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domenica 26 febbraio 2017

La Battaglia di Custoza XXII

(1)       25 giugno 1866
Mentre l’Armata del Mincio si riposa e lo staff, con a capo il Gen. La Marmora pensa sul da farsi, il Gen. Cialdini informato dei fatti accaduti il giorno precedente nella zona di Custoza, impartisce l’ordine di ritirata: il IV Corpo d’Armata non passerà più il Po, nonostante l’ordinde contrario del Re, e si ritira verso Modena a difesa di Bologna e delle linee di facilitazione per Firenze, cioè la capitale d’Italia.
Durante questa giornata di calma e di recupero delle capacità operative giunge al Quartier Generale dell’Armata una missiva proveniente dal Capo di Stato Maggiore dell’Arciduca Alberto con cui si riferiva di gravissime violazioni del Diritto Bellico: un atto di barbarie nei confronti di alcuni soldati austriaci che, dopo essere stati feriti, erano stati impiccati. La missiva chiudeva con l’avvertimento che altri casi come quelli accaduti il 24 giugno 1866 avrebbero comportato una serie di severe rappresaglie.
(2)       26 giugno 1866

Al momento, l’esercito si trovava schierato fronte nord, con l’ala destra in possesso del ponte di Goito, saldamente appoggiato al Mincio e con gli sbocchi da Mantova ben presidiati. L’ala sinistra si distendeva nella pianura verso Castiglione, il centro delle alture di Volta e Cavriana. Ma alle ore 08:00 il Gen. La Marmora decide la ritirata sul Chiese prima e sull’Oglio poi. L’Armata lascia le posizioni sul Mincio.

La Battaglia di Custoza XXIII

a.       Considerazioni riepilogative
Analizzare le cause del disastro della Battaglia di Custoza, ma più in generale della campagna contro l’Austria del 1866, è impresa assai ardua. Infatti, sull’argomento molto è stato scritto da parte di studiosi molto qualificati. Ci sono, però, alcuni elementi dell’analisi della sconfitta che sono comuni a tutti gli studiosi.
Condizioni politiche, strategiche e tecnico-militari favorevoli alla guerra, condizioni morali e motivazionali ottime, addestramento modesto, impreparazione dei quadri elevati e mancanza, ai massimi livelli, di capi degni di uno stato maggiore sono gli elementi chiave della battaglia di Custoza. La mancanza o quanto meno l’ambiguità dei piani operativi, l’assenza di un comandante in grado di condurre le operazioni completano la base di partenza della III Terza Guerra di Indipendenza.
In questa sezione verranno presentati quelli che a parere dello scrivente sembrano essere i motivi principali che hanno portato alla sconfitta e che più di altri sembrano essere di attuale interesse.
(1)       Unicità di comando
Il Re Vittorio Emanuele II avrebbe voluto assumere il comando effettivo delle operazioni, assistito dal capo di Stato Maggiore il Gen. Petitti, Il Gen. Cialdini, così come il Gen. Della Rocca, desiderosi di assumere il comando supremo, non gradivano la possibilità che il Gen. La Marmora potesse assumere l’incarico di Capo di Stato Maggiore. Ma La Marmora era il più anziano e pertanto si optò per una soluzione in cui egli stesso assumeva l’incarico di Comandante dell’Armata del Mincio, e conferiva il comando del IV Corpo d’Armata, su otto divisioni, detto infatti Armata del Po, al Gen. Cialdini. La soluzione adottata era simile a quella prussiana. Ma in Prussia il Capo di Stato Maggiore, Gen. Von Moltke, ricopriva quell’incarico da circa otto anni e pertanto era riuscito a preparare la guerra contro l’Austria in tutti i minimi particolari. La Marmora, invece, assume l’incarico due giorni prima dell’invio della dichiarazione di guerra, avvenuta il 20 giugno 1866.
L’organizzazione in cui due armate operano separatamente a più di cento chilometri è, però, forse la causa principale per la quale la campagna partì in maniera infelice soprattutto per la mancanza di  coordinazione.
Con questo antefatto, seguendo attentamente i fatti della campagna non si capisce chi avesse il comando delle operazioni: il Gen. Cialdini non obbedì al Re che gli aveva ordinato di passare il Po, dopo la sconfitta di Custoza, il Gen. La Marmora non intervenne quasi mai sul Mincio e quando lo fece sbagliò clamorosamente.
(2)       Pianificazione
Tutta la campagna italiana fu caratterizzata dalla mancanza di un piano operativo strutturato. Tutte le operazioni furono condotte senza una visione strategica, senza che fosse stato espresso un disegno di manovra. Le operazioni erano guidate da ordini scaturiti dalla  pura improvvisazione dei comandanti a tutti i livelli. Il piano prevedeva essenzialmente due fronti uno sul basso Po e uno sul Mincio dove avrebbero operato due diverse armate “secondo le occorrenze colla massima energia per modo di battere o paralizzare il nemico attraendolo ora da una parte, ora dall’altra[i]. Il Gen. La Marmora e il Gen. Cialdini erano convinto che l’altro avrebbe fatto un’azione diversiva per agevolare la propria operazione. Ma se l’Armata del Po avrebbe dovuto fare un’azione dimostrativa, tale operazione doveva precedere l’attraversamento del Mincio. Per contro se a fare l’azione dimostrativa era l’Armata del Mincio, non era necessario farlo con dieci divisioni. La soluzione adottata dunque non solo mancava dell’unità di direzione, ma costituiva solo il compromesso utile ad accontentare i due generali.
Per comprendere l’inettitudine dei quadri dirigenziali che operarono a Custoza, basterebbe osservare la disposizione dei due eserciti il 23 giugno 1866 per rendersi subito conto di come gli imperiali siano pronti a combattere, schierati secondo un concetto di manovra del comando supremo, mentre gli italiani erano ben lontani da credere ad  un imminente inizio delle operazioni. L’idea era quella di un nemico ancora sull’Adige
Più nel dettaglio furono riscontrate carenze nelle attività di esplorazione che furono completamente ignorate lasciando interi reparti di cavalleria nelle retrovie e comunque inattive.
Gli attacchi e i contrattacchi furono condotti senza unità di direzione e adeguato sostegno di fuoco, ma soprattutto non alimentabili a causa della mancanza di riserve o rincalzi, o se presenti schierati troppo lontani.
I movimenti furono troppo lenti a causa di inciampi e di sovrapposizioni di colonne su una stessa rotabile, ma soprattutto a causa del fatto che le colonne avevano quasi tutto il carreggio al seguito.
Molte unità non furono per nulla impegnate senza sapere cosa stesse succedendo a pochi metri dalla loro zona di schieramento.
(3)       Il personale
Non si può rifiutare all’avversario la testimonianza che si è battuto con pertinacia e con valore. I suoi primi attacchi, specialmente, erano vigorosi, e gli ufficiali, slanciandosi innanzi, davano l’esempio[ii]. Sono le parole con cui l’Arciduca Alberto esamina il comportamento dei soldati italiani  nel corso delle operazioni. Dall’esame oggettivo dei fatti è indiscutibile che gli italiani si batterono bene, con ardore e coraggio quando furono ben comandati e guidati. I soldati italiani dimostrarono ripetutamente in quella campagna sfortunata del 1866 preziose virtù militari.
Gli sbandamenti e gli sfasci, che ci furono sia tra gli italiani sia tra gli austriaci, furono sempre la conseguenza del cattivo impiego delle unità, impegnate in combattimenti con rapporti di forza improponibili e su posizioni tatticamente e tecnicamente sbagliate e non al grado di addestramento.



[i] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 29
[ii] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 1

giovedì 23 febbraio 2017

La Battaglia di Lissa. Introduzione

1.     SITUAZIONE GENERALE

a.       Situazione generale militare

(1)    I quadri – le forze – i mezzi

a)       I capi.
Il Comandante in capo italiano era l’Ammiraglio Carlo Pellion di Persano, nominato all’indomani della mobilitazione generale del 3 Maggio 1866 all’età di 60 anni. Con il suo primo ordine del giorno egli suddivise immediatamente l’Armata in tre squadre: la prima (di Battaglia) sotto il suo comando, la seconda (sussidiaria) sotto il comando del Vice Ammiraglio Albini, la terza (d’assedio) sotto il comando del Contrammiraglio Vacca. Inoltre, diede ordine di comporre una flottiglia di bastimenti leggeri. Il Capo di Stato Maggiore era il Capitano di Vascello D’Amico.
Persano aveva prestato servizio nella Marina Militare sarda e, successivamente, in quella neonata italiana. Era personaggio di statura morale elevata, considerato un diplomatico ed uomo di Stato piuttosto che un militare. Aveva figurato con onore durante la guerra del 1848-49 contro l’Austria, durante la guerra di Crimea ed in quelle del 1859-60 per l’unità d’Italia. Ministro per la Marina nel 1862, durante il Governo Rattizzi, divenne Senatore del Regno nel 1865. Ottima persona, amabile  e popolare per le sue qualità di uomo di mondo, ma con carattere poco incisivo. Mancava di quelle qualità tipiche di un Comandante, quali l’autorevolezza e la capacità di infondere entusiasmo verso i subordinati. Parafrasando Napoleone I, che diceva che “durante la guerra non c’è niente di peggio che l’indecisione”, il tratto dominante di Persano sembrava essere proprio quello.

Il Comandante austriaco era il Contrammiraglio Wiehelem von Tegetthoff, di giovane età (39 anni) per l’importanza delle funzioni a lui assegnate. Aveva dimostrato le sue capacità di decisione e risolutezza già due anni prima, in occasione della guerra d’Heligoland. Nato il 23 dicembre del 1827, aveva la stessa età di Nelson quando venne nominato Contrammiraglio. Egli ignorava completamente certe “timidità morali”, era risoluto e non scevro dall’assumersi responsabilità dirette. Aveva studiato molto le “questioni navali” tanto che già dal debutto della sua carriera, aveva attirato l’attenzione dell’imperatore d’Austria che lo nominò aiutante di campo dell’Arciduca Massimiliano, il quale aveva sostenuto e perseguito lo sviluppo della marina austriaca.

domenica 19 febbraio 2017

La Battaglia di Lissa

a)       Le forze navali italiane.
Nella seconda metà dell’ottocento, le marine da guerra registrarono un grande sviluppo tecnologico, che si sviluppò verso cinque direzioni: l’affermazione della propulsione meccanica ad elica, le costruzioni in ferro, l’applicazione di corazze, l’introduzione di nuove armi e la disposizione dei cannoni dell’armamento principale in torri corazzate girevoli.
Creata nel 1860, aggregando la Marina di Sardegna e quella toscana, pontificia e borbonica, la Marina Italiana,  era ancora eterogenea e disorganizzata. In particolare, il regolamento tattico allora in uso era stato ricavato da quello francese del 1857, integrato da norme di combattimento studiate a Parigi dall’Ammiraglio Bouet-Willaumez.
I bastimenti più importanti italiani erano il Re d’Italia ed il Re di Portogallo (fregate di 1^ classe). Di costruzione recente nei cantieri di New York, avevano comunque dei limiti tecnici e costruttivi. Erano in parte costruiti con legni non stagionati che non garantivano la completa impermeabilizzazione. Erano corazzati con lastre da 10 a 18 cm sopra il limite di flottaggio. Il timone e gli apparati destinati alla manovra non erano protetti. Il Re d’Italia era equipaggiato con due cannoni da 150 libbre, mentre il Re di Portogallo con due cannoni da 300 libbre. Equipaggiavano inoltre un cero numero di pezzi da 180 mm (modello Armstrong) ad avancarica, così come la maggioranza delle navi italiane. Per un errore dell’Ammiragliato britannico era stata scartata l’ipotesi dell’utilizzo dei cannoni a retrocarica, con evidente difficoltà nelle operazioni di fuoco negli scontri navali, e tali bastimenti riflettevano questa limitazione.
Persano aveva inoltre a disposizione il modernissimo “ariete corazzato a torri mobili, dotato di sperone” Affondatore, che equipaggiava due cannoni a torrette da 300 libbre e due torrette protette con cannoni da 125 mm. Due altre navi dello stesso genere ma più piccole erano il “Formidabile” e la “Terribile” che equipaggiavano cannoni da 160 mm e corazzature da 12 cm. Altre due cannoniere corazzate erano il “Palestro” e la “Varese”; inoltre, la flotta italiana vantava altri bastimenti corazzati e non, per un totale di trenta unità, comprese di esploratori ed avvisi[i]. Imponente sulla carta, la flotta italiana aveva alcune limitazioni: intanto la maggior parte dei bastimenti era nuova, così come la maggior parte dei cannoni; gli equipaggi non erano sufficientemente addestrati, e gli Ufficiali, giovani, non avevano esperienza nel combattimento tattico navale. Inoltre, la Marina Italiana, non ancora coesa e totalmente “unita”, soffriva di gelosie personali ed antagonismi. La flotta italiana non era pericolosa così come sembrava, mancando di unità ed autorevolezza di comando, tecnica e Stato Maggiore.
b)       Le forze navali austriache.
La flotta austriaca comprendeva sette navi corazzate di cui due, la Erzherzog Ferdinand Max e la Habsburg, non avevano ancora ricevuto i grossi cannoni a retrocarica Krupp, mantenuti in Prussia per lo stato di guerra. Per questo motivo erano ancora armati con i cannoni ad anima liscia da 56 libbre. “Inviatemele lo stesso così come sono”, scrisse Tegetthoff, “troverò il modo di impiegarle”. Infatti avrebbe innalzato la sua bandiera sul “Ferdinand Max” durante la battaglia. Le altre cinque, la Kaiser Max, Prinz Eugene, Don Juan de Austria, Drache e la Salamandre erano corazzate sui fianchi con batterie da 14 e 16 cannoni Krupp da 64 libbre a retrocarica, ed un certo numero di vecchi cannoni ad anima liscia da 56 libbre. Oltre queste sette navi corazzate, gli austriaci possedevano un certo numero di navi in legno ad elica, un vascello in legno, cinque fregate, una corvetta, dodici piccole cannoniere, due piccoli vaporetti e qualche battello a ruote[ii]. I marinai della flotta austriaca erano in parte italiani (veneziani) e dalmati, della cui lealtà potevano nutrirsi forti dubbi.



[i] Vedi Allegato “D”.
[ii] Vedi Allegato “D”.

La Battaglia di Lissa I

(1)    Le Dottrine operative: la loro definizione in base agli intendimenti tattici e potenziali.

Le dottrine operative navali si basavano sulla cosiddetta “linea di fila”, per utilizzare al meglio la potenza di fuoco  collocata sui fianchi, mentre l’utilizzo dello sperone collocato a prora (introdotto sulle navi corazzate della seconda metà dell’ottocento), era utilizzato per sferrare il colpo definitivo contro le navi avversarie. Non era ancora stata introdotta una dottrina innovativa per l’utilizzo delle unità munite di cannoni a torri mobili. Inoltre, era opinione comune che la superiorità navale andasse ricercata sul mare, prima di tentare attacchi verso terra in vista di sbarchi. Il confronto diretto tra flotte era quindi considerato fondamentale nelle battaglie navali; la supremazia marittima doveva, quindi, essere conseguente alla vittoria in uno “scontro risolutivo”.
Le direttive impartite all’Ammiraglio Persano dal Governo erano aggressive ma piuttosto generiche, orinandogli di “spazzare via le forze nemiche dall’Adriatico, attaccandole e bloccandole ovunque fossero”. Il 21 giugno, all’indomani della dichiarazione di guerra all’Austria, la flotta al Comando di Persano si sposta da Taranto ad Ancona, dove arriva il 25 giugno. Tegetthoff il 27 dello stesso mese, compie una ricognizione al largo di Ancona, ma la flotta italiana decide, in un apposito Consiglio di Guerra, di non ingaggiare battaglia, limitandosi ad effettuare lunghe “crociere del giusto mezzo” lontano sia dalle coste italiane che austriache, rivendicando uno sterile controllo marittimo dell’Adriatico. Tali crociere, conclusesi il 13 di luglio con l’obiettivo dichiarato di provocare una reazione austriaca, non ebbero nessun effetto se non quello di rafforzare le ipotesi di inconcludenza della flotta e del suo comandante in capo.
L’uso strategico della flotta sembrava essere completamente non coordinato con la condotta delle operazioni terrestri. Da ambo le parti.

lunedì 13 febbraio 2017

La Battaglia di Lissa II

a.       Avvenimenti e provvedimenti in vista del conflitto

(1)    Politici e diplomatici

L’esercito austriaco venne definitivamente sconfitto il 3 luglio 1866 presso Sadowa dalle armate prussiane, mentre sul fronte meridionale, la guerra contro l’Italia continuava, malgrado la ritirata dell’esercito italiano a Custoza del 25 giugno 1866. Poiché la diplomazia internazionale, ed in particolare la neutrale Francia di Napoleone III, spingeva per una conferenza di pace, il Governo italiano, insediato a Firenze, si convinse della necessità di ricercare a tutti i costi una vittoria militare (negata dalla sconfitta dell’esercito a Custoza), per risollevare il potere “contrattuale” italiano in vista delle trattative di Pace. In considerazione che la flotta italiana era palesemente superiore a quella austriaca, che l’opinione pubblica nazionale si chiedeva come mai una flotta costata così cara alle magre finanze della nazione (370 milioni di lire del tempo), fosse sostanzialmente inconcludente, ed esasperato dal continuo temporeggiamento del Comandante della flotta, che allontanava l’auspicata vittoria navale riparatrice, il Ministro della Marina, Agostino Depretis piombò il 15 luglio 1866 ad Ancona per sollecitare Persano a prendere l’iniziativa.
L’Ammiraglio Persano, nelle sue memorie difensive, sostiene che “Il ministro della Marina, venuto in Ancona, mi esprimeva il suo desiderio che procedessi tosto ad impadronirmi dell’isola di Lissa”. Malgrado la nota importanza strategica dell’isola, unitamente alla consapevolezza che un attacco a Pola od a Venezia avrebbero avuto poche possibilità di successo, è da ritenere che la decisione definitiva di attaccare l’isola fortificata fosse di Persano. Depretis scrive infatti alla vigilia della partenza per Lissa:
E’ intenzione del Governo di lasciare all’Eccellenza Vostra piena facoltà di disporre delle Forze Navali poste ai suoi ordini…. epperò se V.E. credesse conveniente di andare senz’altro colla flotta avanti a Pola per combattere il nemico od indurlo ad accettare battaglia, io posso assicurarle che sono ben lontano dal fare la minima osservazione”.

L’incontro con Depretis si concluse, secondo quanto scritto da Persano, con l’assicurazione del Ministro di fornire al più presto altre truppe per le necessità di sbarco, non ritenendo l’Ammiraglio sufficienti i 1500 uomini già a sua disposizione. “Il Ministro giudicò non acconsentire più prolungati indugi, fosse pure in aspettazione dei necessari sussidi di truppe; ché alla fine dei fatti mi sarebbero stati mandati a misura che fossero pervenuti. A questo si aggiungeva un ordine perentorio del Quartier Generale, giuntomi in quello istesso giorno, di agire in  qualunque maniera si fosse, giacché gravi ragioni di Stato non permettevano ulteriormente l’inazione armata. La disciplina non lasciandomi altra via se non quella di ubbidire, diedi ordine che l’armata si tenesse pronta a muovere al primo cenno”. Si abbandonò quindi (per ragioni politiche) l’idea di affrontare il nemico in uno scontro navale (operazione dottrinalmente corretta), per puntare alla conquista, tramite sbarco, di un’isola fortificata, di cui gli italiani non avevano informazioni corrette e complete.  

venerdì 10 febbraio 2017

La Battaglia di Lissa III

a.       Considerazioni riepilogative

(1)    Correlazione fra intendimenti e possibilità: valutazione dell’adeguatezza delle forze in campo in relazione agli intendimenti ed agli scopi.

La battaglia navale di Lissa sembra, almeno da parte italiana, essere asservita al solo motivo politico. Malgrado l’importanza strategica dell’isola per il controllo dell’Adriatico settentrionale, la sua presa non avrebbe comportato il mutamento delle sorti della guerra già decisa a Sadowa. In ogni caso la flotta italiana era imponente e quindi apparentemente capace sia di conquistare l’isola sia di contrastare la modesta flotta Austriaca. Si contravvenne però alla regola dottrinale che consigliava, prima di attaccare fortificazioni e tentare sbarchi, di ottenere il dominio del mare.

(2)    Rapporti di potenza fra le parti contendenti: capacità rispettiva di sostenere sforzi prolungati


I Rapporti di Forza erano a favore dell’armata italiana. In particolare, 1,9 per le navi, 1,6 per il numero di cannoni,  2,6 per il tonnellaggio e 2,57 per la potenza motrice. Nessuna delle due flotte poteva sostenere sforzi prolungati, malgrado la marina italiana diede prova di essere in grado di poter sostenere due giorni di cannoneggiamenti ed una battaglia, prima che sia il carbone che le munizioni cominciassero a scarseggiare. 

La Battaglia di Lissa. IV


1.     SITUAZIONE PARTICOLARE

a.       L’ambiente Operativo

L’isola di Lissa è situata nel mare Adriatico a 130 Miglia a Sud Est di Ancona, 175 Miglia a Sud di Pola (Base della flotta Austriaca) e 30 miglia dalla costa Dalmata. Era fortificata sia a porto S. Giorgio che in corrispondenza della Baia di Comisa, con bastioni bene armati (84 cannoni) ed elevati. Le guarnigioni austriache avevano truppe di seconda linea per un totale di 1833 uomini fra Ufficiali e soldati. 

b.       I piani Operativi

Secondo Stevens e Westcott, non si può imputare a Persano la scelta di orientare l’attacco su Lissa piuttosto che sulla flotta austriaca, ma ad una decisione principalmente politica. Indipendentemente dalle responsabilità della scelta, era comunque evidente l’assenza di un piano operativo consolidato. Secondo Ezio Ferrante (prefazione de “ I fatti di Lissa”), si andò praticamente alla cieca, penetrando nel porto di S. Giorgio come si va alla scoperta di un porto nuovo in Australia, e costretti ad osservare solo alla prova dei fatti che i colpi delle artiglierie delle navi andavano tanto più spesso a vuoto tanto i forti e le batterie dell’isola erano alti e distanti per il tiro dei nostri cannoni. A Lissa si era andati con presupposti sbagliati: nell’attacco alle fortificazioni dell’isola di pianificato c’era ben poco, tanto è vero che gli italiani, sia pure con successi frammentari e discontinui, si affannano in una tantalica inconcludente fatica che porta al terzo giorno, al momento dello scontro navale con gli austriaci, solo una minima aliquota della pur ultrapotente flotta italiana, partecipare all’azione di fuoco. Inoltre, gli Ammiragli sottordini, Vacca ed Albini si sottraggono o disobbediscono apertamente agli ordini dell’Ammiraglio Persano, adducendo talvolta giustificazioni discutibili ed evidenziando, un forte limite di coesione ed unità di comando.

Dal lato austriaco, il Contrammiraglio Tegetthoff, appariva più risoluto e deciso. Pronto a rispondere ad un eventuale attacco italiano, consapevole della superiorità della flotta nemica, sapeva che per ingaggiare battaglia, doveva minimizzare le distanze, per permettere ai suoi cannoni (inferiori in gittata) di essere efficaci. Inoltre, ognuno dei suoi comandanti sapeva esattamente qual’era l’intento dell’Ammiraglio e l’ordine di battaglia. Sapevano, infine, di avere a che fare con il tipo d’uomo che aveva idee chiare e sapeva come battersi.