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domenica 18 febbraio 2018

1914 La Grande Guerra III



 La dottrina dell’Esercito Tedesco.



Di pari a quella francese (post in data 22 gennaio 2018) , la dottrina tedesca si basava sulla offensiva, unica forma che portasse alla vittoria una volta adottata la guerra di movimento. Il generale Moltke, il vecchio, passò molto tempo ad ammonire tutti in Germania che le guerre future sarebbero state lunghe e dispendiose, in tutti i pensatori militari ed in vasti strati della ufficialità che con una rapida e violenta azione la guerra futura sarebbe stata rapida e veloce. Un errore questo che permarrà ben radicato nel pensiero militare tedesco anche dopo la Prima Guerra Mondiale.
La man0vra tedesca, sostenete l’offensiva, doveva basarsi sulla vasta estensione del fronte, non dando importanza allo spostamento ed alla concentrazione delle masse. Con elementi esterni inseriti a sostegno, come quella della superiorità della razza tedesca, della disciplina e della preparazione cultura del tedesco medio superiore a tutte quelle degli altri popoli, soprattutto quelli latini e slavi, la dottrina tedesca si incentrava che per arrivare alla “debellatio” del nemico, ovvero al suo annientamento occorreva che le differenti masse impiegabili si presentassero all’urto simultaneamente, giuntevi per le vie più brevi, in quanto la vittoria doveva essere ricercata nello sviluppo stesso del fronte di attacco. Da qui ricercare più che lo schieramento in profondità quello lineare su fronte vastissima. Chi volesse trovare una spiegazione alla estensione dei fronti della Grande Guerra ( Dalla Svizzera al mare, dal Baltico al Mar Nero, Dall’Astico al mare ecc.) trova gran parte della spiegazione nei procedimenti di impiego della dottrina tedesca.

In Germania si crearono due filoni di pensiero per questo tipo di guerra decisamente offensiva: il primo faceva capo al generale von Bernhardi, minoritario, il secondo al gen. Schlieffen, capo di Stato Maggiore dal 1891 al 1906, che fu poi il filone che si impose.
von Bernardi aveva in comune con lo Schlieffen il concetto che la vittoria si sarebbe ottenuta con la guerra di movimento, e quindi con l’offensiva, che doveva essere rapida ed energica. Lo differenziava dallo Schlieffen il dato che riteneva che la manovra tipo “Canne” non era sempre possibile attuarla. Riteneva che l’azione del difensore nel 1914 era più facile rispetto al passato, riteneva che il difensore stesso si avvantaggiava della scelta del terreno, mentre l’attaccante trae vantaggi o dalla iniziativa delle operazioni e dalla potenza morale che è insita nell’attacco stesso. Per lui era necessario sorprendere l’avversario, di avere la superiorità dei numeri, ma soprattutto di esaminare la situazione in base al momento e non secondo uno schema prestabilito. Cardine del suo pensiero era che l’offensiva non doveva essere considerata una forma definita a priori, ma occorreva che si adattasse alla reale situazione, potendo assumere tanto la forma di coinvolgimento e distruzione di una o di tutte e due ali quanto quella di attacco centrale sfondante.  Adattarsi alla realtà, senza schemi preordinati, in sintesi il pensiero di questo generale tedesco che espose le sue teorie in volumi molto noti a suo tempo in Germania.[1]

Il pensiero che si affermò in Germania fu quello facente capo  al generale Schlieffen. Egli preconizzava l’avvolgimento tattico quale unica forma adatta per ottenere un successo completo e sosteneva che l’obiettivo tattico principale non doveva mai essere il fronte, ma invece i fianchi ed il retro essendo gli attacchi frontali inadatti per una decisione, anche se condotti da masse  consistenti e profonde contro forze inferiori. Le marce di stretto stampo napoleonico caratterizzate dal movimento dei battaglioni quadrati (i famosi “bataillon carré” di tradizione francese) dovevano essere bandite e sostituite da marcie eseguite su una larghissima fronte , in ordine spiegato come se si dovesse dare battaglia.


L’essenza del pensiero schleffeniano consiste nel non credere al successo dell’attacco centrale risolutivo e sfondante e, dovendo così agire per le ali, voleva forte quell’ala del suo schieramento a cui spettava di vibrare il colpo decisivo. A questo scopo accumulava le riserve proprio in prossimità di questa ala. Nelle battaglie future gli schieramenti sarebbero stati contrapposti su linee opposte ad altre linee: avrebbe vinto quell’esercito che avesse potuto aggirare il fianco, o meglio i fianchi del nemico realizzando l’avvolgimento. Da questo pensiero discende la concezione che le Armate avrebbero dovuto procedere in avanti in una lunga linea di battaglia contro la linea avversaria , molto più corta in profondità costituendo le ali scaglioni avanzati destinati a ribattersi contro i fianchi del nemico mentre la cavalleria spinta in avanti doveva cercare di guadagnare il retro dello schieramento nemico.
Le modalità di attuazione sono presto dette. Si voleva una offensiva fulminea, irresistibile, condotta con tutte le forze nemiche: l’Esercito doveva procedere in avanti in un sol blocco, come se fosse un battaglione, tutto travolgendo. Si attuava così una manovra strategica unica, condotta secondo una determinata direzione, con meta fiale una battaglia nella quale la risoluzione consisteva nella “debellatio” integrale di tutte le forze nemiche. 

Il pensiero di Schlieffen si è sviluppato attraverso lo studio sistematico della battaglia di Canne, del 216 a.C. durante la quale Annibale con soli 25.000 distrusse i due eserciti consolari forti di 80.000 uomini.[2]          

Le critiche che si possono avanzare al pensiero dello Schlieffen si incentrano sul fatto che escludeva qualsiasi adattamento agli avvenimenti, creata come era su un ragionamento a priori, mancando di elementi per fronteggiare imprevisti e sorprese e basandosi esclusivamente sulla incapacità del nemico e sulla imponenza dell’azione che doveva annichilire il nemico stesso. Il presupposto di tutto il pensiero schleffeniano era che il nemico restasse inerte, escludendo sia la volontà che la capacità del nemico di manovrare e quella, ancora più importante, di sottrarsi all’accerchiamento.

Una dottrina audace, assoluta, che escludeva iniziative individuali, poco attenta alla situazione che si sarebbe sviluppata sul campo di battagli e così determinata a conseguire l’obiettivo che ci si era dati da apparire incriticabile.

Come la dottrina francese, quindi, anche quella tedesca prevalente, si estremizza, lasciando pochissimo spazio all'azione del Capo, del Condottiero, che si considerava un mero esecutore di piani già stabiliti.


[1]Von Bernhardi R., Von heutingen Kriege, Berlin, 1912. Traduzione italiana: la Guerra, oggi, varie edizioni.
[2] Nel 216 a. C. i Romani quasi soggiogati dalle vittorie di Annibale decisero di fare un grande sforzo militare portando il loro esercito a 9 legioni. Al Comando dell'Armata furono preposti i 2 Consoli Paolo Emilio e Terenzio Varrone. Col consenso del Senato essi si recarono nell'Apulia per dare ad Annibale una battaglia decisiva. Anche in Annibale era altrettanto sentito il desiderio di una battaglia risolutiva poichè in questa guerra di avvisaglie vedeva consumarsi inutilmente le sue forze e cadere a poco a poco il suo prestigio. Perciò, venuta la primavera, con rapida azione si impossessò di Canne sull'Ofanto dove i Romani tenevano i magazzini. Questo atto esasperò i Romani e Varrone, in un giorno in cui aveva il comando dell'esercito, volle venire a battaglia malgrado i prudenti consigli di Paolo Emilio, il quale avrebbe voluto misurarsi col nemico, ma in terreno più accidentato, ove poco valesse la superiorità della cavalleria avversaria.   Le forze romane salivano a circa 80.000 fanti e 6.000 cavalieri, di fronte a 40.000 fanti e 10.000 cavalli di Cartaginesi.Varrone lasciò 10.000 uomini di guardia al campo sulla riva sinistra dell'Ofanto, e schierò a battaglia il resto dell'esercito sulla destra di questo fiume. Le legioni furono ordinate su 3 linee, ma con intervalli e distanze ristrette, rinunciando al vantaggio della soverchianza del fronte per avere massa più densa. Pose all'ala sinistra la migliore cavalleria, della quale prese egli stesso il comando, mentre l'ala destra venne posta agli ordini di Paolo Emilio. Annibale prese il suo dispositivo dopo aver veduto lo schieramento del nemico. Il suo piano fu questo: presentando un ordine di battaglia convesso, egli sperava di attirare i Romani su questo centro sporgente che rinforzato in tempo opportuno da un corpo di riserva avrebbe dovuto cedere senza però spezzarsi; allora le sue ali convergendo verso l'interno avrebbero stretto come in una gigantesca tenaglia l'esercito avversario.Venuti alle prese, Asdrubale si slanciò arditamente sui cavalli di Paolo Emilio, che in breve tempo riuscì a sbaragliare, mentre la cavalleria nemica, opponendo vigorosa resistenza all'attacco della numerosa cavalleria avversaria, impedì che questi guadagnasse terreno e venisse a molestare le fanterie cartaginesi. Subito dopo le legioni si azzuffarono col centro di Annibale, il quale retrocedette lentamente in modo da attirare presso a sè i Romani. Venuto il momento opportuno gli africani di destra e di sinistra effettuarono il prescritto movimento di conversione, verso l'interno, mentre i cavalieri di Asdrubale, sfilando veloci dietro le schiere avversarie, piombarono da tergo sui cavalli di Varrone che stavano combattendo con i numidi e rompevano anche quelli. Allora i fanti romani, premuti sui due fianchi dalle truppe africane e alle spalle dalla cavalleria di Asdrubale, poterono a stento difendersi. Chiusi entro quel cerchio di ferro che veniva sempre più restringendosi, i legionari non ebbero più modo né di manovrare, né di valersi delle loro armi. Invano Paolo Emilio tentò di ristabilire le sorti del combattimento, egli stesso cadde sul campo mentre Varrone riuscì a scampare con un centinaio di cavalieri. Le perdite romane furono immense, secondo Polibio salirono a 70.000 uomini.

massimo.coltrinari
(cervinocause@libero.it)