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giovedì 29 febbraio 2024

Albania 1943

 

Gen. Massimo Coltrinari,

Albania. Dalla caduta del Fascismo al Comando Italiano truppe alla Montagna. Il caso Pistoia.

 

 

L’Albania fu annessa al Regno d’Italia il 12 aprile 1939. Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, Imperatore d’Etiopia, era anche Re d’Albania. Governava questo suo regno tramite un Luogotenente ed il Luogotenente risiedeva a Tirana. L’Albania rapidamente fu dotata di un apparato statale ad immagine e somiglianza di quello italiano ed in breve si può die che il Governo di allora, con il suo capo, Benito Mussolini, aspirava a dimostrare che l’Albania era, o tendeva ad essere il nuovo modello di Stato che il fascismo, sia come movimento che come regime, presentava all’Europa, alla nuova Europa che si andava costituendo.

 

Fino all’ottobre 1940 gli Albanesi, sia come classe dirigente che come popolo, mostrarono una adesione  ed un consenso straordinario al fascismo ed all’Italia: per la prima volta nella loro storia recente erano, o si sentivano, partecipi della storia d’Europa. Nei loro calcoli era chiaro che, per un po’ di indipendenza avevano trovato un patner che poteva non solo sviluppare economicamente l’Albania, ma poteva appoggiarla nelle sue aspirazioni, sia culturali, sia economiche, sia politiche. Il movimento nazionalista albanese non faceva mistero, grazie all’Italia, di pensare che si potevano annettere tutte quelle regioni, abitate da albanesi, che erano fuori dai confini dell’Albania (del 1939). Si voleva annettere il Kosovo, parte della Macedonia nella regione intorno a Monastir e Tetovo e soprattutto la Ciamuria greca. In pratica si desiderava la realizzazione della grande Albania. Il consenso, quindi, era basato sul fatto che si considerava l’Italia una delle potenze europee e mondiali, in grado di assecondare e sostenere le mire del nazionalismo albanese.

 

Questo consenso venne meno e molte simpatie si impallidirono con la campagna di Grecia . Dichiarata il 28 ottobre 1940 la guerra alla Grecia, ben presto gli Albanesi toccarono con mano che L’Italia, come potenza militare non era di primo ordine. In breve la guerra non solo non portava all’Albania la Ciamuria, ma era così disastrosa che veniva combattuta , mercè la controffensiva greca, nel territorio albanese. Significativo al riguardo l’alto numero di diserzioni di soldati albanesi nei giorni di novembre e dicembre 1941, oltre alla pessima prova data dalle unità albanesi inserite nello schieramento italiano. Anche da parte italiana si prendeva atto che sugli albanesi non ci si poteva fare conto.

 

La conclusione della campagna di Grecia, nell’aprile 1941, non rialza, agli occhi degli albanesi,il prestigio italiano. Si constata e si crede che la vittoria è frutto dell’intervento tedesco, e la Germania è vista sempre più come la potenza leader dell’Asse. Ed è ad essa che ci si deve rivolgere  per avere vantaggi e sostegni per i propri progetti. Nel momento in cui il Kosovo viene annesso all’Albania, cioè al Regno d’Albania e quindi all’Italia, nella fase della spartizione della Jugoslavia, i maggiorenti albanesi concludono che questo è solo grazie ai buoni uffici della Germania. E’ la Germania padrona della situazione, come risulta evidente dal fatto che la Ciamuria, per il possesso della quale l’Italia, almeno nella propaganda, aveva attaccato la Grecia, rimane alla Grecia, cioè sotto amministrazione militare tedesca.

 

Dal 1914 a tutto il 1942 i rapporti italo-albanesi sono stabili, se non idilliaci. Non vi è una ribellione armata, ma via via che la guerra si prolunga, si attende di comprendere chi sarà il vero vincitore. E’ significativo che solo all’inizio del 1943, dopo Stalingrado ed El Alamein si cominciano a registrare i primi atti d ribellione, anche se non si può parlare in nessun caso di resistenza, come invece è in atto nella vicina Jugoslavia e in Grecia. Gli atti ribellistici via via si intensificano ma occorre arrivare al 10 luglio 1943 per registrare la creazione dei primi due battaglioni dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese, sintesi armata della opposizione, composta da comunisti, nazionalisti, zoghisti e monarchici all’Italia. Con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 la ribellione si estende e l’Albania passa sotto  controllo militare, ma il movimento di resistenza albanese non desta ancora preoccupazioni. A titolo precauzionale, nella primavera del 1943, era stata assorbita nell’Arma dei Carabinieri la Gendarmeria Albanese, che era stato

 

Come ha già brillantemente illustrato il gen. Marsibilio nella sua relazione, in Albania ha sede il Comando Gruppo Armate Est, retto dal generale Rosi, che ha alle dipendenze la 9a Armata, composta dal XXV Corpo d’Armata, stanziano nel centro-nord dell’Albania, dal IV Corpo d’Armata, stanziano nel su sul confine greco, e dal XIV Corpo d’Armata, stanziato in Montenegro, regione questa che era integrante, militarmente, dell’Albania.

 

Alla notizia della caduta del fascismo tutta l’impalcatura creata dal Fascismo crolla e rimane solo la struttura militare, imperniata sul Comando gruppo Armate Est.

 

I 45 giorni del governo Badoglio vengono vissuti in Albania nella più completa incertezza, tutti in attesa, in un futuro sempre più indecifrabile, degli eventi.

 

Questi precipitano quanto, in modo imprevisto ed inatteso l’annuncio della firma dell’Armistizio tra l’Italia e le Potenze Alleate raggiunse Tirana e l’Albania la sera dell’8 settembre, via Radio Roma.

 

Il Comando Gruppo Armate Est, ed il suo comandante gen. Rosi, uscirono subito di scena in quanto un ordine di SuperEsercito lo sciolse proprio la sera dell’8 settembre. Rimase attivo per un paio di giorni il Comando della 9a Armata, al comando del gen. Dalmazzo. I tedeschi, con opera sopraffina di lusinghe ed inganno in breve i resero padroni di tutti i punti di comando nodali e già l’11 mattina si poteva dire che il Comando dell’Armata era esautorato. I Tedeschi imposero al gen. Dalmazzo la diramazione di ordini che, nel giro di pochi giorni, disarticolò tutto il dispositivo militare italiano. Vari reparti, ed unità addirittura si misero in marcia, su ordine, per raggiungere le stazioni ferroviarie in Bulgaria, con la promessa di essere rimpatriati; in realtà furono tutti internati in Germania e nei campi di concentramento tedeschi in Polonia.

 

Delle sei divisioni presenti sul territorio, la “Puglie”, l “Arezzo”, la “Firenze”, la “Parma”, la “Perugia”, e la “Brennero” tutte, tranne la “Perugia” ed in parte la “Firenze” persero in poche ore la loro capacità operativa.

La “Puglie” che controllava il Kosovo, composta dal 65% da albanesi, si disarticolò per la diserzione in massa dell’elemento albanese, che uccise anche molti ufficiali italiani e passa in blocco ai Tedeschi. “L’Arezzo”, che controlla il Corciano, sarà quasi tutta catturata dopo l’armistizio ed avviata ai campi di concentramento tedeschi. La “Firenze”, stanziata nel Dibrano si mette in marcia verso il mare con l’intento di raggiungere i porti ed imbarcarsi; si scontra con i Tedeschi a Kruja il 22-23 settembre 1943 ed impossibilitata a proseguire, raggiunge le forze partigiane in montagna. Il suo comandante, gen. Azzi, prenderà il comando del Comando Italiano truppe alla Montagna, costituito il 14 settembre dal Ten. Col. Barbi Cinti, a Peza, mentre il suo vice, Gen. Gino Piccini, organizzerà lo Stato Maggiore. Piccini rimarrà in Albania in uniforme ed armato fino al 16 agosto 1945, data del suo rimpatrio, unica autorità militare riconosciuta dopo il rimpatrio del gen. Azzi. Le vicende della “Firenze” sono le vicende dei soldati toscani e pistoiesi in Albania, essendo questa divisione di prevalente reclutamento dell’Alta toscana, vicende che qui non si ha spazio di narrare.[1]

La “Parma” che doveva proteggere Valona si disintegra in 48 ore in virtù dell’azione tedesca, mentre la “Brennero”, valente unità motorizzata, sarà dai tedeschi, dopo varie vicissitudini rimpatriata, prima a Trieste, poi a Venezia nella speranza di poterla incorporare nelle proprie fila. Molti soldati della “Brennero” giunti in Italia o si daranno alla macchia o saranno inviati in Germania. La “Perugia” controllava la zona sud dell’Albania e la sua vicenda presenta molti interrogativi. Raggiunta da Argirocastro dopo una marcia tra difficoltà di ogni sorta, l’area ed il Porto di santi Quaranta, o Porto Edda come si chiamava allora, riesce a prendere posizione e ad attestarsi a difesa. Sono oltre 10.000 uomini in armi in grado di fronteggiare ogni minaccia tedesca. Riesce a prendere contatto sia con i Comandi a Cefalonia sia con il Comando Supremo a Brindisi; manda anche un suo Ufficiale che aggiorna le autorità italiane della situazione nel sud dell’Albania. Questo ufficiale rientrerà in Albania con radio, codici di trasmissione ed ordini. E sarà fucilato per primo dai Tedeschi al momento della cattura. La Divisione riesce ad organizzare trasporti da Santi Quaranta a Brindisi – Otranto ogni notte tanto che oltre 8000 soldati, per lo più feriti ed ammalati, rientrano in patria. Il 26 ottobre, caduta Cefalonia e Corfù, la “Perugia” respinge un attacco tedesco, ed in armi, con tutti i suoi uomini, tiene le posizioni. Un altro attacco viene respinto il 30 settembre. Poi arriva l’ordine di evacuare Santi Quaranta e portarsi a nord, a Porto Palermo con vaghe promesse di reimbarco. L’opposizione degli Alleati che non fanno uscire le navi italiane dai porti della Puglia condannano la “Perugia” ad essere catturata ed annientata. Parte dei suoi uomini si danno alla montagna, il resto viene catturato. I Tedeschi non hanno il coraggio di fare quello che hanno fatto criminalmente a Cefalonia, con la “Acqui”. Con la “Perugia”, che era rimasta in armi fino al 3 ottobre 1943, al oltre un mese dalla proclamazione dell’Armistizio, si limitano, in modo incoerente, a fucilare solo gli Ufficiali, inviato in campo di concentramento sottufficiali e truppa.

 

Da questi eventi nasce il Comando Italiano Truppe alla Montagna C.I.T.a.M, costituito, come detto, il 14 settembre 1943, a soli sei giorni dalla proclamazione dell’armistizio, da parte del Ten. Col. Barbi Cinti, comandante dell’aeroporto di Schijk, vicino Tirana. Salito a Peza con tutti i suoi uomini stipula un accordo con i comandanti dell’E.L.N.A. in cui si definisce l’architettura di questo Comando, che deve raccogliere, in modo autonomo e secondo le leggi ed i regolamenti italiani, tutti i militari italiani che decidono di opporsi ai tedeschi.  A fine settembre raggiunge Peza il gen. Azzi, come detto, che ne assume, essendo l’ufficiale più alto in grado, il comando.

Il C.I.T.a.M si articola in un Comando, uno Stato Maggiore, tre battaglioni operativi; l’Albania viene divisa in 10 Comandi Zone; in ogni zona viene inviato un ufficiale affinchè raccolga notizie sul numero, consistenza ed armamento dei militari ivi presenti e come si sono organizzati.

A fine ottobre, quando ormai si può dire che gli eventi armistiziali volsero al termine, dei 130.000 soldati italiani in Albania presenti l’8 settembre, circa 75.000 furono catturati dai tedeschi ed avviati nei campi di concentramento tedeschi, 6/8 mila rimasero fedeli alla vecchia alleanza a furono incorporati nelle unità ausiliare tedesche; 8/10 mila riuscirono a rientrare in Italia, grazie all’azione della Divisione “Perugia” che tenne i collegamenti fino alla caduta di Cefalonia; circa 20.000 rimasero in Albania, nascosti all’azione tedesca; 5000 mila salirono in Montagna per combattere i tedeschi, entrando nelle fila del Comando Italiano Truppe alla Montagna.

Proprio questa consistenza uomini armati in montagna, un reale pericolo per la presenza tedesca in Albania, costrinse il Comando tedesco ad organizzare offensive che si svilupparono per tutto novembre, dicembre 1943 e gennaio 1944 che mise a dura prova la tenuta del Comando Italiano Truppe alla Montagna.

Il reale significato di quanto detto, sta nel fatto che, all’indomani della crisi armistiziale, la reazione dei soldati italiani in Albania, fu si sorpresa e di iniziale resa verso i Tedeschi, ma nella sostanza opposero una reazione alle truppe tedesche e diedero vita ad una struttura solida che diede consistenza all’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese (E.L.N.A.) e lo pose in grado di fronteggiare e contrastare la occupazione tedesca dell’Albania

Una ricostruzione dettagliata delle forze che andarono a formare il Comando Italiano truppe alla Montagna è stata possibile grazie alle minute relazioni che sono state raccolte interpellando i reduci nel periodo 1989-1996. Attraverso queste relazioni, soprattutto i Diari Storici delle unità l’articolazione del C.I.T.a.M ha avuto una precisa fisionomia che permette di dire che oltre 5000  soldati italiani, armati, erano contro i Tedeschi in Albania, a fronte di 200-400 soldati armati dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese del settembre-ottobre 1943.

Una sperequazione evidente, che non poco preoccupò il gruppo dirigente albanese alla montagna che vi vedeva il pericolo che la lotta al tedesco sarebbe stata condotta dagli Italiani, con prevedibili conseguenze soprattutto politiche all’indomani della liberazione. Qui interessa sottolineare il fatto che le Unità italiane in Albania, pur con percorsi diversi, riuscirono a formare reparti alla montagna in grado di condurre una guerra di liberazione e contrastare la presenza dei tedeschi e dei loro alleati collaborazionisti albanesi, in modo paritetico con le Unità dell’E.L.N.A..

 

In Albania vi erano circa 130.000 militari italiani, inquadrati nella 9ᵃ armata, composta da due corpi d’armata, più un settore di livello divisionale e comandi minori. Nella relazione dell’anno scorso si è precisato che circa 75.000 furono catturati dai Tedeschi ed avviati ai campi di concentramento in Germania e soprattutto in Polonia,6/8 rimasero fedeli alla vecchia alleanza, 8/10 mila riuscirono a rientrare in Italia, attraverso i porti pugliesi, circa 20.000 rimasero in Albania, nascondendosi ai Tedeschi ed ai loro collaborazionisti, e circa 5000 salirono in montagna, di cui, come vedremo, solo 3000 poterono essere impiegati come combattenti per via della incapacità logistica albanese a sostenere un numero maggiore di combattenti. 

 

L’oggetto di questa relazione intende esaminare quest’ultima tipologia di militari e nello specifico coloro che furono inquadrati in un’organizzazione regolare sotto egida completamente italianail Comando Italiano Truppe alla Montagna, C.I.T.A.M. Tale struttura si formò già il 15 settembre ad Arbana, per iniziativa del tenente colonnello pilota Mario Barbi Cinti, già comandante dell’aeroporto di Scijak e del 38° stormo da bombardamento. La figura di Barbi Cinti è stata negli anni oggetto di varie interpretazioni,[2] anche se non è possibile distaccarsi dal concetto che egli fu il primo che per lungimiranza e coraggio seguì l’inevitabile corso delle Regie Forze Armate. Seguendo alla lettera i vaghi ordini di Badoglio e Ambrosio, riuscì insomma non solo a portare in salvo il suo reparto, ma lo fece anche in maniera ordinata e spendibile per il futuro.

In questo modo si formò il Comando Italiano delle Truppe alla Montagna (C.I.T.a.M.), derivante in tutto e per tutto dall’autorità del Comando Supremo italiano. Vale la pena quindi ribadire che nello spirito della sottoscrizione dell’accordo, Barbi Cinti s’impegnava – come rappresentante di Vittorio Emanuele III, Badoglio e Ambrosio – all’adesione “antifascista” e antitedesca delle residuali forze militari italiane. Seguendo tale spirito istituzionale l’accordo di Arbana del 15 settembre dispose: il ripristino per i militari italiani del Codice Militare di guerra; la cessazione da parte dei partigiani d’ogni attività propagandistica a carattere politico nelle file degli italiani; la facoltà di Barbi Cinti di rimettere il Comando assunto nelle mani dell’ufficiale superiore di grado che in seguito si fosse dato alla montagna e che fosse riconosciuto idoneo all’incarico.

Con questi presupposti l’accordo ricostituiva un comando unico e univoco italiano, da porre a servizio della lotta comune senza pregiudizio alcuno tra le forze componenti lo sforzo militare antitedesco. Nacque così un formale e sostanziale patto di reciproco riconoscimento tra italiani, albanesi e Alleati, che ridava – anche oltremare – effettività all’ordinamento militare delle Regie Forze Armate. L’essenza di tale accordo era la volontà di Barbi Cinti di mantenere in piedi l’ordinamento militare italiano e quella albanese di riconoscerlo. L’intesa prevedeva pure l’onere delle strutture partigiane di procurare i rifornimenti, mentre per gli italiani quello di predisporre l’intelaiatura organizzativa.

A quel punto il pomeriggio dello stesso giorno Barbi Cinti radunò i circa 300 militari, che lo avevano seguito, esponendo loro i termini dell’accordo sottoscritto. L’adunata si sciolse al grido di «Viva il Re! Viva l’Italia!». L’opera di proselitismo da parte di Barbi Cinti e dei suoi stretti collaboratori fu intensa e articolata; infatti il numero di 300 crebbe progressivamente con l’annuncio ufficiale della costituzione del Comando. L’appello “alla montagna” venne infatti fatto circolare per tutta l’Albania e affisso nelle principali città.

Intanto il giorno 17 si costituì il I battaglione “Truppe italiane alla montagna” e il 26 iniziò l’addestramento verso azioni di guerra partigiana, unica possibile in quel contesto ambientale. L’ulteriore tappa di questo percorso vi fu il giorno 28. Arrivato in montagna il generale Arnaldo Azzi (già comandante della divisione Firenze), questi successe nel comando a Barbi Cinti. Fu così che il C.I.T.a.M. divenne la massima autorità italiana in Albania, l’unica che in qualche modo voleva e poteva ereditare quanto di sopravvissuto ai precedenti comandi Gruppo armate Est e 9ᵃ armata.

 

Questi ultimi ne erano consapevoli; per questo tra l’ottobre 1943 e il gennaio 1944 lanciarono contro i militari italiani alla montagna e i partigiani albanesi ben cinque offensive, volte a distruggere ogni forma di ribellismo e di opposizione, giudicate di per sé una seria minaccia. Il comando germanico comprese quindi subito che tutti i militari italiani, che non erano riusciti a internare o arruolare subito, sarebbero divenuti prima o poi possibili avversari in armi. Di conseguenza l’atteggiamento verso i vecchi alleati fu sempre risoluto e duro, proprio per impedire di doversi pentire un domani della propria clemenza.

In buona sostanza l’accordo del 15 settembre, confermato poi da Azzi il 29, diveniva il presupposto necessario affinché gli italiani offrissero le competenze tecniche della guerra convenzionale; allo stesso tempo gli albanesi avrebbero contribuito alla condivisione con la logica della guerriglia. Per meglio coordinarsi lo stesso generale predispose poi una capillare rete di ufficiali di collegamento, atta a rendere pienamente sinergica e sincera la lotta comune. Intanto nel ribadire il precedente proclama di Barbi Cinti, Azzi allargò a tutti gli italiani (militari e civili) ancora presenti in territorio albanese l’esortazione ad aderire all’unica lotta possibile, ossia quella contro i tedeschi. Ognuno per proprio conto, in armi o attraverso il lavoro civile, avrebbe contribuito alla vittoria contro l’ex alleato.

 

A seguito di ciò, per ragioni di sicurezza il 1° ottobre il Comando si trasferì ad Alta Tai. Intanto altra impellenza per Azzi fu quella di creare un solido collegamento con il Governo italiano. Tramite il maggiore Seymour venne pertanto fatto pervenire in Italia il messaggio che circa 20.000 soldati connazionali erano ancora in Albania e che non avevano accettato le condizioni di resa o di collaborazione con i tedeschi. Il problema principale era tuttavia che i 20.000 non erano tutti disponibili o impiegabili. Tolti quelli che si erano indirizzati a un impegno civile (necessario tra l’altro al supporto agricolo-alimentare dei combattenti), vi fu poi una parte dei combattenti italiani, che – per disaffezione o per sino ad allora repressa coscienza politica – decisero di aderire alla lotta comune direttamente inquadrati in formazioni partigiane. Questo fenomeno fu in buona sostanza la versione balcanica di quella grande dicotomia regolari-volontari, che in modo molto più “problematica” si sarebbe evidenziata in Patria tra Forze Armate cobelligeranti e formazioni partigiane.

A questo punto, completati ulteriormente i presupposti politico-militari della formazione del C.I.T.a.M., si può riportare l’organigramma, a noi pervenutoci, del medesimo Comando per il mese di ottobre 1943:

 

Composizione del Comando Italiano Truppe alla Montagna

 

29 settembre 1943

Comandante: generale Arnaldo Azzi

Capo di Stato Maggiore: tenente colonnello Goffredo Zignani

Ufficiale di collegamento con la Missione Militare Britannica: tenente colonnello Mario Barbi Cinti

Sottocapo di Stato Maggiore: maggiore Ernesto Chiarizia

 

Alle dipendenze di detto Comando si ordinarono i seguenti nove comandi militari di zona, affiancati ai corrispondenti Comandi partigiani di zona: Peza, Dajti, Berat Dibra, Elbasan, Valona, Mati, Corcia, Argirocastro. Tali comandi erano retti da un ufficiale superiore, il quale aveva alle dipendenze, sia disciplinari che d’impiego, reparti non superiori alla forza di un battaglione, dislocato nella zona militare di competenza. Per la deficienza di armi pesanti e mezzi speciali, tutti i militari italiani (indipendentemente da qualunque arma o servizio fossero appartenuti in precedenza) divennero, in questo inquadramento, dei fanti.

Quasi subito Zignani chiese espressamente di assumere il comando del III battaglione italiano. La sua richiesta venne accolta il 3 ottobre. A seguito di questo movimento il colonnello Ferdinando Raucci assunse il comando militare italiano della zona di Peza e Chiarizia sostituì Zignani nell’incarico di capo di Stato Maggiore del C.I.T.a.M.

Alla metà di ottobre 1943, il C.I.T.a.M. aveva alle proprie dipendenze 13 battaglioni, individuati nelle precedenti nove zone elencate. Vennero pertanto inviati degli ufficiali inferiori per verificare la consistenza delle forze sul territorio. Gli ufficiali furono: capitano Kiss per la zona di Dibra, il tenente De Quattro per la zona del Dajti, il tenente Permartini per la zona del Mati, il tenente Bondi per la zona di Elbasan, il tenente Marsili per la zona di Berat, il tenente Guarnieri per la zona di Corcia, il tenente Mazzaglio per la zona di Argirocastro, il tenente De Dottori per la zona di Valona.

 

Questa fu la situazione che – tramite i loro resoconti – arrivò ad Azzi e quindi a noi:

 

Zona militare di Peza (al 17 ottobre 1943)

Comandante truppe italiane: colonnello Fernando Raucci

Comandante dei partigiani albanesi: Myslym

 

Reparti italiani armati

Alle dirette dipendenze:

1)       Un battaglione di circa 300 uomini al comandi del tenente colonnello Zignani, costituito da elementi di varia provenienza;

2)       Battaglione “Morelli”: circa 750 uomini;

3)       Battaglione “Mosconi”: circa 450 uomini;

4)       Reparto di 43 uomini e 26 quadrupedi al comando del colonnello Coviello per servizi vari nella zona dei forni della base d’Arbana;

Presso la III brigata partigiana albanese:

1)       Un reparto di circa 40 uomini della divisione Arezzo, armati con due fucili mitragliatori, due mortai da 81, due fuciloni anticarro e 11 quadrupedi;

2)       5ᵃ batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze al comando del capitano Giannoni su due pezzi con 5 ufficiali, 78 sottufficiali e truppa, 48 quadrupedi;

3)       Un nucleo costituito da un subalterno e 11 militari con un pezzo da 47/32 e 7 quadrupedi.

In totale armati: alle dirette dipendenze 2.370 circa; presso la III brigata 135 uomini circa. Uomini disarmati: imprecisato

 

Zona militare di Dajti (17 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: maggiore Martino

Comandante dei partigiani albanesi: non noto

 

Reparti italiani armati

1)       I battaglione del 127° reggimento fanteria Firenze con 31 ufficiali, 378 sottufficiali e truppa e 40 quadrupedi. Armamento: 62 pistole, 356 fucili, 1.050 bombe a mano, 18 fucili mitragliatori, una mitragliatrice;

2)       Batteria d’accompagnamento 127° reggimento fanteria Firenze con 4 ufficiali, 65 sottufficiali e truppa e 10 quadrupedi. Armamento: batteria senza pezzi; 7 pistole, 83 fucili, 82 bombe a mano;

3)       Reparto misto composto dal reparto Comando del 41° reggimento artiglieria con elementi del 510° battaglione mitraglieri G.a.F., con 7 ufficiali, 71 sottufficiali e truppa, 14 quadrupedi. Armamento: 2 pistole, 134 fucili, 1 fucile mitragliatore.

In totale: uomini armati: 42 ufficiali, 514 sottufficiali e truppa; uomini disarmati: non ne risultano.

 

Zona militare di Berat (22 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello Antonio Curti

Comandante dei partigiani albanesi: Mestan Ujaniku

 

Reparti italiani armati

1)       Battaglione di formazione, composto dal XIII raggruppamento G.a.F. di 150 uomini;

2)       Compagnia autonoma composta dalla 1525 batteria “Breda” da 20 m/m mod. 35 con 120 uomini al comando del capitano Pietro Conte;

3)       Un battaglione di formazione di 150 uomini.

Il totale dei militari armati era di circa 420 uomini. Il totale dei militari disarmato, grosso modo, era il reggimento Cavalleggeri del Monferrato.

 

Zona militare di Dibra (13 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: generale Gino Piccini

Comandante dei partigiani albanesi: Haxli Lleshi.

 

Reparti italiani armati

1)       Un reparto di formazione di circa 40 uomini al comando del sottotenente Frasce della divisione Brennero.

Totale uomini: armati 40, disarmati circa 1.250 dislocati per lavori nel triangolo Peshkopia-Zerqan-Dibra.

 

Zona militare di Elbasan (16 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello Achille Rossito

Comandante partigiano albanese: non noto

 

Reparti italiani armati

Alle dirette dipendenze:

1)       Un battaglione di formazione di circa 350 uomini per la quasi totalità provenienti dalla divisione Arezzo;

2)       Una compagnia di formazione di 150 carabinieri in parte provenienti dalla colonna Gamucci.

Presso la I brigata partigiana (comandante Mehmet Shehu, base a Labinoti):

1)       6ᵃ batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze (su due pezzi);

2)       9ᵃ batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze (su due pezzi);

3)       Una formazione di 130 militari italiani passati a loro richiesta a reparti italiani (battaglione “Gramsci”);

4)       Un reparto salmerie di 100 uomini e 100 quadrupedi forniti dal 127° reggimento fanteria e dal 41° reggimento artiglieria.

Presso la II brigata partigiani albanesi:

1)       7ᵃ batteria del 41° reggimento artiglieria in via di costituzione.

Totale uomini: armati, alle dirette dipendenze 500; disarmati circa 1.200 ripartiti fra Shëngjergj, Orenje e Labinoti, 750 provenienti dalla colonna Gamucci e 500 dalla colonna Brignani provenienti da Dibra.

 

Zona militare di Valona (18 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello Saraceno

Comandante dei partigiani albanesi: Islam Radovicka

Reparti italiani armati: nessuno

Il totale dei militari italiani disarmati risultanti al tenente De Dettori era circa 20 ufficiali e 1.500 uomini.

 

Zona militare di Mati (16 ottobre 1943)

Comandante dei partigiani albanesi: non noto

Comandante italiano: non specificato

Totale uomini armati: non risultavano

Totale uomini disarmati: circa 300

 

Zona militare di Corcia (22 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: non noto

Comandante dei partigiani albanesi: non noto

Reparti italiani armati: situazione non nota

 

Zona militare di Argirocastro (22 ottobre 1943)

Comandante truppe italiane: non noto

Comandante partigiano albanese: non noto

 

 

Questa la situazione militare ad ottobre 1943, con il Comando Italiano Truppe alla Montagna in gradi di poter svolgere azioni di una certa importanza contro le forze tedesche e collaborazioniste che occupavano l’Albania.[3]

 

 

Pistoia 8 novembre 2014

 

         



[1] Per la Divisione “Firenze” vds. Massimo Coltrinari,L’”8 Settembre” in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori ed eroismo. 8 settembre-7 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 265, il particolare il capitolo dedicato a questa divisione.

[2] P. Iuso, Esercito, guerra e nazione. I soldati italiani tra Balcani e Mediterraneo orientale 1940-1945, Ediesse, Roma 2008, p. 240; E. Aga Rossi e M.T. Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, Bologna 2011, p. 314.

[3] La relazione trae spunto ed origine dalle attività di ricerca iniziata nel 1989 per COREMite, Commissione per lo Studio della Resistenza dei Militari Italiani all’Estero, voluta dal Ministero della Difesa, per il comparto Albania. In questo quadro sono stati pubblicati i seguenti volumi:

Massimo Coltrinari, Albania Quarantatre, L’avviamento dei Militari Italiani ai campi di concentramento ,Roma, Edizioni Associazione Nazionale Reduci dalla prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione, 1995, pagine 236.Massimo Coltrinari,L’”8 Settembre” in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori ed eroismo. 8 settembre-7 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 265.Massimo Coltrinari, Paolo Colombo, L’a Divisione “Perugia”. Dalla Tragedia all’Oblio. Albania 8 settembre-3 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 320.Massimo Coltrinari, La Resistenza dei Militari Italiani all’Estero. Albania, Roma, Ministero della Difesa, Rivista Militare, COREMITE, Commissione per lo Studio della Resistenza dei Militari Italiani all’Estero, 1999, pag. 1144.Massimo Coltrinari, Laura Coltrinari, La ricostruzione e lo Studio di un avvenimento Militare, , Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 288[3]

 

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