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lunedì 31 ottobre 2022

Udine nel 1917

 

Maria Luisa Suprani Querzoli

 

27 agosto 1917

Lo scoppio della polveriera di Sant’Osvaldo: coincidenze inquietanti

 

Il 27 agosto 1917 la Battaglia della Bainsizza (capace di risultati notevoli, seppur decisamente inferiori alle proiezioni del Comandante la II Armata) accenna a volgere al termine quando uno scoppio violentissimo getta nel panico l’intera città di Udine, sede del Comando Supremo:

 

[…] alle 11,19, mentre sto per entrare [al Comando Supremo], avviene una esplosione formidabile, che scuote tutte le case, rompe tutti i vetri, spacca tutti i tramezzi. […] La gente si getta fuori delle case, scarmigliata. La scena è impressionante. Le detonazioni si seguono con violenza e frequenza sempre maggiori. Sembra di essere fra un violentissimo bombardamento. […] Circolano le prime voci, che hanno qualche certezza: è scoppiata la polveriera di Sant’Osvaldo. Ci sono là 100.000 bombe, polveri, 40.000 quintali di fieno, i depositi di benzina di tutta la 2ª armata. È una cosa spaventevole.[1]

 

Il panico toccò il punto massimo all’idea (dimostratasi in seguito non veritiera) che anche i gas venefici presenti nei proiettili a liquidi speciali aleggiassero nell’aria.

Per numero di vittime e perdita di materiali la stima del danno appare subito grave.

 

Circola la voce che lo scoppio sia doloso. Gabriele D’Annunzio dice che a Roma è scoppiata l’altro ieri sera la polveriera di forte Appio, con un centinaio di morti. Ad Alessandria è successo suppergiù lo stesso.[2]

 

Il giornalista Rino Alessi, a differenza del colonnello Gatti, si interroga senza perifrasi: «[c]hi o che cosa ha fatto saltare la polveriera? Ecco il tragico interrogativo a cui forse nessuno risponderà lasciando nell’aria i più atroci dubbi. Altre polveriere sono saltate, come Lei forse sa, in altre parti della Penisola. Chi o che cosa le ha fatte saltare?»[3].

Il dubbio circa il dolo  assunse particolare consistenza ma – dato il frangente critico – non si ritenne opportuno far luce per evitare la ricaduta che l’emergere di verità destabilizzanti avrebbe potuto avere sul morale già incrinato dell’Esercito (e della Nazione).

In seguito si giunse alla conferma[4] dei sospetti che fin da subito circolarono.

Un incidente analogo (seppure di portata ben minore) si era già verificato in zona di guerra, circa dieci giorni prima.

L’XI Battaglia dell’Isonzo ancora non aveva avuto inizio quando, nell’area del XXVII Corpo d’Armata[5], lo scoppio di una bombarda[6] compromise la sorpresa con cui il Comandante d’Armata intendeva fiaccare il nemico in un tratto della fronte il cui presidio appariva rarefatto: l’intento principe che muoveva Capello tanto da fargli distorcere, nella sostanza, gli ordini ricevuti era costituito dalla soppressione del pericolo incombente da Tolmino, affidata appunto al XXVII Corpo.

Lo scoppio che si verificò in quel settore compromise quindi un elemento essenziale del piano lungimirante, lasciando indirettamente in vita i presupposti che avrebbero portato alla sconfitta dell’ottobre successivo.

La possente vittoria della Bainsizza mise a tacere tutto e sulle difficoltà incontrate dal XXVII Corpo d’Armata non si ritornò più di tanto, attribuendole esclusivamente (ed erroneamente[7]) al mancato impulso del generale Vanzo.

Esposte le premesse ci si può chiedere se anche l’incidente che interessò l’area del XXVII Corpo d’Armata (da valutarsi soprattutto nella portata delle sue conseguenze, capaci di decapitare l’intento di Capello e, indirettamente, di dare origine ai presupposti della sconfitta) era di matrice dolosa.

Il dubbio appare ragionevole.

Il computo delle responsabilità circa l’esito della XXII Battaglia dell’Isonzo  (computo a suo tempo teso più a trovare capri espiatori per tacitare gli animi che a far luce sulla verità storica[8]) non sarà completo se non quando, seppur a distanza di oltre un secolo, si risalirà ai mandanti di tali scoppi, la cui serrata successione appare tutt’altro che accidentale.



[1] A. Gatti, Caporetto. Dal diario di guerra inedito (maggio – dicembre 1917) (a cura di A. Monticone), Bologna: Il Mulino, 1964, pp. 194 – 195.

[2] Ivi, p. 196.

[3] R. Alessi, Lo scoppio della polveriera di Sant’Osvaldo, 27 agosto 1917, in Dall’Isonzo al Piave, Milano: Mondadori, 1966, p. 103.

[4] Cica le conferme inerenti al dolo cfr. G. Del Bianco, La guerra ed il Friuli, vol. 2 (Sull’Isonzo e in Carnia. Gorizia. Disfattismo), Udine: Del Bianco Editore, 2001.

[5] Il XXVII Corpo era allora comandato dal generale Augusto Vanzo, prima di essere sollevato dall’incarico (e sostituito con il generale Pietro Badoglio, comandante il II Corpo).

[6] Cfr. L. Capello, Note di Guerra, vol. II, Milano: Fratelli Treves Editori, 1921, p. 109.

[7] Anche sotto il comando di Badoglio il XXVII Corpo d’Armata continuò a confrontarsi con obiettive difficoltà (cfr. ibidem)  capaci di interferire negativamente  con gli obiettivi auspicati dal Comandante d’Armata (cfr. ivi, p. 113).

[8] Il riferimento è alla Relazione che concluse i lavori della Commissione d’Inchiesta istituita dal R.D. 12 gennaio 1918 n. 35.

lunedì 10 ottobre 2022

La Questione di Trieste, 1945. L'ipotesi di impiego della Divisione Partigiana "G Garibaldi"

 


UN'ILLUSIONE SVANITA[1] La storia della "Garibaldi", subito prima e dopo il rimpatrio, si arricchì di un episodio inedito, che rievoca, almeno nelle intenzioni, l'impresa di Fiume.

A smuovere le speranze per una operazione su Trieste, tanto audace quanto improponibile, furono proprio i Sovietici, all'epoca già in rotta di collisione con Tito e, di conseguenza, contrari alle sue mire espansionistiche sui territori della Venezia Giulia.

L'episodio riportato dal generale Ravnich, sulla scorta di gelosi ricordi personali, che si riferiscono ad un periodo in cui, dopo l'eroica esperienza balcanica, solo alla "Garibaldi" ed al suo comandante era concesso di osare o di sognare. Sentiamolo: "Verso la fine del febbraio 1945", racconta il generale Ravnich, «per noi della "Garibaldi" arrivò l'ordine di rientrare in Patria». Mentre a Ragusa attende che le sue brigate, sparpagliate per tutta la Jugoslavia scendano sulla costa dalmata per imbarcarsi, Ravnich un giorno viene avvicinato da Kovaljenko, che lo invita a cena. Accompagnano Ravnich a villa Sherazade, tra gli altri il Capitano Luigi Ferraris, capo dell’ufficio matricola, il capitano medico Gustavo Silvani, il maggiore Roberto Reno, suo capo di Stato Maggiore, ex ufficiale della “Venezia” che ha fatto adottare anche ai combattenti non alpini della “Garibaldi” il cappello con la penna come segno distintivo nazionale e “patriottico” della divisione nel contesto ideologizzato di quella guerra partigiana.

Nel corso del “simposio”, con un giro di mano che evita Risto Valetié invitato a “copertura” dallo stesso Kovaljenko, il capitano russo fa arrivare al generale Ravnich un plico. Quando lo apre, con grande sorpresa Ravnich constata che contiene copia dell’ordine di operazione dell’esercito di Tito per lo sbalzo finale dal fronte dello Srem verso Nord, e per l’invasione della Venezia Giulia e di Triste, “Naturalmente”, soggiunse Ravnich, “trafugato non so come dai sovietici”, A rendere ancora più grande la sorpresa dell’ufficiale istriano, Kovaljenko accompagna il “regalo” con una dichiarazione che Ravnich non si sarebbe mai aspettato. A quattr’occhi gli dice: “il mio governo gradirebbe incontrarsi con gli italiani, anziché con gli jugoslavi, sul vecchio confine italo-jugoslavo. L’esecuzione di questo ordine operativo è prevista per la metà di aprile. C’è tutto il tempo per noi e per voi di arrivare al confine del Regno d’Italia”.

Per Ravnich questo discorso suona come un invito più o meno esplicito a organizzare una spedizione “garibaldina” in Istria onde costruire un fatto militare, anche minimo che possa trasformarsi in un fatto compiuto politico tale da facilitare a Stalin il contenimento dell’espansionismo militare di Tito verso Trieste.

“Questo è quanto rilevato dai segni e dalle parole”, continua Ravnich. “Mi si invitava evidentemente a prendere l’iniziativa. Dovevo arrivare in zona magari con una sola barca di pochi uomini”. L’invito di Kovaljenko trova l’ufficiale italiano, più che disposto a tentare il colpo.

Pochi giorni dopo essere rientrato dalla Jugoslavia, Ravnich entra in contatto con ufficiali di rilievo della nostra marina, e ottiene qualche piccolo risultato che gli dà speranza. A Taranto, in casa dell’ammiraglio Parona, una cena ha luogo. Presenti diverse personalità militari (“tutti ufficiali di grado superiore al mio”), e un politico, il ministro del lavoro Gasparotto, senza che si parli apertamente di uno sbarco a Fiume o in una zona prossima di dove muovere verso l’interno dell’Istria e bloccare la strada per Trieste, vengono concordati alcuni particolari di valore preliminare.

“Cominciammo col dire che i miei soldati avrebbero avuto libero accesso sulle navi alla fonda a Taranto”, ricorda Ravnich. Il giorno dopo gli alpini della “Garibaldi”, i soli cui viene concessa questa possibilità, si recano in massa a visitare la Giulio Cesare prima e la Garibaldi che la accosta poi. L’accoglienza che i marinai delle due unità riservano ai fanti è entusiastica. Immediata è anche la simpatia tra Ravnich e il comandante della Giulio Cesare. Nel Regno del Sud, i combattenti balcanici della “Garibaldi” godono di buona fama. Costituiscono un’unità agguerrita, fatta di combattenti che anche nei momenti di più drammatico isolamento dopo l’8 settembre e per diciotto mesi hanno sempre tenuta alta la bandiera italiana di fronte all’ex alleato tedesco e al nuovo alleato comunista jugoslavo.

Insomma, alcune premesse sembrano esserci, di ordine “psicologico”, e di ordine politico in relazione a “complicità” che avrebbero favorito la spedizione.

“Quelle visite costituivano una specie di prova generale per l’imbarco, un modo per compiere un imbarco mascherato?”.

“Nelle mie intenzioni si”, risponde Ravnich. “Ma solo nelle mie intenzioni, e nelle intenzioni di qualcuno che poteva più di me”, aggiunge il generale, che per ora non intende fare uscire dall’anonimato questa personalità. “Navi a Taranto ce n’erano moltissime, c’era tutta la flotta tutta la nostra flotta. Ma la mia delusione fu enorme quando constatai che quei poveri marinai non avevano la nafta non solo per muovere le navi, ma nemmeno per cuocere il rancio”. Deciso però a non mollare, a praticare tutte le vie possibili per realizzare il progetto, il 21 Marzo Ravnich e a Roma dal generale Messe. Il capo di Stato Maggiore immediatamente lo manda dal colonnello Agrifoglio, con cui ha un colloquio confidenziale. Al comandante del Servizio Informazioni Militare Ravnich consegna il documento, e riferisce dettagliatamente dell’invito sovietico, insieme alla sua disponibilità ad assumere l’iniziativa. Agrifoglio, nonostante gli italiani abbiano “le mani legate” opera per metterlo in contatto con persone che, afferma “avrebbero potuto contribuire a una sia pur modesta impresa nel senso desiderato dal governo russo”. Inizia così per Ravnich una intensa ricerca di alleanze e di aiuti, fatta però senza che nulla traspaia. Importante, soprattutto, è muoversi con prudenza nei confronti degli Alleati, degli inglesi in particolare che più degli americani fanno la politica dello scacchiere balcanico e sono i principali sostenitori di Tito.

A casa dei principi Colonna, nel corso di una cena appositamente organizzata dalla principessa Adelina, vedova dell’ex governatore dell’Urbe Don Pietro, Ravnich può incontrare un ufficiale di collegamento inglese, e chiedergli l’immissione della “Garibaldi” nei Gruppi di Combattimento italiani.

Motiva la richiesta con una ragione militare e patriottica il cui significato ultimo non dovrebbe sfuggire all’interlocutore anglosassone. Desiderio dei “garibaldini”, egli spiega, è quello “di continuare la lotta sino a raggiungere i nostri vecchi confini per via di terra dopo aver percorso la Jugoslavia in lungo e in largo”.  Senza nulla promettere, il maggiore Baumag riferisce.

Il giorno dopo il generale Ravnich è messo in grado di prelevare dai magazzini alleati 3800 serie di corredo complete, altrettante armi, delle carrette cingolate, 36 autocarri e tutto il necessario per costituire un reggimento a formazioni di gruppi di combattimento. La “Garibaldi”, che al suo rientro in Italia si era addirittura tentato di disarmare di quelle poche armi che aveva portato con sé dalla Jugoslavia, e che gli alpini avevano rifiutato con decisione di consegnare, era riarmata, e senza che nulla fosse rivelato della manovra russa agli inglesi. Irrisolto rimaneva il problema di come muoversi. Con l’Italia ancora tagliata in due dalla Linea Gotica, e la presenza partigiana comunista nelle terre orientali, era molto difficile pensare di “anticipare” l’esercito jugoslavo via terra sui vecchi confini.

Priva l’aviazione italiana di aerei a sufficiente autonomia con i quali volare d’un balzo in Istria, come Ravnich aveva potuto constatare durante una visita a Lecce, l’idea originaria di una spedizione per mare rimaneva la sola pensabile, l’ultima speranza. Ma nemmeno a Roma Ravnich poté trovare la strada per arrivare ad aver la nafta necessaria a far muovere quelle potenti navi ancora di Taranto. «Sulle navi c'era di tutto», ripete Ravnich   ricordando ancora una volta la sua «ispezione». «Le Santebarbare erano piene di proiettili, i nostri marinai le tenevano in efficienza, ma la flotta era ugualmente prigioniera, perché non camminava, non era possibile fare nulla». La voluta ingenuità, o la indiretta complicità che a Roma aveva reso possibile con tanta prontezza il riarmo della «Garibaldi», a Taranto si scontrava con una difficoltà insormontabile. Altri avevano in mano le chiavi della volontà di quegli uomini, di Ravnich, dei suoi garibaldini, e di chi era dietro a Ravnich, abbastanza importante per potere fare parecchio, ma non tanto da poter risolvere tutto. La storia della “Garibaldi” non avrebbe preso le strade del Nord né le rotte dell'Adriatico. «E così che il progetto naufragò». E dicendo questo Ravnich guarda fuori dalla finestra, lontano dove sente il mare di Bordighera, «meno azzurro di quello dell’Istria”.

Fu così che la spedizione per l'Istria e per Trieste non ci fu.



[1] Stralcio dell'intervista rilasciata dal generale Ravnich al giornalista Antonio Pitamitz e pubblicata su "Storia Illustrata" n.284 del luglio 1981 con il titolo “I sovietici dissero agli italiani: marciate su Trieste". Per gentile concessione.