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mercoledì 17 aprile 2019

Il Primo Dopoguerra e l'Asia Minore


La presenza italiana ad Adalia


di


Giovanni Cecini (*)






Introduzione
L’Italia era arrivata tardi all’unificazione statale e ancora più tardi alla consapevolezza di dotarsi di un dominio coloniale, necessario alla fine dell’Ottocento per imporre all’interno e all’esterno del Paese il ruolo di grande potenza, ambizione ritenuta a portata di mano dall’apparato politico, economico e militare nazionale.
Dopo la drammatica esperienza in Africa orientale nell’ultimo quarto del XIX secolo, all’inizio del Novecento il Governo del Regno tornò a guardare con attivo interesse agli sviluppi geo-strategici del Mare Nostrum, come cortile di casa da poter curare ed ampliare. Roma – secondo l’occorrenza – poteva imbracciare diversi atteggiamenti nei vari settori continentali europei e quindi opzioni differenti in fatto d’alleanza, ma nel contesto mediterraneo le linee guide sembravano dettate in modo rigido e condizionato. In fin dei conti rispetto alle altre potenze, l’Italia non aveva altri sbocchi rivieraschi e quindi gioco forza ritagliarsi uno spazio vitale ai margini dei propri confini marittimi era da ritenersi essa stessa politica interna, prima che politica estera o coloniale.
Perduta ormai l’occasione di impossessarsi della Tunisia, caduta sotto l’influenza di Parigi a partire dal 1881, Roma tentò varie strade pur di ritagliarsi sulla costa nordafricana anch’essa un posto al sole, bacino per flussi migratori, rotte commerciali e uno scacchiere determinante per i propri interessi politici e militari.
In questa corsa a occupare una poltrona in prima fila, in competizione con la concorrenza francese, inglese e russa, l’Italia guardava con profonda apprensione lo sviluppo di quello che all’epoca veniva chiamato il Levante, ormai segnato dal declino incessante domestico ed estero dell’Impero ottomano. Del resto l’apparato industriale nazionale, ambizioso di inserirsi in scenari nuovi, cavalcando all’occorrenza l’ibridismo degli istituti di credito del Paese, aveva molto a cuore la politica orientale intrapresa dall’Italia.[1]
Per tutti questi motivi, sempre all’interno dell’ambiguo schieramento della Triplice Alleanza, il Governo di Roma si accordò con i diretti omologhi competitori anglo-francesi, pur di partecipare alla spartizione – si badi bene come commensale cadetto – del banchetto servito alla grande tavola diplomatica. In questo modo l’Italia riuscì a spuntare almeno una seria ipoteca sul futuro della zona africana a meridione della Sicilia, suddivisa nelle regioni della Tripolitania e della Cirenaica, che allora era ancora a tutti gli effetti sotto l’autorità della Sublime Porta.
Con tali presupposti diplomatici, ostacolati invece dalle “strette” alleate Germania e Austria-Ungheria, perché timorose di un incontrollabile collasso ottomano, per l’Italia era necessario solo trovare il momento propizio per agire, senza però attendere troppo, visto che il fluire veloce degli eventi internazionali avrebbe potuto far sfuggire il possesso di quella regione verso altri contendenti stranieri, spregiudicati e profittatori di possibili incertezze italiane.
L’Impero ottomano, protagonista indiscusso per oltre quattro secoli del Mediterraneo orientale e dell’Europa danubiana, aveva a partire dall’Ottocento visto incrinale il suo predominio sia nei Balcani, sia nelle regioni rivierasche a mezza strada tra Europa, Asia e Africa. Il sopraggiungere di interessi imperiali e coloniali delle potenze di Pietroburgo, Londra e Parigi comportava per Costantinopoli una posizione subordinata e altalenante tra passato e futuro, nella vorticosa ricerca di sopravvivenza. Nel XIX secolo le numerose guerre, che videro implicata la Sublime Porta, rappresentarono per il “Grande Gioco” diplomatico il ricorrente tentativo di indebolire l’autorevolezza del Sultano, senza però creare quel vuoto di potere nella zona, pericoloso per il mantenimento dell’equilibrio internazionale, tanto a cuore ai piani geo-strategici degli inglesi. Ecco quindi che all’inizio del Novecento “il malato d’Europa”, seppur malconcio e tenuto in vita in modo quasi artificiale, manteneva un simulacro di potere in quelle ampie regioni rivierasche, che sebbene nominalmente rientravano ancora sotto il dominio ottomano.
E’ per questi motivi che nel bel mezzo della seconda crisi marocchina, scoppiata nel 1911 tra la Francia e la Germania, l’Italia colse come pretesto i propri interessi nazionali nel vilayet di Tripoli e in Cirenaica, per inviare un duro ultimatum al governo del Gran Vizir. Le motivazioni erano, come è facile capire, intrise di malcelati e egoistici propositi economici e commerciali, se gli eventi che portarono all’escalation videro proprio il premier Giovanni Giolitti, che non era nel suo intimo né imperialista né nazionalista, a capo del Governo, che alla fine dichiarò guerra alla Sublime Porta il 29 settembre 1911.
Nonostante gli inevitabili contraccolpi strategici e diplomatici, che lo sforzo bellico comportò nell’intera politica estera del Paese, la preparazione militare fu gestita in modo proporzionato, se paragonata alla disastrosa impresa di circa quindici anni prima in Etiopia. Si arrivò in poche settimane all’occupazione dei principali porti e delle maggiori località costiere, tanto che lo Stato italiano, dopo poco più di un mese dall’inizio delle ostilità, emanò un decreto d’annessione, il quale metteva le due province ottomane della Tripolitania e della Cirenaica sotto la sovranità italiana, assicurandosi così l’esclusione di qualsiasi concorrenza straniera su quella striscia di terra da parte di altri soggetti diplomatici. L’atto di annessione era un’azione unilaterale e interna, che tra l’altro non equiparava i territori a quelli metropolitani, ma veniva a inserirsi in un sistema internazionale di modus vivendi, mentre ancora imperversava il feroce scontro bellico tra italiani e turchi.
Nel frattempo però la guerra di Libia, programmata nella mente del comando italiano come un conflitto facile e rapido, si stava rivelando difficile, soprattutto per l’aspro scenario fisico e per quello etnico, ostile verso qualsiasi ingerenza straniera nelle distese desertiche nord africane. Se le truppe regolari nemiche, limitate a poche guarnigioni costiere, avevano offerto scarsa resistenza, furono le bande arabe indigene, che impedirono la penetrazione interna, necessaria al possesso effettivo del territorio. Per questi motivi la guerra dal deserto libico si spostò in Egeo e negli stessi territori della Turchia continentale, dove Roma riuscì a piegare diplomaticamente Costantinopoli. Se per l’Italia fosse l’inizio del baratro o il presagio di grandi successi solo la Grande Guerra e l’intrigata matassa internazionale, che ne seguì, lo avrebbero certificato.

L’attività politico-militare
La presenza italiana ad Adalia trasse origine dal generale interesse mostrato da Roma a partire dal 1912, durante le ultime fasi della guerra italo-turca. L’impegno militare in Egeo e la successiva occupazione di Rodi e del Dodecaneso portarono il Governo italiano a ritenere opportuno un coinvolgimento nazionale anche nell’entroterra turco, seppur solo in termini economici e commerciali. Era del resto un’idea ricorrente quella di inserire il capitale industriale del Paese all’interno del più grande disegno europeo nel Vicino Oriente, volto alla realizzazione della cosiddetta ferrovia di Baghdad. In questo specifico progetto, Adalia rimaneva ai margini, anche perché i rilievi geografici e le locali vie carovaniere spesso impraticabili, che la circondavano, creavano numerosi ostacoli di ordine pratico. Per di più il troncone principale della progettata ferrovia avrebbe attraversato trasversalmente l’Anatolia e non andava ad investire direttamente la sua costa meridionale. Tuttavia, il tentativo di poter creare un angolo di speculazione in quella zona, sembrava ai magnati italiani un buon punto di partenza, sempre in prospettiva di recuperare una posizione preminente nel Mediterraneo orientale.
Dal 1890 l’Italia si era avvalsa ad Adalia dell’agente consolare olandese Gustave Keun, sapiente faccendiere degli interessi nazionali nella zona, nonostante questi come posizione ufficiale fosse agente della Regia dei Tabacchi ottomana. Nell’aprile del 1913 però Roma decise di gestire in proprio le relazioni diplomatiche in quello scacchiere: nel mese di aprile quindi il ministero degli Affari Esteri creò ex novo un vice-consolato in città, destinando ad Adalia il conte Agostino Ferrante, dipendente per l’incarico dalla delegazione diplomatica italiana a Smirne.[2] Nonostante la creazione in loco di strutture congeniali a questa base d’influenza, oltre all’istallazione di alcune scuole dirette da religiosi italiani e i fiumi d’inchiostro versati sulle grandi potenzialità rivolta all’italica gente,[3] non vi furono grandi azioni politiche. Il sospetto della Gran Bretagna in relazione alla ferrovia per Baghdad aveva sì favorito un interessamento e una concessione di tipo commerciale nella zona di Adalia, ma di fatto le scarse risorse degli italiani e la condizione non industriale della regione rendevano i propositi imperiali di Roma molto poco realizzabili. Era proprio quello che gli inglesi si auguravano.
La situazione rimase di fatto immobile per i successivi due anni, fino a quando, una volta che l’Italia entrò nel vortice delle trattative su un suo futuro intervento nella Grande Guerra, si arrivò al Patto di Londra, scommettendo sulla sconfitta degli Imperi centrali. Non erano mancati certo dei contatti con lo stesso Governo ottomano, pur di far rimanere l’Italia quanto meno neutrale, ma le vaghe promesse turche su Adalia non convinsero gli italiani. Data la città costiera di fatto acquisita in ogni caso, proprio in quei mesi Roma stava trattando con la Triplice Intesa per ottenere altri compensi in Anatolia, sperando di arrivare almeno a Smirne oppure a Konya. Nell’accordo, firmato nella capitale inglese il 26 aprile 1915 insieme alle rappresentanze britannica, francese e russa, l’Italia spuntò tra l’altro la prelazione sulle zone attigue alla provincia di Adalia, al momento del collasso ottomano:

«Art. 9. In maniera generale, la Francia, la Gran Bretagna e la Russia riconoscono che l’Italia è interessata al mantenimento dell’equilibrio nel Mediterraneo, e che in caso di spartizione totale o parziale della Turchia asiatica essa dovrà ottenerne una giusta parte nella regione mediterranea attigua alla provincia di Adalia, ove l’Italia ha già acquisito diritti e interessi che hanno fatto oggetto di una convenzione italo-britannica [del 19 maggio 1914]. La zona che sarà eventualmente attribuita all’Italia, venuto il momento, sarà delimitata tenendo conto degli interessi già esistenti di Francia e Gran Bretagna. Gli interessi italiani saranno parimenti tenuti presenti nel caso in cui venga mantenuta l’integrità territoriale dell’Impero Ottomano ed ove siano apportate delle modificazioni alle zone d’interessi delle Potenze. Se la Francia, la Gran Bretagna o la Russia occuperanno dei territori della Turchia asiatica durante la guerra, la regione mediterranea attigua ad Adalia sarà riservata all’Italia, che avrà diritto di occuparla».

L’intesa non chiariva però in che modo l’Italia potesse avvantaggiarsi all’atto pratico di questo diritto. La diplomazia romana fu abbastanza timida nell’esprimere le proprie rivendicazioni, mentre inglesi e francesi ebbero coraggio nel lasciare indeterminati i territori turchi da assegnare all’Italia. Nonostante ciò il Patto dell’aprile del 1915 venne integrato da altre decisioni, visto che l’evolversi del conflitto mondiale stava creando numerosi equivoci e reciproche recriminazioni tra gli stessi appartenenti alla coalizione della vecchia Triplice Intesa. Anche tra gli stessi alleati vi erano accordi segreti e l’Italia venne spesso tenuta all’oscuro delle trame tessute da Londra e Parigi. Tale condizione non piaceva per nulla a Roma, che quindi chiese – a più riprese e con una certa irritazione – conto di quanto nel suo diritto. Si arrivò dunque all’incontro di San Giovanni di Moriana del 20 aprile 1917 in cui venne confermata in favore dell’Italia una più certa cessione politica ed economica verso Smirne, Konya e Adana. Adalia diveniva a quel punto il centro di un territorio ampio e variegato.
Sembrava tutto sistemato, ma molte variabili erano entrate a sostenere l’intricato equilibrio della guerra. L’ingresso delle ostilità della Grecia e degli Stati Uniti, oltre alla defezione della Russia (che non aveva quindi ratificato quanto deciso a San Giovanni di Moriana), avevano messo in discussione molte certezze precedenti. Una volta infatti che la guerra si concluse, all’indomani della sottoscrizione ottomana dell’armistizio di Mudros, iniziò nella zona in questione un autentico assalto alla diligenza. Cessate le ostilità, britannici, francesi e greci tentarono ogni mossa pur di guadagnare posizioni vantaggiose nel Mediterraneo orientale, trovando cavilli ai danni degli altri. L’Italia non fu da meno e intuendo il rischio che altri soggetti potessero anticipare l’occupazione di quanto ad essa assegnato, curò in ogni modo la salvaguardia proprio di Adalia, considerata a quel punto il perno fondamentale delle proprie ambizioni politiche orientali. Se Smirne sembrava di fatto assegnata ad Atene, la zona a meridione del fiume Meandro (Büyük Menderes) doveva divenire italiana, incontaminata da ogni altra presenza straniera. L’avamposto militare di Rodi, divenuto da occupazione temporanea a territorio ormai (quasi) definitivo per Roma, doveva fungere da trampolino per qualsiasi avventura politico-militare in Anatolia.
Nel frattempo le autorità internazionali, in esecuzione delle norme contenute nell’armistizio sottoscritto dall’Impero ottomano, regolarono il normale andamento dei controlli commerciali delle coste turche. L’Italia venne incaricata di verificare le linee di cabotaggio nella zona tra Edremit ed Adalia. In base a tali decisioni, il 20 febbraio 1919 il cacciatorpediniere Bersagliere giunse proprio in questo ultimo porto, portando alcuni funzionari e agenti di commercio italiani. Essi avrebbero dovuto istallare un posto di controllo, oltre che ridare vita a tutti i progetti politici solo avviati nel 1913. Venne riaperta anche una scuola, l’ambulatorio e la Missione archeologica. L’obiettivo rimaneva quello di presidiare direttamente la costa e l’immediato entroterra, per fare di Adalia un importante centro amministrativo e mercantile di pertinenza nazionale. Fu dunque in quel periodo che a Roma prese avvio l’idea di predisporre un Corpo militare di spedizione, destinato all’occupazione della città portuale. Vennero organizzate delle aliquote di militari, sia tra quelli presenti già a Rodi, sia tra altri da inviare direttamente dall’Italia.
In questi ragionamenti la collocazione geografica di Adalia rappresentava una grande opportunità, ma anche un problema. Infatti se il più generale interesse italiano era rivolto alle località costiere dirimpetto al Dodecaneso, proprio la posizione isolata di Adalia, rispetto a questi obiettivi comportava una valutazione molto circostanziata. Si partiva essenzialmente dall’idea che il porto cittadino non garantiva facili ancoraggi per un naviglio pesante, come pure il fatto che i collegamenti con le zone circostanti erano limitati. Un elemento positivo fu rintracciato nella connessione (lunga però circa 150 chilometri) con Burdur, località in cui passava una diramazione della ferrovia anatolica, che opportunamente sviluppata avrebbe potuto ridare alla città costiera quel primato commerciale dell’intera regione, che proprio la strada ferrata le aveva sottratto negli ultimi decenni. Nei propositi italiani quindi si comprese che partendo da Rodi, era necessario andare a presidiare con opportuni avamposti militari non solo tutte le località costiere, ma anche buona parte del difficile entroterra, che da Kuşadası arrivava ad Adalia, passando possibilmente per Konya. Per Adalia venne individuato da principio un contingente formato da un battaglione di fanteria, ma venne giudicato insufficiente, perché l’impressione suscitata dai primi agenti italiani di commercio fu di grande preoccupazione. Si pensò che per una città di circa 30 mila abitanti, con un entroterra non facilmente collegato, era necessario destinare almeno un reggimento; il comando doveva stabilirsi in città, potendo contare su almeno tre battaglioni mobili, da utilizzare secondo le occorrenze in ogni località dell’antica Panfilia.[4]
Del resto gli emissari italiani riferirono che, se l’accoglienza locale appariva buona e collaborativa, la situazione di Adalia era molto precaria sotto l’aspetto politico-sociale. Il territorio circostante era infestato di disertori armati e comuni malviventi. I villaggi e le culture venivano abbandonati dai contadini, che per sfuggire agli attentati scendevano in città. Anche ad Adalia la sicurezza pubblica era manchevole, avendo le autorità ottomane perduto dopo l’armistizio ogni prestigio. Le forze della Gendarmeria risultavano scarse, mal pagate e con compiti ingrati; un nuovo reclutamento di tali agenti aveva dato risultati negativi. La popolazione mussulmana mostrava sfiducia, sconforto e per questo era pronta a ogni novità, pur di sortire da mal governo debole e incapace di Costantinopoli. Essa appariva come disposta a ogni eccesso, pur di non cadere sotto l’eventuale dominio ellenico. Al contrario avrebbe salutato con gioia l’intervento di qualunque governo forte, che l’avesse appoggiata nell’ostacolare l’intervento della Grecia. All’opposto l’elemento ortodosso, numericamente consistente, aveva approfittato subito dell’indebolimento dell’autorità politica dopo l’armistizio, per assumere un atteggiamento palesemente ellenofilo, soprattutto dopo il propagandistico annuncio di un prossimo arrivo di navi greche per l’occupazione del territorio. Non era infondato il timore che gli ellenici locali potessero suscitare incidenti a beneficio dei loro connazionali. Per cercare di supportare l’opera dei propri messi, le autorità militari italiane di Rodi informarono dell’imminente invio di unità navali per il golfo di Adalia, munite almeno di una stazione radiotelegrafica, capace di poter comunicare con le isole occupate dagli italiani in Egeo. Le navi impiegate sarebbero dovute essere di tonnellaggio non troppo grande, tale che potessero in caso di cattivo tempo trovare sicuro rifugio nella vicina baia di Porto Genovese. Arrivò nel frattempo pure qualche piroscafo, destinato ad avviare piccoli commerci con merci italiane.
A metà marzo il comandante Alessandro Ciano della Stazione navale del Dodecaneso riferì dello spirito di amicizia e dell’entusiasmo dimostrato dalla popolazione di Adalia per gli italiani, aggiungendo come i disordini fossero continui soprattutto tra i detenuti delle carceri e la Gendarmeria, con l’aggiunta della minaccia proveniente dai disertori. Per ragioni di sicurezza Ciano teneva sul posto sempre alcune proprie navi militari, i cui equipaggi in caso di evenienza sarebbero intervenuti con prontezza a terra. Il 24 marzo la nave Regina Elena attraccò al porto di Adalia. Ciano informò che l’accoglienza rivolta ai suoi uomini fu molto positiva; la situazione locale era calma ma instabile, a causa dell’assenza di mezzi adeguati forniti dal Governo centrale. Il giorno 25 arrivò in citta il professor Biagio Pace, esponente della Missione archeologica italiana, che a fronte dei suoi studi politico-geografici e antropologici della regione, contribuì alla preparazione delle azioni militari, che si stavano profilando all’orizzonte. Lo stesso Ferrante lo incaricò «di collaborare a orientare lo spirito pubblico verso manifestazioni formali del desiderio di un nostro intervento di salvaguardia».[5]
Tutti questi interventi erano però sempre finalizzati a creare uno stato di fatto, che mettesse in condizione l’Italia di occupare la zona, senza trovare ostruzione sia a Costantinopoli, sia presso le delegazioni alleate riunite alla Conferenza della pace di Parigi. Si attendeva dunque una circostanza favorevole ed essa arrivò. Nella notte tra il 27 e il 28 marzo una bomba ad alto potenziale esplose nel quartiere cristiano di Porta Nuova, vicino alla scuola femminile italiana, gestita dalle suore salesiane. Ferrante giudicò i danni gravi, la situazione molto critica per l’assenza delle minime garanzie di ordine pubblico della Gendarmeria locale, con conseguenza di vivo allarme da parte della popolazione senza distinzione di nazionalità, desiderosa di un clima disteso. Senza aspettare altre direttive in proposito, alle ore 15 del giorno 29 il comandante Ciano seguì le disposizioni  già preparate in segreto dal Governo italiano. Ordinò lo sbarco di due compagnie di marinai della nave Regina Elena, composte da quattro plotoni ciascuna per un totale di circa 300 uomini e 4 mitragliatrici. Gli italiani iniziarono così l’occupazione dalla periferia fino al centro della città. Ferrante nel darne la notizia ufficiale precisò che l’azione era stata eseguita al fine di tutelare l’ordine pubblico, gravemente compromesso dagli ultimi avvenimenti. La popolazione, che avrebbe richiesto l’intervento, aveva accolto i marinai con sollievo. Il professor Pace in questi frangenti fu molto attivo, intuendo come le sue capacità di informatore militare potessero essere più utili di quelle di archeologo. Fu lui a consigliare le postazioni da occupare, su quali fasce della popolazione premere per guadagnare simpatia e su come creare i presupposti, per mantenere un clima non ostile. Grazie alla sua azione fu scoperto un deposito di esplosivo, un nascondiglio di armi e un concentramento di uomini sospetti.
Lo sbarco e la rapida occupazione delle principali postazione urbane creò però una certa preoccupazione a Roma. Era necessario non solo giustificare a livello diplomatico l’azione di forza, ma allo stesso tempo consolidare il presidio con il contingente di fanteria in proposito ormai già preparato. La Marina aveva compiuto il primo atto dell’intervento, ma la Regina Elena non poteva rimanere troppo a lungo in porto. Il tutto avvenne con il massimo riserbo e nella piena segretezza, tanto che il ministero degli Affari Esteri italiano progettò l’operazione, tenendone all’oscuro persino il proprio capo del Governo. Anche i ministeri della Guerra e della Marina non avevano informazioni sufficienti, per pianificare una strategia complessiva. Il comandante Ciano in quei frangenti prendeva ordini direttamente da Ferrante, come delegato politico dell’Alto commissario italiano a Costantinopoli, il conte Carlo Sforza. Nonostante ciò, l’avvenimento non poteva certo rimanere circoscritto e segreto a lungo. Il 2 aprile la rappresentanza italiana presso la Conferenza della pace ufficializzò lo sbarco, motivando l’intervento come richiesta della popolazione locale, finalizzato a questioni di ordine pubblico. Del resto la delegazione a Parigi cercò di sminuire militarmente l’accaduto e motivare la mossa come in linea con i dettami dell’armistizio.
Nel frattempo il 3 aprile i marinai, come chiesto e per ordine del comando italiano di Rodi, furono affiancati da un contingente di fanteria, provenienti dal Corpo di occupazione dell’Egeo, composto da 450 fanti con 4 mitragliatrici. Il contingente includeva anche un drappello di carabinieri (polizia militare), comandati da un ufficiale. Le nuove truppe effettuarono una ricognizione, a seguito della quale si accertò che Adalia non era adatta come base di rifornimento. Venne proposto come alternativa, essendo Rodi troppo distante, una base navale provvisoria a Marmaris. L’8 aprile i marinai della Regina Elena fecero ritorno a bordo. Il presidio della città quindi rimase di esclusiva pertinenza dell’Esercito. Questa situazione, benché avesse colto le autorità locali di sorpresa, non suscitò nell’immediato lagnanze od opposizioni; anzi in un primo momento, esse accolsero con favore la presenza delle truppe italiane, alle quali fornirono anche cavalli e altri mezzi di sostentamento richiesti. Solo dopo alcuni giorni ne sentirono la scomoda ingerenza, convinte che ritornata la calma in città fosse esaurita la ragion d’essere di tale presidio armato.
Da questo momento iniziarono copiose e reiterate le richieste di allontanamento, adducendo l’inutilità dell’ulteriore permanenza militare italiana. Esse ovviamente non ebbero seguito, anzi i reparti sbarcati nel mese di aprile iniziarono la successiva penetrazione nella regione seguendo la strada Adalia-Burdur con l’intenzione di raggiungere Konya dove nel frattempo, nell’ambito di una riorganizzazione delle forze interalleate in Asia Minore, era stato distaccato un battaglione italiano in sostituzione dei militari inglesi a presidio della ferrovia anatolica.
Intanto, la risposta greca al blitz italiano su Adalia non fu certo comprensiva e amichevole. Da Atene, l’addetto militare italiano riferì voci di nervosismo e di una possibile azione greca su Smirne, a seguito dello sbarco italiano del 29 marzo, episodio che aveva suscitato insoddisfazione anche nelle comunità elleniche dell’Anatolia. Da parte francese e britannica l’atteggiamento verso l’Italia non era migliore. Il contesto non appariva dunque molto incoraggiante per le ambizioni italiane. Del resto una serie di fattori, tra cui la continua propaganda anglo-ellenica, nonché lo sbarco ad Adalia avevano provocato la perdita della posizione privilegiata che l’Italia aveva saputo ritagliarsi tra larghi strati delle comunità locali. Per esempio si era formato un Comitato di difesa dei diritti ottomani, organo rappresentativo di notabili e di amministratori locali, che risultava facilmente manovrabile, anche in funzione di una sua delegazione in partenza per Parigi, finalizzata a rappresentare i propri diritti.[6] In questo senso se i maggiori timori ancora provenivano da Atene e da Parigi, non andava dimenticata la possibile reazione dello Stato turco e della sua popolazione, che non avrebbe troppo tollerato questa intrusione, malcelata come tutela dell’ordine pubblico, e sempre più vista come vera e propria occupazione militare, arbitraria e inopportuna. Ferrante comunicò preoccupato all’Alto commissario italiano Sforza alcune voci, che avrebbero voluto l’imminente arrivo ad Adalia di un battaglione turco. Il diplomatico italiano sul Bosforo si rivolse in proposito al Gran Visir, facendo capire che l’Italia – molto più degli altri Stati vincitori del conflitto – poteva garantire la pace sociale e l’ordine pubblico della Turchia, anche a costo di effettuare delle temporanee riduzioni di sovranità. Il Governo ottomano non fu completamente convinto, ma non aveva argomenti e forza per protestare.
Nel frattempo, a partire dal mese di aprile, sia la stampa greca sia quella anglo-francese coglieva ogni pretesto per attaccare e mettere in cattiva luce l’attività italiana in Turchia e nelle regioni limitrofe, giudicata cospirativa e scorretta. Alcuni giornali francesi pubblicarono la notizia che dieci navi della Marina italiana avevano attraccato nel porto di Smirne. Si trattava evidentemente di informazioni false, divulgate allo scopo di creare i presupposti per uno sbarco greco nella città anatolica. L’ambasciatore italiano ad Atene invece rese note alcune illazioni, che volevano non solo la presenza di una fitta rete di agenti italiani in Anatolia, ma anche l’azione di una squadra di ingegneri con il compito di studiare il progetto per il tronco ferroviario Adalia-Buldur.
Il clima quindi evidenziò, ancor prima di un possibile rigetto interno da parte degli stessi turchi, un’accesa protesta delle potenze alleate dell’Italia, che a quel punto consentirono alla Grecia di occupare a metà maggio la zona di Smirne. L’azione fu intesa da Roma come un pericolo e contestualmente, a completamente dell’avamposto di Adalia e di quello sopraggiunto di Konya, ordinò il 15 maggio l’occupazione di altre località della costa sud-occidentale dell’Anatolia, tra cui Kuşadası, Bodrum, Marmaris e Fethiye. Intanto ad Adalia erano stati sbarcati uomini, tanto da costituire il progettato reggimento di fanteria. A integrazione di questa più complessa operazione, il 18 maggio il console Ferrante informò che le località di  Burdur e Isparta erano calme e propose di farle occupare al più presto. Tuttavia proprio questa intraprendenza del diplomatico, creò alcune gelosie con i comandi militari, che avevano paura di perdere l’iniziativa sul campo. Il colonnello Guido Torriani (comandante del reggimento ad Adalia) e il generale Giuseppe Battistoni (comandante dell’intero contingente orientale, con sede a Rodi) entrarono in più occasioni in contrasto con Ferrante, che dal 15 maggio era stato promosso console. Quest’ultimo tuttavia riuscì a prevalere nei suoi argomenti, perché il ministero degli Affari Esteri aveva sempre più potere di quello della Guerra. In questo scontro istituzionale, tutto interno all’amministrazione italiana, entrò pure l’archeologo Pace, che data la sua grande esperienza politica, oltre che culturale, continuò ad offrire ottimi servigi a Ferrante nel dirigere politicamente la presenza italiana della regione.
Intanto però ad Adalia i movimenti delle truppe regolari turche erano molto attivi e il contingente italiano non sapeva come comportarsi al riguardo. Non era pensabile arrivare ad uno scontro militare, perché gli italiani non avevano il mandato politico, né gli effettivi per sopportare tale evenienza. Pertanto il 23 giugno il colonnello Torriani e il console Ferrante si recarono a Burdur, dove incontrarono il sindaco e il mutasserif. L’incontro si risolse in modo abbastanza pacifico, trovando un accomodamento nel quale gli italiani si sarebbero limitati a presidi mobili intorno alla città, senza limitare l’autonomia delle istituzioni politiche locali. Al contrario le unità militari ottomane si sarebbero astenute dall’avanzare verso Adalia, dove tra l’altro in quel periodo erano stati riscontrati numerosi casi di malaria, delegando di fatto il presidio del territorio alla fanteria italiana. La risoluzione pacifica delle possibili incrinature tra italiani e turchi mise ancora di più in cattiva luce il colonnello Torriani, giudicato da Ferrante poco energico, anzi timoroso di prendere l’iniziativa militare. Il diplomatico, a fronte della sua conoscenza del luogo e della popolazione, non si sentì di giustificare il pessimismo del colonnello, preoccupato solo di non esporre troppo i suoi reparti, sparpagliati in tutta la regione, a possibili reazioni avversarie.  Sebbene la propaganda anticristiana si facesse sentire da parte di alcuni ufficiali ottomani e di elementi religiosi, secondo il console le preoccupazioni erano eccessive e influenzate dall’opera di provocazioni. Si oppose quindi alla richiesta di nuovi contingenti militari, convinto che quelli presenti fossero più che sufficienti per l’opera di presidio, voluta dal Governo italiano. Secondo Ferrante non servivano altri soldati in armi, ma una rete di relazioni e il coinvolgimento amichevole delle istituzioni locali alla causa italiana, in funzione anti-greca e anti-inglese.
Nonostante i buoni propositi, tuttavia i problemi per gli italiani sembravano non finire. Si è già visto, nelle fasi precedenti allo sbarco e nell’occupazione di Adalia, come l’attività di Biagio Pace fosse per certi versi più “politica” che archeologica. Il suo impegno venne rivolto in massima parte alla consulenza organizzativa delle autorità diplomatiche italiane, per indirizzare sul campo la fanteria a occupare le località che, secondo lui, avrebbero dato più slancio e prestigio alla penetrazione militare. Vale la pena però descrivere anche la sua attività prettamente archeologica, rivelatasi complementare a quella politica. Ripercorrendo le glorie di Roma, anche quando i primi ardori nazionalistici sembrarono in parte scemare, Pace rimase comunque ad Adalia. Per quanto riguarda la sua opera archeologica, fu molto attivo in città, dove il restauro della Porta di Adriano era per lui «un vero debito d’onore».[7] Tuttavia la sua intraprendenza e il suo spiccato decisionismo furono bersaglio delle più vive proteste turche. Il Governo di Costantinopoli chiese tramite l’Alto commissario italiano una relazione dettagliata di tutti gli scavi aperti e di tutto il materiale rinvenuto e che – secondo le autorità locali di Adalia – era stato depredato e portato anche a Rodi.[8] Ne nacque un caso diplomatico; Sforza chiese spiegazioni direttamente a Ferrante, che rigettò ogni accusa e, difendendo l’operato del suo protetto Pace, cercò in tutti i modi di screditare il mutasserif  e cercare di farlo sostituire.[9]
Del resto l’archeologo, all’acme del suo potere in zona, riuscì ad addomesticare pure il colonnello Torriani, accusato a più riprese non solo di non collaborare nell’importate opera di recupero della Porta di Adriano, ma accusando i suoi soldati di aver danneggiato i resti delle mura per la realizzazione di alcuni interventi stradali. Il professore aggiunse come l’antica cinta fortificata, costituita da torri, bastioni e falsebraghe di varia epoca era stata irreparabilmente rovinata a partire da alcune demolizioni effettuate dalle autorità ottomane, per il reperimento di materiali occorrenti la costruzione di case per i profughi delle guerre balcaniche. Fortunatamente la Missione archeologica italiana era intervenuta in tempo e aveva limitato i danni, ma la situazione non era delle migliori. Per questo, nell’intento di iniziare un lavoro di ripristino efficace, Pace chiedeva al comando militare di ordinare la cessazione delle azioni lesive dell’integrità architettonica delle mura. Il professore non escludeva affatto che in avvenire, per l’incremento della città di Adalia, parte dei bastioni e delle torri potessero venire abbattute o riutilizzate, ma tutto ciò doveva essere fatto in armonia con un piano regolatore organico, alla cui compilazione doveva collaborare la Missione archeologica. Aggiunse che, per ragioni intuitive, sarebbe stata grave onta per gli italiani non tenere in conto la necessità artistica, che perfino il Governo ottomano aveva riconosciuto. Non era pensabile abbandonarsi in demolizioni parziali, al solo scopo di trarne materiale da costruzione, che non era difficile trovare altrimenti sul posto.[10] Il ministero della Guerra, sollecitato dagli Affari Esteri, impartì ordini precisi al comando militare di Adalia per una piena collaborazione delle truppe italiane, a fronte dei «gravi e delicati compiti di civiltà e di coltura» dell’Italia.[11]
Nonostante questo successo tutto personale di Pace, la situazione non migliorò, visto che anche il colonnello Torriani fu investito da queste lagnanze direttamente da Ahmed Rauf, direttore degli Affari di Diritto del Konak.[12] Se le attività di scavo procedevano, in parallelo continuavano ad arrivare le proteste del Governo ottomano contro l’asportazione e il trasporto di marmi e altri reperti nella sede di Ferrante. L’archeologo Giuseppe Moretti, che nel frattempo ad Adalia aveva sostituito Pace, fu alquanto piccato e fece notare di come fosse grottesco che il Governo turco si interessasse ora delle azioni italiane: era dal 1914 che la Missione scientifica nazionale dedicava la sua opera all’individuazione, alla conservazione e al restauro delle antichità, in accordo con il sindaco e il mutasserif della città, a fronte della massima incuria e usura causata proprio dalle autorità ottomane, mai interessate all’aspetto artistico della città di Adalia. Riconobbe tutto quello che veniva imputato agli archeologi italiani, facendosene addirittura un vanto! Fece pure presente come, non solo il materiale a disposizione fosse di molto superiore a quello reclamato, ma che tutto ciò era stato prelevato come frutto di scavi italiani. Rimaneva quindi nei locali diplomatici di Ferrante unicamente per finalità conservative, proprio per restituirgli valore storico e artistico. Esattamente il contrario di ciò che aveva fino ad allora fatto il Governo turco.[13] Per questo, non solo escludeva a priori ogni possibile restituzione da parte delle autorità italiane, ma pretendeva anche il diritto esclusivo per esse di organizzare il servizio di scavo. In questo trovò concorde il comando militare italiano di Rodi e nulla per il momento venne riconsegnato.[14]
Nel frattempo ai primi di novembre 1919 nella zona di Adalia si svolsero le elezioni politiche per il rinnovo del Parlamento ottomano. Il sangiaccato era rappresentato alla camera da due deputati, eletti da un consiglio di una cinquantina di capi elettori, che a loro volta erano eletti da 500 elettori ciascuno. I due deputati potevano essere prescelti fra i capi elettori stessi oppure fra i comuni cittadini. La sfida elettorale si svolse nella massima calma, pur non mancando un numero rilevante di candidati intorno alla dozzina. I partiti politici in lizza erano quelli dei Giovani Turchi, del nuovo Partito costituzionale conservatore e di quello governativo. Secondo la relazione del comandante dei carabinieri italiani in città, nessuno però svolse una propaganda netta, basata su principi e programmi distinti, come si verificava in Italia. Quindi le elezioni si sarebbero basate su una funzione del tutto meccanica e su una scelta basata su questioni personali. I musulmani presero tutti parte al voto, lo stesso dicasi per gli ortodossi, che però avevano ricevuto il divieto di partecipare alla consultazione dal Patriarcato di Costantinopoli. Le elezioni si svolsero con la massima calma. L’ordine pubblico della città era perfetto, ma le campagne erano percorse da bande nazionaliste e da briganti, che compievano ogni specie di spoliazione. Gli italiani si limitarono a garantire la sicurezza in città, convinti che qualsiasi diversa ingerenza li avrebbe esposti a rischi inutili. Del resto proprio a partire dal settembre di quello stesso anno, per ragioni economiche e di opportunità politica il Governo italiano aveva di molto ridimensionato i contingenti all’estero e quindi limitato anche le truppe di guarnigione in Turchia. Nella zona di Adalia, visto che le truppe si erano ridotte a un solo battaglione, il presidio non poteva che essere solo quello urbano. Questo atteggiamento fu poi giustificato dalla volontà italiana di non trovarsi avverso il movimento nazionalista di Mustafa Kemal, che mese dopo mese stava guadagnando forza ed autorevolezza.
Per questi motivi il 15 dicembre le autorità militari italiane di Rodi autorizzarono Torriani di  riconsegnare a un reggimento turco, che partiva dalla città, 12 mitragliatrici e 700 fucili Mauser, in precedenza presi in consegna dagli italiani. Perché l’operazione potesse apparire di puro carattere militare, fu suggerito al console Ferrante di non presenziare all’evento. Il comando di Rodi ritenne utile rendere nota la cosa, per far sapere attraverso l’Alto commissario a Costantinopoli a Mustafa Kemal quanto vi fosse di cortese e corretto in questo atto.
Mentre questo accadeva ad Adalia, a Parigi la situazione diplomatica aveva continuato a procedere in modo altalenante, in relazione alla questione ottomana. Di massima non si volle accordare nessuna considerazione alle ragioni della popolazione turca, visto che nel marzo del 1920 addirittura la capitale Costantinopoli venne occupata congiuntamente dalle Potenze vincitrici. Anche l’Italia fu protagonista dell’evento, ma con un contingente poco più che rappresentativo. Il motivo di questa esigua partecipazione era sia l’esiguità dei reparti a disposizione, sia l’interesse a non precludere nessun negoziato separato con i turchi, sia nella propria parte imperiale che in quella nazionalista repubblicana, che proprio in quei mesi trovava sempre più consensi interni e successi esterni. In questa situazione complicata e convulsa si arrivò dunque al Trattato di Sèvres e all’annesso Accordo tripartito (10 agosto 1920), in cui si dispose l’autentica spartizione (territoriale o economica) dei possedimenti ottomani tra la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e la Grecia. Tuttavia questo diktat non venne accettato dai nazionalisti repubblicani, che quindi proseguirono la propria lotta contro ogni forma di occupazione militare straniera.
In questo clima i militari italiani, ridotti nel numero, rimasero ad Adalia con l’unico obiettivo di tutelare quanto meno gli interessi economici e di bandiera del proprio Paese. A tal proposito in settembre vi fu il saggio accademico musico-letterario di fine anno scolastico e la distribuzione dei premi presso la scuola italiana, gestita dai religiosi salesiani. L’istituto, creato dall’Associazione nazionale per i missionari italiani all’estero, nell’anno 1919-1920 aveva accolto nelle classi diurne 95 alunni e 106 in quelle serali. I 95 alunni delle scuole diurne erano per nazionalità così distinti: 11 italiani, 35 ottomani, 18 israeliti, 8 armeni e 23 ortodossi. Dei 106 alunni delle scuole serali, a eccezione di una diecina d’israeliti e di una quindicina d’ottomani (tre dei quali maestri nelle loro scuole) il resto era composto da ortodossi, che già davano prova del profitto fatto, usando la lingua italiana quando avevano da trattare con gli italiani, residenti ad Adalia. Il comando di Rodi, il ministero della Marina, il console Ferrante seguirono l’opera didattica, come forma di propaganda italiana, con la più alta simpatia. Il nuovo comandante italiano del settore, il maggiore Francesco Sartoris, aveva fornito per l’occasione un teatrino.
Con i mesi la situazione si rivelò sempre più onerosa per l’Italia, convinta che i problemi nazionali sociali ed economici avessero la priorità, rispetto a quelli di politica estera. All’inizio del 1921 ormai la presenza militare italiana in Anatolia era in una fase in cui quasi ogni tipo di ambizione politica stava volgendo al termine. Secondo le direttive del nuovo ministro degli Affari Esteri Sforza (che come si ricorderà in precedenza era stato Alto commissario italiano a Costantinopoli), in maggio il ministero della Guerra per ragioni politiche ordinò il ritiro del presidio di Adalia, dandogli un significato di riconoscimento e di pacificazione con il Governo di Angora. Le truppe italiane furono sgomberate nel tardo pomeriggio del 5 luglio, dopo una sobria cerimonia di commiato tra militari e connazionali residenti civili in città.[15] Le autorità politiche e militari italiane si raccomandarono che i comandi in partenza non vendessero o cedessero né ai privati né alle istituzioni locali armamenti o materiali. Tuttavia alcuni ammonimenti di Roma avrebbero evidenziato che proprio in quei giorni vi sarebbero state delle distribuzioni di materiale italiano alle autorità turche di Adalia.[16]
In città, dove sarebbe rimasto il nuovo console Iginio Faralli con un distaccamento di carabinieri, si cercò di lasciare un clima favorevole e di gratitudine all’Italia, sperando che esso potesse allargarsi anche alla valle del Meandro, dove si sarebbero concentrate le uniche attenzione del residuale contingente militare, che gravitava intorno a Rodi. Nonostante fosse stato inizialmente preventivato, non vi fu un saluto ufficiale delle truppe turche a quelle partenti. In questi frangenti vennero pubblicati alcuni articoli sulle colonne del giornale locale «Anatolu». In essi, la soddisfazione per la partenza degli occupanti italiani venne completata dall’auspicio che l’onesta coabitazione durata oltre due anni potesse essere il germoglio per una futura e reciproca collaborazione. I turchi, ognuno nella propria autonomia decisionale e politica, avrebbero così auspicato una complementarietà di mezzi e fini, vantaggiosa per entrambi i popoli.[17]
Nonostante la soddisfazione per la partenza degli occupanti, tuttavia alcune autorità turche vicino al Governo di Angora mostrarono più di una preoccupazione al completo ritiro italiano dalla zona. I nazionalisti erano dell’opinione che – seppur uno Stato occupante – l’Italia poteva rimanere utile alla causa turca come cuscinetto contro qualche nuova pretesa britannica o greca nella regione. Le preoccupazioni turche si rivelarono in parte fondate, anche perché il clima incandescente, prima intiepidito dalla presenza moderatrice degli italiani, da quel momento sembrava riprendere corpo anche in città. Nonostante questi timori, la graduale avanzata dei nazionalisti ottenne senza grosse difficoltà la sovranità su Adalia, allontanando qualsiasi nuova o diversa influenza straniera.

L’attività economica-finanziaria
Come si è accennato l’Accordo tripartito, annesso al Trattato di pace di Sèvres, conteneva degli interessanti risvolti economici anche per l’Italia: un’ampia area di influenza commerciale, che andava ad inserirsi nella zona sud-occidentale dell’Anatolia. In relazione alle aspirazioni coloniali e imprenditoriali la delegazione nazionale al tavolo della pace, anche per motivi lobbistici, risultò molto sensibile alle pressioni esercitate dai principali esponenti del ceto industriale e bancario del Paese, che speravano in questo modo di reperire nuove risorse, materie prime e aprire interessanti mercati ai propri prodotti finiti. Del resto l’articolo 260 del trattato di Versailles prevedeva, per l’esecuzione delle riparazioni tedesche, anche il trasferimento di diritti e di interessi tedeschi in Turchia; l’Italia non era certo intenzionata a rimanere fuori da questa proficua spartizione. Tra gli istituti di credito nazionali più interessati alle sorti del Mediterraneo orientale vi era la milanese Banca Commerciale Italiana, fondata alla fine dell’Ottocento attraverso un consorzio di capitali tedeschi, e il Banco di Roma, legato agli interessi del mondo cattolico.
La strategia della Banca Commerciale era cogliere l’opportunità economica potenziale del moribondo Impero ottomano e farne un volano industriale per la struttura finanziaria italiana, in prospettiva di una prossima e recessiva riconversione dell’apparato manifatturiero bellico, seguente alla fine della guerra. Aveva già da tempo aperto una filiale a Costantinopoli e poi una a Smirne, oltre al fatto che attraverso una sua filiazione (la Società Commerciale d’Oriente) controllava il potenziale mercato dell’Asia Minore sin dal 1907. Solo apparentemente diversa era la strategia del Banco di Roma, che puntava molto sul Mediterraneo orientale. Aveva aperto nel 1905 una filiale ad Alessandria d’Egitto, nel 1906 a Malta, nel 1907 a Tripoli e Bengasi e nel 1911 a Costantinopoli. In questa logica tra l’ottobre e il novembre 1918 il Consiglio d’amministrazione del Banco di Roma deliberò all’unanimità l’apertura di un’agenzia ad Adalia (dipendente dalla sede di Smirne).
Intanto gli eventi politici avevano fatto il loro corso e la presenza militare italiana in Anatolia offriva al Banco di Roma nuove opportunità. Nel maggio del 1919 venne segnalato che le truppe italiane in Asia Minore, essendo pagate in moneta nazionale, subivano un danno nel corrispettivo valore di mercato. Venne subito denunciato non come fenomeno circoscritto solo ad Adalia, dove si era evidenziato il problema, ma connesso alla situazione generale della valuta italiana. Per ovviare a questi motivi di natura pratica e per il desiderio di rilanciare l’economia italiana, il Governo italiano anche grazie all’intervento diretto dell’Alto commissario Sforza agevolò lo studio e la realizzazione di un piano capillare in Turchia per il Banco di Roma. Il 16 settembre 1919 la Direzione centrale dell’istituto romano incaricò il tenente colonnello dei bersaglieri Francesco D’Agostino di effettuare un sopralluogo a Rodi e nella zona di Adalia, per giudicare l’opportunità e il modo di iniziare proficui affari in quella regione, grazie alla sua influenza presso le autorità militari.[18]
Proprio la sua provenienza dai ranghi dell’Esercito quale ufficiale superiore, nonché la sua profonda conoscenza dell’Oriente, dimostrò come la scelta di D’Agostino fosse ben ponderata. Durante la sua missione per il Banco di Roma, l’ufficiale compilò un’accurata analisi sulla situazione locale.[19] Riscontrò come le attività e i prodotti del suolo, che passavano per Adalia, centro commerciale della zona, delineassero «la convenienza evidente dell’istituzione di case bancarie» per un possibile futuro industriale. Registrò una carenza di linee di comunicazioni, migliorabili però in avvenire, un discreto transito commerciale e molti corsi d’acqua, con relativa possibilità di energia elettrica. Nello specifico il Duden-Su aveva un regime capriccioso, ma rappresentava «la risorsa dell’avvenire d’Adalia sia come acqua irrigatoria, sia soprattutto forza motrice». Se incanalato con criterio, poteva dimostrare la sua potenzialità per le colture e per la produzione elettrica. Per il momento l’uso del fiume era stato chiesto e ottenuto in via provvisoria da un certo Tecofik bey, dietro cui si nascondeva la Società Commerciale d’Oriente (ossia la Banca Commerciale Italiana), la cui concessione era stata stabilita per 40 anni dal mutasserif. Tuttavia essa non avrebbe avuto valore se non fosse stata confermata a Costantinopoli. Poteva quindi essere soppiantata da una diretta concessione del Governo centrale. I prodotti agricoli e il bestiame davano un margine di crescita: «credo molto giusto il detto che: la Turchia è un paese ricco di miniere povere».
Sottolineò la peculiare precaria situazione politica da poter cogliere a fini commerciali. L’unico sportello indigeno presente era quello della filiale della Banca Imperiale Ottomana, ma vista la situazione politica ne diagnosticò vita breve. Nel settembre del 1919 si era insediata la Banca Commerciale d’Oriente, a cui si appoggiava la locale agenzia della Lloyd Trieste. In città vi era inoltre una discreta diffusione di ditte italiane. Da quanto esposto, D’Agostino si espresse in un giudizio ottimistico, convinto di poter trarre con cura e pazienza le notevoli potenzialità fino ad allora inespresse: «balza evidente l’opportunità anzi la necessità dell’impianto in Adalia delle filiali del Banco di Roma. [...] La filiale d’Adalia va considerata come una delle più importanti e potenti maglie della rete bancaria che il Banco di Roma sta stendendo sull’Oriente vicino. [...] Per ora non credo conveniente l’acquisto di terreni o comunque l’ingolfarsi in culture dirette del suolo».
D’Agostino aggiunse che l’istituto poteva beneficiare di tutti i vantaggi presenti, solo se l’indirizzo e l’azione commerciale e industriale fossero stati subordinati alla politica dell’Italia nei riguardi di quella regione, che le sarebbe stata affidata in Anatolia. Sulla modalità operativa invece, proprio perché «l’Anatolia, ed in ispecie la regione di Adalia, è un campo vergine, dove tutto è da fare [...] occorre che l’organizzazione sia armonica nelle sue parti». Volle escludere il Governo come ente organizzatore, «sia in veste militare che in veste civile», essendo stata l’esperienza delle colonie negativa. In alternativa propose un’organizzazione simile a quella della Compagnia delle Indie, in cui si univa la responsabilità e buoni contatti con gli enti locali. L’esperienza inglese infatti aveva dimostrato come la libera iniziativa privata, se appoggiata dallo Stato perché a lei sussidiaria in campo politico, poteva creare alti profitti economici e risvolti istituzionali molto rilevanti. Solo una piena collaborazione tra mondo politico-militare e impresa, in termini di responsabile liberalismo, avrebbe creato valore aggiunto per tutti. Si sarebbe evitato d’imprigionare il Governo italiano in pesanti e impegnative iniziative all’estero, sconsigliate dalla contingente crisi sociale ed economica, che il Paese soffriva al termine del conflitto.
L’attività di D’Agostino fu molto apprezzata[20] e nell’aprile 1920 venne convocato alla Direzione generale a Roma.[21] Qui nel concreto vennero iniziati i preparativi per l’apertura della succursale di Adalia. In marzo il direttore della succursale di Rodi espresse l’opinione che per l’avvio della sede di Adalia erano necessarie 25.000 lire.[22] Tutto sembrava pronto per un rapido successo, ma le aspettative si erano rivelate troppo ottimistiche della normale realtà. La nuova filiale di Adalia, dipendente da quella di Costantinopoli, venne aperta finalmente nell’autunno del 1920, dopo lunghe insistenze delle autorità diplomatiche e politiche. La prospettiva di impegnarsi risultava allettante, perché la città faceva capo alle importazioni di prodotti industriali e le esportazioni dei frutti del suolo di un vasto distretto economico. Tuttavia il clima politico teso, soprattutto per l’avanzata del movimento kemalista, e l’atteggiamento turco in favore dell’Italia – giudicato «opportunistico» – facevano emergere grossi sospetti presso la direzione del Banco.[23] Queste obiezioni vennero fatte presenti il 22 ottobre anche a Sforza, allora ministero degli Affari Esteri, che aveva già svolto come Alto commissario a Costantinopoli un’opera di sostegno all’intervento bancario italiano in Turchia. Venne espresso scetticismo sulla cordialità turca, ritenuta solo occasionale in funzione dell’appoggio anti-greco. Si citò Mustafa Kemal che si scagliava contro gli stranieri europei in territorio turco. Nel nominare anche Adalia, sembrava prendersela anche contro gli italiani. Benché la banca si augurasse una perdurante situazione pacifica e collaborativa con i turchi, «non è assolutamente lecito al BANCO DI ROMA, per fiancheggiare nel campo economico l’azione che il Governo svolge nel campo politico, assumere tutti i rischi che oggi presenta un qualsiasi impegno di capitali in quei paesi». Venne giudicata «follia» concedere ancora finanziamenti nella regione, perché dopo tante sollecitazioni del Governo e relative «dolorose esperienze» in Libia e in Anatolia il Banco non era più disposto a rischiare così tanto. Viceversa esso sarebbe stato disposto a esaminare la possibilità di creazione di un apposito organismo per lo sfruttamento agricolo della valle del Meandro.[24]
Benché la succursale di Adalia avesse ottenuto un certo riscontro positivo nel primo periodo del suo esercizio, soprattutto grazie alle richieste di finanziamenti degli agricoltori della zona, la Direzione non si trovò sempre sicura del rischio che si era presa, assecondando gli interessi nazionali, a fronte di scarse garanzie politiche del Governo italiano. A causa dell’eccezionale situazione politica, in ottemperanza alle disposizioni del console della città, si decise temporaneamente di chiudere gli sportelli di Adalia. In una lettera del 17 novembre 1921 dell’amministratore delegato Giuseppe Vicentini-Lang, indirizzata al ministero degli Affari Esteri, venne espressa l’intenzione e la convenienza «di chiuderla fra breve definitivamente per ragioni economiche ed anche perché le autorità locali dipendenti dal Governo di Angora ci hanno fatto finora difficoltà per confermarne l’apertura. Nelle condizioni in cui si trova, la filiale in parola non ha possibilità di svolgere un utile lavoro e viene a rappresentare per noi un elemento di preoccupazione e di spesa».
Prima di agire in questo senso, il banchiere chiese l’assenso governativo per la progettata chiusura, «ma se, per ragioni di indole politica, da noi non completamente apprezzabili, codesto Spett. Dicastero ritenesse opportuno che, almeno per qualche tempo ancora, la nostra filiale avesse a rimanere aperta, noi saremmo disposti, nel solo intento di far cosa che riesca a vantaggio della difesa degli interessi italiani in quella regione, a sopportare le non lievi perdite cui siamo soggetti per mantenerla in vita».[25]
La Direzione generale affari politici del ministero degli Affari Esteri rispose, chiedendo un ripensamento, con la speranza che gli uffici di Adalia potessero ancora rendersi utili agli interessi italiani. Il ministero riconobbe che ciò avrebbe comportato sacrifici non lievi per l’istituto, ma poiché si aveva fondata speranza di arrivare a una soddisfacente sistemazione dei rapporti italo-turco-greci in quella regione, la decisione di continuare la presenza in quella città, oltre a dare considerevole vantaggio all’Italia, avrebbe profuso una rinnovata fiducia del Paese verso il Banco di Roma. In aggiunta a ciò il ministro fece anche presente che la definitiva chiusura in quel delicato momento avrebbe avuto un significato di debolezza politica, che sarebbe stato sfruttato ai danni del Governo dai partiti all’opposizione. Con questo si precisò pure che di questi discorsi non si doveva lasciare nulla di scritto, per ragioni intuitive, «dato che in Italia non si sa concepire ancora una intima collaborazione fra poteri dello Stato e attività privata per il bene generale».[26]
L’attività ad Adalia continuò ancora per un breve periodo. Nel 1922 a fronte della decadenza del trattato di Sèvres, del sopraggiungere della Repubblica di Angora e del ritiro delle truppe italiane dall’Anatolia, la sede di Adalia con le due succursali di Söke e Kuşadası vennero soppresse, mentre le filiali di Costantinopoli e Smirne furono trasformate in società di diritto turco.
Infine simile sorte toccò pure alla già citata filiale della Società Commerciale d’Oriente, aperta nell’autunno del 1919. Proprio in quel periodo la controllata della Banca Commerciale Italiana aveva dato alle stampe un ricercato volumetto dal titolo La regione di Adalia. Città, foreste, risorse agricole e minerarie, commercio. In esso venne presentato come i capitali italiani avrebbero dovuto offrire uno nuovo slancio all’economia locale, partendo dal presupposto che la ferrovia anatolica era divenuta sia un ostacolo, sia un’opportunità per il futuro della regione. Se il treno aveva di fatto tagliato fuori la costa meridionale turca da qualsiasi possibile traffico commerciale verso il Vicino Oriente, dall’altro una possibile diramazione ferroviaria avrebbe potuto restituire quanto ingiustamente negato. Come però nel caso offerto dal Banco di Roma, anche la Commerciale era disposta ad impegnarsi nel progetto industriale e finanziario solo se il Governo italiano avesse garantito quell’appoggio politico necessario a dare credito al progetto. In questo quindi si risentì non solo la malcelata incertezza sul futuro diplomatico dell’Anatolia, tra diverse forze in campo, ma anche una cronica necessità da parte del mondo industriale italiano di trovare sicuro riparo all’ombra del potere politico.
Nonostante questi limiti iniziali, la descrizione operata dal volume La regione di Adalia è ricca di spunti interessanti, anche se con eccessi nei commenti pittoreschi e assistenziali. Vengono annotate caratteristiche antropiche e naturali di notevole rilievo. Sono registrate le produzioni agricole e artigianali. Non vengono dimenticati particolari su come si svolgevano i commerci e sul carattere della popolazione. Di massima venne giudicato il tutto positivo, anche se mancando gli standard industriali europei la valutazione era attenuata dal fatto che la maggior parte delle attività dovevano essere più curate, per rendere più ricco il territorio. In buona sostanza si concludeva sulla mancanza dello stimolo giusto, per far sviluppare una società poco più che rurale e dedita a miseri commerci su base familiare. In modo paternalistico si propose di inserire il capitale italiano, affinché esso potesse creare vantaggio economico alla regione.
Sapendo come è andata a finire l’impostazione politica dell’imperialismo di Roma in Anatolia, è facile capire quindi che anche gli ottimistici progetti della Commerciale d’Oriente si risolsero in un autentico fallimento. L’agenzia, che si sviluppava su tre piani, già nel luglio del 1921 fu destinata alla chiusura.[27] Ciò avvenne nei mesi successivi, al pari di quanto accaduto per l’omologa del Banco di Roma.

Riferimenti archivistici
ASBR (Archivio Storico della Banca di Roma, Roma)
ASI (Archivio Storico di Intesa Sanpaolo, Milano)
AUSSME (Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma)
MAE, ASD (Ministero degli Affari Esteri – Archivio Storico Diplomatico, Roma)


(*) Storico Militare, Membro del Collegio dei Redattori dei “Quaderni”
[1] R. Webster, L’imperialismo industriale italiano, 1908-1915, Einaudi, Torino, 1974, pp. 317-436.
[2] MAE, ASD, Ambasciata italiana in Turchia, b. 127, f. vice consolato ad Adalia, documenti vari.
[3] G. Bevione, L’Asia Minore e l’Italia, Bocca, Torino 1914.
[4] AUSSME, E-3, b. 2, f. 2/3 a, nota di Guzzoni del 28/2/1919.
[5] M. Petricioli, Archeologia e politica estera tra le due guerre, Leadercomp, Firenze 1988, p. 26.
[6] AUSSME, E-3, b. 6, f. 6/4 b, bollettino speciale dell’ufficio informazioni della Marina del 3/5/1919.
[7] M. Petricioli, op. cit., pp. 28-29.
[8] AUSSME, E-3, b. 14, f. 14/5, lettera dell’Alto commissario del 5/11/1919.
[9] M. Petricioli, op. cit., p. 29.
[10] AUSSME, E-3, b. 14, f. 14/5, lettera di Pace del 7/10/1919.
[11] AUSSME, E-3, b. 14, f. 14/5, lettera del ministero della Guerra del 1/10/1919.
[12] AUSSME, E-3, b. 14, f. 14/5, lettera di Torriani del 29/8/1919.
[13] AUSSME, E-3, b. 14, f. 14/5, lettera di Moretti del 22/10/1919.
[14] M. Petricioli, op. cit., p. 35.
[15] MAE ASD, AAPP, 1919-1930, b. 1665, f. Sgombero Adalia, protocollo 165 del 5/7/1921 di Gambardella.
[16] MAE ASD, AAPP, 1919-1930, b. 1665, f. Sgombero Adalia, documenti vari.
[17] MAE ASD, AAPP, 1919-1930, b. 1665, f. Sgombero Adalia, articolo Anatolu del 5 luglio 1921, Buon viaggio.
[18] ASBR, BdR, VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino, lettera della direzione centrale a D’Agostino.
[19] ASBR, BdR, VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino, Relazione su regione di Adalia del 1/12/1919.
[20] ASBR, BdR, VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino, lettera del 3/5/20 da Direzione della sede di Alessandria a Bussetti.
[21] ASBR, BdR, VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino.
[22] ASBR, BdR, VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino, lettera del direttore della succursale di Rodi del 19/3/1920.
[23] ASBR, BdR, VIII.3.2, b. 8, fasc.10, lettera dalla direzione BdR a Costantinopoli 1/10/20.
[24] ASBR, BdR, VIII.3.2, b. 8, fasc.10, lettera del 22/10/20 del BdR al ministero degli Affari Esteri.
[25] ASBR, BdR, XI.5.3.3, b. 10, fasc.133, lettera di Vicentini-Lang al ministero degli Affari Esteri (17/11/21).
[26] ASBR, BdR, XI.5.3.3, b. 10, fasc.133, nota del 10/12/1921.
[27] ASI, BCI, VCD, vol. 1, 22/7/1921.

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