poi, fino al marzo ’43 tutto il fronte tenuto dalle forze dell’Asse, nel sud dell’Unione Sovietica, arretrò fino al Donez. Di lì a poco anche il C.A. Alpino avrebbe dovuto iniziare una furiosa battaglia di ripiegamento per uscire dall’accerchiamento, tale battaglia sarebbe terminata il 26 febbraio ’43 con l’ultimo scontro di Nikolaijevka che suggellava la definitiva perdita di ogni capacità operativa dell’ARMIR.
Infine vale la pena menzionare alcune considerazioni relative alle operazioni aeree.
Dall’inizio dell’offensiva russa l’aviazione italiana effettuò numerose missioni di ricognizione aerea e di trasporto di materiali e personale.
Gli equipaggi proseguirono le operazioni anche quando le condizioni meteorologiche non erano del tutto idonee, e nonostante gli impianti di bordo sovente si bloccassero a causa del gelo.
Ma è solo durante le tragiche giornate della ritirata che l’opera dell’aviazione divenne rilevante, con ripetute azioni a copertura degli spostamenti.
Si citano in tale cornice i raid nella zona di Wolschino, Millerowo, Tchertkowo, e si porta all’attenzione anche il fatto che, se fino ad allora il supporto tecnico tedesco era stato buono (dati meteo, intelligence, carburante, mezzi terrestri da trasporto), con la ritirata questo venne meno.
Nel periodo di tempo in esame quindi, posiamo annotare la scarsità di operazioni aeree effettuate.
Sicuramente imputabile alle rigide temperature, alla neve ed alle condizioni di scarsa visibilità, l’insufficiente apporto dell’aviazione si andò a sommare alla spropositata differenza dei mezzi terrestri in campo, anche perché le operazioni aeree russe non furono nulle nello stesso periodo, anzi, dalla metà del dicembre ’42, grazie ai nuovi velivoli provenienti dagli Stati Uniti, i russi forzarono le attività in concomitanza con l’offensiva di terra, a dispetto del freddo e della neve.
(a  cura di Massimo Coltrianari  ricerca.cesvam@istituttonastroazzurro.org)

[1] SME- Ufficio Storico, “LE OPERAZIONI DELLE UNITA’ ITALIANE AL FRONTE RUSSO (1941-1943) 3a ed., Documenti 99, 100, 101, 102, 103, 104.
[2] SME- Ufficio Storico, “LE OPERAZIONI DELLE UNITA’ ITALIANE AL FRONTE RUSSO (1941-1943) 3a ed., pag. 361.
[3] SME- Ufficio Storico, “LE OPERAZIONI DELLE UNITA’ ITALIANE AL FRONTE RUSSO (1941-1943) 3a ed., doc. 105.
[4] SME- Ufficio Storico, “LE OPERAZIONI DELLE UNITA’ ITALIANE AL FRONTE RUSSO (1941-1943) 3a ed., doc. 106.