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giovedì 31 marzo 2016

LE OPERAZIONI TERRESTRI LE OPERAZIONI MARITTIME

Relazione presentata al convegno "La Grande Guerra" Rimini 17-18 ottobre 2008

MASSIMO COLTRINARI


La guerra iniziatasi nell'agosto del 1914 e conclusasi nel no­vembre del 1918 fu il primo grande conflitto armato dell'epoca industriale. Fu una lotta in grande per il potere economico; chiamò in causa le maggiori potenze e ne impegnò a fondo non solo le forze militari, ma tutte le energie morali e materiali. La posta in giuoco non fu la conquista di territori, ma il predominio politi­co-economico. Le armi psicologiche ed economiche vi svolsero un ruolo non meno determinante delle mitragliatrici, del filo spinato, delle navi di superficie e subacquee. Obiettivo della guerra fu l'annientamento del potenziale economico, oltreché di quello militare del nemico.
Sul piano tecnico-militare rivoluzionò i concetti di spazio, di tempo e di massa e le nuove e diverse dimensioni non furono né previste, né subito percepite, né esattamente comprese. I grandi eserciti nazionali, creati per la salvaguardia dei diritti e degli interessi dei singoli Stati, trasci­narono con il loro semplice peso le nazioni in una lotta senza limiti. I piani di guerra, una volta messi in moto, elusero il controllo dei capi politici e militari e non si lasciarono più gover­nare. Le forze militari cessarono di essere una macchina quasi a sé stante, capace, se bene oliata, di lavoro autonomo, ma diven­nero un congegno di un meccanismo assai complicato del quale condizionarono il funzionamento e dal quale furono a loro volta condizionate in misura mai vista fino ad allora.
La visione che la guerra dette ben presto di sé fu tragica. Alla  fine del 1914, dopo appena sei mesi, il conflitto non aveva più nulla in comune con quello franco-prussiano del 1870, con quello russo-nipponico del 1904-1905 e neppure con quelli più recenti localizzati nei Balcani.
Da guerra di movimento e di rapido corso, com'era stata impostata secondo le dottrine del tempo ispirate al prevalere dell'azione offensiva, si era trasformata, contro ogni aspettativa, in guerra di posizione e di logoramento.
Fallito, per una serie di motivi sui quali si è tanto discusso, il piano dello Schlieffen la guerra giunse ad un punto morto per uscire dal quale nessuna delle due parti possedeva la chiave di volta.
Dopo gli scontri iniziali conclusisi senza decisione, la guerra ristagnò nelle trincee; mancò il mezzo per rendere tatticamente attuabile ciò che era strategicamente desiderabile. A quel punto l'alternativa fu tra la soluzione diplomatica e la lotta di logoramento

Ad un accordo onorevole non avrebbe dovuto essere d'impe­dimento l'avvenuta occupazione di qualche provincia, mentre alla lotta di logoramento avrebbero dovuto opporsi il senso politico e la consapevolezza del reale. Prevalsero l'irragionevolezza e l'incom­prensione dell'avventura alla quale si sarebbe andati incontro.
Il fallimento del piano Schlieffen ebbe una conseguenza deci­siva: impedi alla Germania di vincere la guerra. Quali ne siano stati i motivi - l'incapacità professionale del Moltke iunior  non fu l'ultimo - era troppo tardi quando il Falkenhayn, succeduto al Moltke nella carica di capo di stato maggiore il 14 settembre, volle ritentare l'impresa non riuscita al predecessore.

Quando la Dottrina non da risposte sufficienti per gestire gli avvenimenti, occorre interrompere subito questi avvenimenti e ripensare. Se si continua senza indicazioni di sorta, si va incontro a disastri, come è successo,APPUNTO, nella prima guerra mondiale

I numerosi tentativi del Moltke e del ]offre miranti ad aggirare il fianco occidentale dell'avversario erano andati a monte; ad ottobre la battaglia intrapresa attorno a Ypres non dimostrò altro che si era determinata la superiorità della difesa sull’attacco. La battaglia di Ypres permise ai franco-britannici di realizzare la continuità del fronte tra la Svizzera ed il mare determinando così quella situazione di stallo della guerra sul fronte occidentale dalla quale nessuna delle due parti , nonostante i tentativi per aggirarla o batterla, riuscì nell’intento nei successivi quattro anni di guerra.
 Elencare le battaglie che si sono succedute rappresenta un mero esercizio scolastico di elencazioni di fatti: la realtà che tutte le operazioni fino allì11 novembre 1918 sono una dimostrazione chiara della superiorità della difesa sulla offensiva, in cui non furono trovati rimedi sostanziali.
 Nel corso della guerra i tedeschi provarono a sfondare o aggirare il fronte avversario 2 volte
-                 la prima il 21 febbraio 1916 a Verdun[1]
-                 la seconda il 21 maggio del 1918 sul fronte della Somme
I Franco britannici nel 1915 lanciarono quattro offensive, due nell’Artois[2] e due nello Champagne[3]; nel 1916 la grande offensiva della Somme, che protrattasi da maggio a settembre, non ottenne che 30 km quadri di territorio strategicamente insignificanti e la perdita di 500.000 uomini contro 268.000 tedeschi
     Nel 1917, dopo quella del gen. Neville, che impegnò la 1, la 3 e la 5 armata francese e cinque Armate Britanniche conseguì vantaggi territoriali insignificanti nell’Artois e nello Champagne. Poi l’offensiva di Haig nelle Fiandre dall’ 11 luglio al 10 novembre costò 240 mila uomini  per la conquista di due alture.
 L’unica offensiva del 1917 che avrebbe potuto avere effetti strategici rilevanti fu quella tentata a Cambrai ove, senza preparazione di artiglieria, furono lanciati 300 carri armati contro la linea Sigfrido, riuscendo ad aprire una breccia di 6 km e profonda 8  catturando 10 mila prigionieri tedeschi e 200 pezzi di artigliaria contro la perdita di 1500 uomini. Ma il successo andò in fumo perché l’unica riserva disponibile per sfruttarlo era la cavalleria,quella montata, la cui mobilità era stata da tempo neutralizzata dalle armi moderne.
La scarsa attenzione dei tedeschi al carro armato fu pagata amaramente ed ebbero modo di pentirsi amaramente. L’'8 agosto 1918 il generale inglese Rawlin­son, nel quadro della controffensiva alleata, lanciò all'attacco 456 carri armati, evento che indusse successivamente il generale tedesco Zwhel a dire: «non fu il genio del maresciallo Foch a batterci, ma il generale Tank» ed il generale Ludendorff a scri­vere: «gli attacchi in massa dei carri armati... rimasero da allora in poi il nostro più pericoloso nemico» . Un poi che ebbe bre­ve durata, perché le enormi perdite subite nell'offensiva del mar­zo-luglio 1918 ma soprattutto lo scoramento che invase i Capi tedeschi in seguito all'insucces­so, ovvero alla incapacità culturale e dottrinale di fare fronte alla nuova arma, indussero i tedeschi in uno stato di prostrazione,soprattutto motivazionale, tale da confes­sarsi battuti, quando ancora vi era ampio margine di possibilità operative sole se si fosse adottata una dottrina e procedimenti d’impiego totalmente diversi ed innovativi.

Fronte Orientale
Sul fronte orientale, nonostante le oscillazioni di 80 km dall’indietro in avanti, impensabili sul fronte occidentale, si ebbe lo stesso carattere di logora­mento. Anche qui ogni operazione  fu impostata su di una strategia e su di una tattica perlopiù eguale a quelle del fronte occidentale.
La guerra si iniziò in maniera diversa da quella  ipotizzata dai piani diligentemente preparati in tempo di pace: gli Austro-ungarici, contro ogni attendibile aspet­tativa, furono respinti dai Serbi ed i Russi si mossero con rapidità maggiore di quella immaginata e preventivata riuscendo a battere a Gumbinnen, il 20 agosto 1914, l'armata tedesca lasciata a guardia della Prussia orien­tale e della Slesia. Hindenburg  e Ludendorff, spediti in fretta dal Moltke per rimediare alle conseguenze di Gurnhinnen, approva­rono il piano nel frattempo elaborato dal colonnello Hoffmann dello Stato Maggiore dell'armata battuta, consistente in un'audace manovra per linee interne, e vinsero prima a Tannenberg (26-29 agosto) poi il 6-14 settembre ai Laghi Masuri  contro le armate di Rennenkampf  e si Samsonov.
Anche sul fronte orientale siamo di fronte all’attacco frontale ed alla guerra di logoramento, la quale si sviluppa, come si è sviluppata essenzialmente lungo un fronte più o meno esteso  e continuo sul quale i sistemi politico-militari belligeranti fanno affluire le proprie risorse, fino a consumare quelle di cui dispone il contendente più debole o comunque fino al momento in cui si verifica il cedimento psicologico  di uno dei due contendenti.
Le battaglie offensive non produssero mai effetti strategici diretti e non furono meno sanguinose di quelle combattute altrove. Nei soli anni 1915 e 1916 i russi persero 3 milioni di uomini. Anche qui fu l'insuc­cesso di una grande offensiva a provocare il crollo morale dell'im­pero degli Zar, ridotto in verità a mal partito anche dal punto di vista materiale: i Russi, alla fine, come i Tedeschi e gli Austro­ungarici l'anno dopo, furono stanchi di morire senza uno scopo plausibile contro le barriere trincerate nemiche.
d'armi della guerra 1914-1918» (20) - e successivamente (6-14 settembre) ai laghi Masuri le armate di Rennenkampf e di Samsonov. Nel novembre-dicembre 1915 Ludendorff colse a Lodz una nuova vittoria che ebbe per effetto l’irrigidimento  del fronte ed il passaggio alla guerra di logoramento.
Le operazioni navali
Le operazioni navali ebbero lo sviluppo classico, sulla falsa riga di quelle terresti. La battaglia delle Jutland svoltasi dal 31 maggio al 2 giugno del 1916, ove furono coinvolte 254 navi fra tedesche ed inglesi, la più grande battaglia navale di tutti i tempi, né è l’esempio calzante.
Lo scontro fu la risultante della corsa agli armamenti navali che avevano interessato la Germania Imperiale e l’Impero Britannico. Ciò era costato molto in termini economici, ma non portò la Germania ad essere in grado di minacciare il primato inglese sul mare. Anche qui errori strategici di fondo: entrambi i Paesi investirono su un tipo di nave la cui validità era molto discussa, vale a dir egli incrociatori da battaglia. Queste costosissime navi univano la velocità e la manovrabilità di un incrociatore alla potenza di fuco di una corazzata, ma rispetto alla corazzata erano più vulnerabili.
La battaglia si fonda su una serie di errori da entrambi le parti, il primo dei quali fu madornale da parte tedesca. L’ammiraglio Scheer, comandante  della Flotta d’alto mare tedesca ignorava che i comandi britannici erano in possesso del codice segreto delle comunicazioni radio dello Stato Maggiore tedesco, caduto in mano nemica a seguito della cattura dell’incrociatore Magdeburg.[4] Mentre era in navigazione nello stretto dello Skeherrak, iniziò ad usare questo codice, rilevando così la posizione ed i suoi movimenti al Comando Inglese. Gli inglesi oltre a questo vantaggio avevano anche quello del numero: disponevano di 28 corazzate monocalibro e 10 incrociatori da battaglia, mentre i tedeschi disponevano di 16 corazzate monicalibro e 5 incrociatori da battaglia (rapporto 8 : 5 a loro favore)
LA battaglia si svolse in due fasi  al termine della quale gli inglesi persero il doppio delle navi e più del doppio degli uomini dei tedeschi per un totale di 115.000 tonnellate inglesi contro 61000 tonnellate tedesche, 6100 morti contro 2550 tedeschi.[5] Fu la più grossa sconfitta tattica subita dalla Royal Navy, sconfitta ancora più amara e scottante in quanto si tratto solo di uno scontro d’artiglieria classico, avutosi contro un avversario impreparato, senza tradizione navale, inesperto e in svantaggio  per ben due volte il numero di navi.
Ma questa battaglia non incise sull’andamento strategico della guerra. La vera guerra fu combattuta dall’arma subacquea tedesca contro i rifornimenti che dal nuovo mondo raggiungono l’Europa e l’Inghilterra in particolare. L’Alto comando britannico ebbe delle esitazioni nel ricorrere al sistema dei convogli e non comprese l’utilità di questa soluzione. Le perdite inflitte dai sommergibili tedeschi furono tali che portarono la Gran Bretagna e la Francia quasi sull’orlo della disfatta. Per fare un paragone, la situazione fu peggiore in questo settore nella Prima Guerra Mondiale che nella Seconda: almeno la lezione per gli Inglesi era servita.   
Così come nelle battaglie terrestri anche in quelle navali non rifulse la capacità di impiego dei mezzi a disposizione in modo tale che si potesse giungere ad una vittoria definitiva.
Anche qui l’incapacità di comprendere la situazione reale e prendere provvedimenti tali da evitare disastri e perdite evitabili.

Lo stallo tattico
Questo quadro generale delle operazioni porta alla considerazione che nella prima guerra mondiale la decisione del conflitto veniva ricercata attraverso il confronto esclusivo tra sistemi militari contrapposti, secondo i canoni della strategia diretta, fortemente influenzata dalla concezione napoleonica messa in sistema ed elaborata dottrinalmente dallo Stato Maggiore tedesco, con i suoi grandi esponenti tra i quali il Klausewitz è d’obbligo citare. 
La prima guerra mondiale sotto il profilo delle operazioni militari si svolse sul questo canovaccio, ciòè sui procedimenti della guerra classica. Il risultato fu conseguito quando la Germania e l’Austria- Ungheria non ebbero più risorse morali, e prima che materialmente,  cedettero psicologicamente inizialmente  nei propri capi poi nel popolo. Nel novembre del 1918 non furono più i grado di contenere la potenza militare degli alleati e vennero costretti alla capitolazione anche dallo scoppio delle rivoluzioni interne e moti politico-sociali interni. Da notare che la potenza militare era ancora abbastanza consistente da condurre almeno un altro anno di guerra.
Quattro anni di offensive a cui si risponde con difensive ancora più caparbie, sia in terra che in mare: si inventano armi e mezzi nuovi, ma non si giunge a nessuna conclusione, tale da conseguire la vittoria, che è lo scopo per cui si è dichiarata la guerra. La Nazione brucia intere generazioni di uomini, brucia risorse immense ma non ottiene nulla in cambio.
Il perché di tutto questo è da ricercarsi in quello che si può definire lo “stallo tattico”, ovvero le forze militari non riescono a sopraffarsi con l’impiego delle armi e non si determina ne il vinto nel il vincitore.
Il fallimento della offensiva
  Lo studio, e purtroppo non vi è lo spazio per la descrizione, delle operazioni condotte, anche se in forma succinta, porta alla conclusione oggettiva che si è di fronte al fallimento dell’offensiva.
Su questo fallimento quanto abbiano influito, talvolta più talvolta meno, in qualche caso tutti ed in qual­che altro solo parte, la scarsa o nulla unità di comando e di direzione strategica, l'insufficiente preparazione dei comandi e degli stati mag­giori, il maggiore o minore grado di addestramento delle unità, l'abi­lità o l'imperizia dei Capi, la migliore o meno buona qualità delle armi e dei mezzi, la maggiore o minore disponibilità del supporto industriale, agricolo e logistico, è un mero esercizio in termini relativi. In termini assoluti il fallimento della offensiva è un dato reale.
 E', peraltro, fuori discussione lo spirito combattivo che animò la grandissima maggioranza dei soldati di en­trambe le parti, i quali avrebbero meritato capi politici e militari più esperti valenti, accorti.
Nonostante le eccezioni, naturalmente, proprio la direzione della guerra fu carente. La maggioranza furono inclini al distacco mentale ed all'isolamento nei quali spessissimo si collo­cano, o si lasciano collocare, coloro che occupano le supreme posi­zioni militari.  Troppo peso dato alle considerazioni strategiche ri­spetto a quelle tattiche, l'attaccamento quasi fideistico alle teorie ed agli schemi del passato, la chiusura mentale alle innovazioni, l'abban­dono di taluni principi insurrogabili della lotta, furono gli errori più comuni che produssero il logoramento morale e materiale delle pro­prie più che delle altrui forze. I decisori militari, o come si direbbe oggi, gli stockholders, continuarono a credere che l'azione offensiva fosse solo problema di superiorità numerica e di disciplina delle unità e dei singoli e mortificarono cosi l'arte e la scienza della guerra; non sapendo ideare una nuova tattica efficace da portare al servizio della strategia, insistettero nell'attaccare ad ogni costo e ad oltranza indipendentemente dai morti che seminavano, dimentichi che la bravura del capo sta nel cogliere la vittoria con il minore numero possibile di perdite. E questo non lo si poteva ottenere con il movimento allo scoperto di masse di soldati, in for­mazioni serrate, agenti per ondate successive contro baluardi trin­cerati e con sulle spalle un peso che era quasi la metà di quello del loro corpo.

Anche le offensive bene impostate e condotte non sentirono effetti strategiçi decisivi o perché non consentirono la creazione di brecce sufficiente­mente ampie e profonde attraverso i baluardi difensivi o perché quelle che permisero tale risultato ne inibirono lo sfruttamento stes­so.
Gli errori sono evidenti: Manovra frontale voleva dire rinunzia alla combinazione di più sforzi manovrati e di più direttrici convergenti e, conseguen­temente, ricorso ad azioni parallele e ad avanzate frontali; rompere significava rimuovere o distruggere l'ostacolo e neutralizzare il fuoco nemico; penetrare era come dire realizzare la continuità e la coordina­zione del proprio movimento con il proprio fuoco; dilagare significava correre in profondità senza ridurre nel progredire la potenza della falcata e della progressione nello spazio.
Gli Imperi Centrali non riuscirono a formare la massa sui punti decisivi; l’Intesa disperse le forze in sforzi non coordinati o non sempre utili nel tempo e nello spazio nell’interesse comune
Di fronte al dominio, ben presto incontra­stato, del binomio mitragliatrice fortificazione, l'attacco fu colpito da paralisi, sia perché la potenza distruttrice dell'artiglieria da campagna era assai limitata ai fini della distruzione dell'ostacolo passivo, sia perché la cooperazione tra fanteria ed artiglieria presentava troppe alee ed interruzioni per garantire lo sviluppo e la continuità della penetrazione nell'interno del sistema difensivo nemico.

La evoluzione della Dottrina
Fu lo Stato Maggiore dell’Esercito Tedesco ad influenzare per l’intera durata dell’arco delle guerra l’evoluzione della dottrina e delle tecnica d’impiego nei riguardi dell’azione difensiva. Esso ela­borò di volta in volta, sulla base dell'indagine teorica e soprattutto dell'esperienza che veniva compiendo nei vari scacchieri e nelle varie situazioni, criteri, provvedimenti e modalità che, particolarmente in materia di difesa, nessun altro stato maggiore seppe eguagliare. Al modello, anzi ai modelli tedeschi, si uniformarono di volta in volta, chi più chi meno, adattandoli e perfezionandoli, gli eserciti di en­trambe le coalizioni talché le varie dottrine e tecniche finirono quasi sempre, prima o poi, per assomigliarsi.
E’ sorprendente che gli Stati Maggiori degli eserciti impegnati nella guerra non siano stati in grado di elaborare percorsi alternativi a quelli proposti dallo Stato Maggiore tedesco: anche qui si coglie la impossibilità di essere propositivi.
Dottrina e tecnica dell’azione difensiva ebbero una evoluzione lineare e costante senza ripensamenti ed evoluzioni mirante al progressivo aumento  dell'inespugnabilità ricercata questa nell'incremento e nel perfezionamento della tecnica fortificatoria e nell'esal­tazione delle caratteristiche di profondità, elasticità e reattività.
Dall'inizio alla fine della guerra, in una trama sempre, più fitta ed intricata, le mitragliatrici, i reticolati e le trincee dettero alla difesa la superiorità sull'attacco e determinarono l'equilibrio statico tra le due azioni rimasto tale fino all'avvento del carro armato.
La trincea divenne la linea di combattimento, sulla quale si doveva per ragioni operative, e nello stesso tempo morali e po­litiche, resistere o morire.
La evoluzione della dottrina tattica offensiva fu meno lineare, soggetta a ritorni involutivi, non risolutiva del problema, che vagò a lungo alla ricerca della formula idonea a rompere l'equilibrio statico nei riguardi della difesa e che non seppe comporla nei giusti ter­mini, o quanto meno non ne percepì l'esatto valore, neppure quando ebbe a disposizione il mezzo - il carro armato - per farlo. Il fallimento delle dottrine offensive in vigore all'inizio del conflitto aveva colto di sorpresa tutti gli eserciti, compreso il tedesco che pure disponeva di un'artiglieria superiore per quantità e qualità e soprattutto di obici pesanti meglio idonei a distruggere l’ostacolo.
La lotta tra attacco e difesa divenne impari; questa disponeva di spada e di scudo l’attacco solo di lancia  che lunga che fosse fini quasi sempre perspezzarsi senza forare lo scudo, o quando vi riuscì non ebbe lo scatto e la distenzione necessari per l’affondo, che venne sempre parato o schivato, magari, come sul fronte orientale con un lungo salto all’indietro sena perdere peraltro il cotrllo dell’arma.
Delle tre fasi della manovra di rottura:
a)              l’apertura della breccia, venne in un primo momento affidata all’artiglieria
b) La seconda alla fanteria
c) E la terza il dilagamento  e sfruttamento del successo alla Cavalleria
I risultati furono tutti deludenti.
L’artiglieria non riusciva a distruggere l’ostacolo passivo;
 la fanteria con i propri mezzi e con i procedimenti in vigore, non fu assolutamente in grado di muovere con rendimento operativo accettabile nel dedalo delle superstite difese passive ed attive
la cavalleria non riusciva a dilagare per effetto della incapacità di avere mezzi idonei.
Di fronte alle ecatombe di fanteria le cui ondate successive si accavallavano l’una sull’altra la seconda calpestando i morti della prima e via dicendo, , si otteneva la conquista di qualche decina di metri, assolutamente insignificanti sul piano tattico e sul piano strategico.
Come si cercò di porre rimedio
Quando verso la fine del 1917 i tedeschi, dopo circa tre anni, decisero di passare nuovamente all'azione offensiva sulla fronte oc­cidentale, avevano pronta una nuova tattica che esperimentarono pri­ma a Riga e poi a Caporetto. Con la tattica dell'attacco contro i punti deboli che essi adottarono, intesero: restituire alla fanteria il compito della conquista degli obiettivi; conferire alla fase di pene­trazione carattere di potenza, continuità e flessibilità, da essi stessi sottratto con la tattica d'intermittenza; rimettere in auge i principi della sorpresa, dell'inganno e del1'economia materiale delle forze per troppo tempo disattesi. La nuova tattica, alla quale ben presto si uniformarono gli altri eserciti e che costituirà la base delle dot­trine offensive tra la prima e la seconda guerra mondiale, poggiò sui seguenti criteri fondamentali: preparazione dell'artiglieria non superiore alle 3-5 ore; mascheramento dello sforzo principale me­diante il ricorso a sforzi finti di potenza iniziale non inferiore a quella dello sforzo principale; continui spostamenti di truppe nelle retrovie per disorientare il difensore; riduzione e, se possibile, an­nullamento delle soste attacco durante, mediante stretta cooperazio­ne fanteria-artiglieria che assicuri, finché possibile, l'appoggio mobile di fuoco, e mediante lo stretto coordinamento del movimento dei reparti fucilieri con il fuoco dei nuclei mitraglieri e lanciagranate, delle bombarde e dei cannoni di accompagnamento; sostituzione nelle formazioni della fanteria della riga con la fila come la più idonea al movimento e "la meno vulnerabile; riduzione della densità della ca­tena.

Prendere posizione durante la notte, non logorarsi contor i punti forti, sfruttare le occasioni favorevoli, insinuarsi nelle zone di maggiore facilitazione e di minore resistenza, non gettarsi in massa contro la fronte ma sondare i punti deboli, avvilupparli e non battere contro di essi: questi furono i canoni della nuova tattica e che modificarono sostanzialmente le operazioni terresti nel 1917 e 1918.
Ma trovata la soluzione per le prime due fasi della manovra di rottura non fu trovata la soluzione perche non vi erano i mezzi, per la terza fase, il dilagamento e lo sfruttamento del successo per trasformare il successo tattico in successo strategico.
Questa incapacità è da addebitarsi ai mezzi in dotazione alla cavalleria. Troppo legata al passato, al cavallo, alle tradizioni, non era riuscita a trovare il mezzo idoneo: La sua iniziale insufficienza di capacità,operativa era venuta aumentando in proporzione geometrica con il progressivo accrescimento della robustezza delle difese, non era stata non era e non sarà mai più in grado di esprimere la potenza necessaria a sfondare le barriere difensive che incontrava in profondità e neppure a prevenirvi il nemico che a ragione le predisponeva cosi lontane.
 La forza della tradizione, lo spirito di sacrificio, il coraggio, il valore non erano più sufficienti a superare la debolezza costituzionale dei mezzi in dotazione, inidonei e vulnerabili.

La difesa ebbe sempre modo e tempo di correre alla parata anche quando l'attacco ruppe il muro e riuscì a sboccare in campo aperto, dove giunse però quasi sempre esausto e logoro, privo cioè della forza psicologica e materiale per spingersi con slancio in profondità. La cavalleria, in conclusione, non fu egualmente in grado di svolgere il suo compito principale e dovè appiedare per combattere con procedimenti infantieristici nel­l'ambito delle azioni tattiche delle divisioni e dei corpi d'armata, venendo meno ai suoi compiti di arma,  ne inficiava l’esito finale.

Le operazioni terrestri e navali ebbero queste caratteristiche che furono la matrice della evoluzione dottrinale fra le due guerre negli anni venti e soprattutto negli anni trenta e poi la base dei criteri operativi applicati nel corso della seconda guerra mondiale.
Quanto successe nel 1918 fu il riferimento per cambiare: finalmente  si ricorse alla strategia indiretta, ovvero agire per vie diverse, con le finalità di colpire soprattutto il sistema politico-sociale avversario e distruggere il consenso della sua opinione pubblica alla  prosecuzione delle operazioni militari come premessa alle azioni sul terreno; poi superare lo stallo tattico, riportare l’offensiva ai suoi reali valori e superare con la tecnologia disponibile i mezzi messi in campo dalla difesa.
La “summa” di tutto questo è quanto elaborò Liddell B. Hart con il suo “British way of Warfare”, ovvero la diversione strategica ed quanto si trova nel “ Blitzkrieg tedesco”, ovvero la penetrazione in profondità e attacco alle connessioni intrinse nemiche. Da qui le mosse per evitare le immani carneficine della Prima Guerra Mondiale, che rimane uno dei ricordi più pesanti di questa guerra, la quale ha insegnato ed insegna che la cultura, le idee, lo studio sono la base di ogni attività militare brillante ed efficace.




[1] La battaglia di Verdun, impegna per cingerla prima che l’impero britannico fosse in grado di intervenire con l’esercito professionale che Lord Kichcner stava preparando, ancorché condotta su un piano di battaglia estremamente intelligente e secondo la tattica appropriata all’attacco di fortezze, preponderanza della artiglieria ed economia di fanteria, ebbe termine con la vittoria della difesa. I francesi vi persero 419 uomini , mentre i tedeschi ne persero 350.000 mila. Al termine i tedeschi, che avevano inizialmente guadagnato posizioni e terreno, si ritrovarono sulle basi di partenza.
[2] La prima  20 dicembre 1914- 15 gennaio 196 e 16 febbraio-20 maggio 1915; la seconda  9 maggio- 27 maggio .
[3] Spiegatesi nell’autunno non ebbero altro risultato che la perdita di 190 mila.uomini fra gli Alleati e 50 mila fra i tedeschi.
[4] Dal momento che nessun ufficiale responsabile aveva avuto il coraggio di denunciare la grave infrazione ai superiori, il 30 maggio 1916, Scheer, in navigazione nelle acque dello stretto dello Skegerrak, un lungo braccio di mare tra la Danimarca e la costa meridionale della Norvegia, continuò ad usare questo codice. Decrittati i messaggi dell'ammiragliato tedesco, il capo della flotta inglese, l'ammiraglio Jellicoe, ordinò a tre squadre di navi di linea di prendere il mare la sera stessa e di puntare ad est alla massima velocità con l'obiettivo di inchiodare e affrontare il nemico proprio nello stretto dello Skegerrak. Dall'altra parte Scheer, a bordo della Friedrich der Große, non sospetta nulla dell'avanzata della Grand Fleet.

[5]L'alto numero di morti è spiegabile dal fatto che l'Indefatigable, l'Invincible e la Queen Mary furono colpite e affondate con un'unica fortissima salva, inabbissandosi così rapidamente da impedire il recupero degli equipaggi, mentre da parte tedesca le perdite furono incredibilmente limitate; persero solo l'incrociatore da battaglia Lützow, la nave di linea Pommern, gli incrociatori leggeri Wiesbaden, Elbing, Frauenlob, Rostock, nonchè 5 torpediniere.

sabato 26 marzo 2016

Il Salvataggio dell'Esercito Serbo: la figura dell'ammiraglio Cutinelli

Venne quindi la guerra mondiale, e Cutinelli ebbe la responsabilità delle operazioni nel Basso Adriatico, quale Comandante della Seconda Squadra. In questo incarico, egli portò a termine la sua impresa più grande, il salvataggio del governo e dell’Esercito Serbi, nientemeno che 250 mila uomini, prelevandolo da Durazzo e San Giovanni di Medua, e trasportandolo in salvo, malgrado la violenta reazione della forze austriache di terra e di mare. L’Esercito serbo, dopo un congruo periodo di cure e di riposo, fu poi inviato a Salonicco, dove aprì, insieme agli altri Alleati, proprio quel fronte macedone, che fu infine sfondato nell’autunno del 1918, causando la rivolta di Berlino e la fine della guerra.
Di questa impresa, i cui aspetti organizzativi fanno ancor oggi drizzare i capelli in testa, per la loro complessità, voglio citare due riconoscimenti. Il primo è una lettera, scritta dal Ministro degli Esteri serbo, a nome del re Pietro, che dice:
“Signor Conte,
l’evacuazione dei rifugiati serbi dall’Albania essendo compiuta, mi fo debito di manifestare a Vostra Eccellenza i più sinceri ringraziamenti del Governo del mio Re per il concorso premuroso ed efficace, come anche per quello degli ufficiali vostri dipendenti e delle altre autorità navali di Brindisi, mercè le quali il recupero ha potuto aver luogo in modo tanto rapido e soddisfacente.
Vogliate gradire, Eccellenza, l’assicurazione della mia considerazione più alta”[1].
Il secondo documento, che descrive anche meglio quanto complesso fosse stato questo impegno, è un rapporto, a firma del Duca degli Abruzzi, Comandante in Capo dell’Armata Navale, che dice, sull’Ammiraglio Cutinelli:
“Come Comandante della 2ª Squadra, seguendo le direttive del Comando in Capo d’Armata, ha avuto per vari mesi a Brindisi la direzione di tutte le importanti operazioni che si sono svolte nel Basso Adriatico: lo sbarco del corpo d’occupazione in Albania, il vettovagliamento dell’Esercito Serbo a San Giovanni di Medua e a Durazzo, l’evacuazione delle truppe serbe dai porti dell’Albania e da Corfù, la ritirata delle nostre truppe da Durazzo a Valona. Tutte queste operazioni, nonostante le difficoltà provocate dalla scarsità dei mezzi disponibili e dalla vicinanza di munite basi nemiche, sono state portate felicemente a termine mercè le saggie (sic) ed avvedute disposizioni date dal Vice Ammiraglio Cutinelli che ha dato prova, in quella circostanza, di possedere tutte le qualità militari e politiche necessarie a chi è chiamato ad esercitare alti Comandi Navali.”
Questo rapporto, inutile dire, finisce con una nota di rimprovero, subito sottolineata con la matita rossa dal Ministro:
“sarebbe elemento prezioso per la Marina se concorresse sempre, con tutte le sue eminenti qualità, ad assolvere i compiti che gli vengono affidati”. Come si vede, il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Per il suo ruolo in questo importante successo, gli venne conferito il grado di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia.
Tralascio il seguito della carriera dell’Ammiraglio, che fu travolto, all’inizio del 1918, dalla serie di avvicendamenti partiti con la destituzione del Duca degli Abruzzi. Le ragioni di questo repulisti furono tante, a cominciare dal cattivo andamento delle operazioni nel Basso Adriatico, dove ci si era limitati a reagire alle improvvise incursioni austriache contro lo sbarramento del Canale d’Otranto, senza conseguire i successi che si sperava.
Per ragioni di giustizia, va detto che, dopo il suo avvicendamento, le cose non cambiarono di molto. La strategia attendista dell’Ammiraglio si basava sulla constatazione che gli Austriaci, malgrado le punture di spillo che potevano procurare all’Intesa, in quel bacino, avevano i giorni contati, e lo si vide con gli ammutinamenti che scoppiarono a Cattaro, prima che altrove. La politica, peraltro, voleva azioni, anche se inutili, e questo segnò il tramonto del nostro personaggio.
Il colpo di grazia, per l’Ammiraglio Cutinelli, venne però dall’inchiesta sul tragico affondamento, per sabotaggio, della corazzata Leonardo da Vinci, che puntava il dito sul lassismo dei servizi di guardia a bordo delle navi maggiori, da vario tempo confinate a Taranto.
L’Ammiraglio Cutinelli, che da soli due mesi aveva preso il Comando in Capo della Prima Squadra, fu considerato responsabile ed invitato a dare le dimissioni. Da allora, dopo due anni come Commissario Governativo del porto di Napoli, incarico nel quale fu riempito di elogi – d’altra parte, era un organizzatore senza pari – l’Ammiraglio si ritirò a vita privata, prima a Napoli e poi a Roma, dove morì nel 1925. Un anno prima della morte, gli arrivò la promozione a Vice Ammiraglio d’Armata, ed un breve richiamo in servizio, una piccola compensazione per i torti subiti.
La sua storia è l’esempio di come, dopo aver conseguito una vittoria importante, l’artefice di questa debba scomparire dalle scene, per far rimanere intatta la sua fama. Non è necessario che egli muoia, come accadde a Nelson, basta ritirarsi in buon ordine, come fece il Comandante Cerrina Feroni o, ai nostri tempi, fanno i più famosi allenatori di calcio.



[1] JACK LA BOLINA. Esempi di virtù navale italiana. Paravia, 1941. pg.86.

mercoledì 23 marzo 2016

Il Salvataggio dell'Esercito Serbo: Un libro di estremo interesse

Riedizione del volume a titolo “Per l’Esercito Serbo” di Paolo Giordani
curato dalla Dott.ssa Mila MIHAJLOVIĆ

PER L’ESERCITO SERBO - UNA STORIA DIMENTICATA"Informazioni della Difesa", 2014, pp.128, Libro non in vendita
Per informazioni: mila.mihajlovic@gmail.com.

A cent'anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, questo volume, 
di inestimabile valore storico, rievoca una delle più importanti e vaste operazioni
 umanitarie di tutti i tempi che ha, a sua volta, indirizzato la vittoria e l'andamento della storia europea.   
Alla fine del 1915, l'Esercito serbo, stretto dalle armate degli imperi Centrali,
 dovette ritirarsi nel pieno dell'inverno, attraverso i monti albanesi. Giunse sulle coste

 dell'Adriatico e il salvataggio di un intero esercito fu quasi esclusivo compito d'Italia.
  Il lavoro della nostra Marina da guerra fu sovrumano. L'evacuazione dell'Esercito 
serbo coinvolse centosettanta navi nella stagione avversa, su uno specchio di mare
 strettissimo, navigando su rotte obbligate e lungo spiagge aperte, flagellate da tutti i 
venti e senza un posto d'approdo.
Dal 12 dicembre 1915 al 29 febbraio 1916, furono imbarcati e trasportati in salvo
 136.000 soldati serbi e altri 11.651 ammalati e feriti, cavalleria di oltre 13.000 
uomini e 10.000 cavalli, quasi 23.000 soldati austriaci, prigionieri dell'Esercito
 serbo, 22.000 tonnellate di viveri, foraggi, medicinali e materiali vari e 50 pezzi 
d'artiglieria serba.
L'impresa della nostra Marina, fin'ora poco conosciuta, può essere paragonata 
a quanto avvenne nella Seconda Guerra mondiale tra il 25 maggio e il 3 giugno 1940
 a Dunkerque nella Francia settentrionale, che vide lo sgombero di oltre 300.000 soldati inglesi e francesi.
Tale salvataggio fu determinante per la vittoria degli Alleati a somiglianza, 
possiamo dirlo ora, di quanto avvenuto nell'inverno 1915/1916 sulle coste 
albanesi.  Resta comunque impresso nella nostra storia militare quanto
 disse il colonnello Mitrovitch, capo del Quartier Generale serbo, nel salutare negli 
ufficiali e negli equipaggi dell'incrociatore "Città di Catania" tutta la Marina italiana, 
a cui si disse fiero di rendere l'omaggio affettuoso e riconoscente del popolo 
di Serbia: "Bene è intesa ed apprezzata dall'Esercito serbo la vostra opera
 nobilissima.. Ora e sempre per quest'opera vi accompagnino, o marinai d'Italia,
 la gratitudine e i voti di tutta la Serbia, che sulle vostre navi oggi rinasce per affermare
 il suo sacro diritto all'esistenza contro l'aggressione e l'oppressione nemica".
L’opera rappresenta la riedizione del volume a titolo “Per l’Esercito Serbo” di
 Paolo Giordani, stampato in Italia nel 1917, di cui esiste anche una edizione 
francese corredata da foto dell’epoca.
L’attuale edizione, dedicata a tutti i militari italiani e serbi uniti nella sofferenza e nella
 vittoria della Prima Guerra Mondiale, curata dalla Dott.ssa Mila Mihajlovic, ripropone 
l’antico testo in italiano con la contestuale versione in lingua serba. La parte 
redazionale è stata curata dal direttore e dallo staff della rivista
 “Informazioni della Difesa”.
Pier Vittorio Romano