a. Considerazioni riepilogative
Analizzare
le cause del disastro della Battaglia di Custoza, ma più in generale della
campagna contro l’Austria del 1866, è impresa assai ardua. Infatti,
sull’argomento molto è stato scritto da parte di studiosi molto qualificati. Ci
sono, però, alcuni elementi dell’analisi della sconfitta che sono comuni a
tutti gli studiosi.
Condizioni
politiche, strategiche e tecnico-militari favorevoli alla guerra, condizioni
morali e motivazionali ottime, addestramento modesto, impreparazione dei quadri
elevati e mancanza, ai massimi livelli, di capi degni di uno stato maggiore
sono gli elementi chiave della battaglia di Custoza. La mancanza o quanto meno
l’ambiguità dei piani operativi, l’assenza di un comandante in grado di
condurre le operazioni completano la base di partenza della III Terza Guerra di
Indipendenza.
In
questa sezione verranno presentati quelli che a parere dello scrivente sembrano
essere i motivi principali che hanno portato alla sconfitta e che più di altri
sembrano essere di attuale interesse.
(1)
Unicità di
comando
Il
Re Vittorio Emanuele II avrebbe voluto assumere il comando effettivo delle
operazioni, assistito dal capo di Stato Maggiore il Gen. Petitti, Il Gen.
Cialdini, così come il Gen. Della Rocca, desiderosi di assumere il comando
supremo, non gradivano la possibilità che il Gen. La Marmora potesse assumere
l’incarico di Capo di Stato Maggiore. Ma La Marmora era il più anziano e
pertanto si optò per una soluzione in cui egli stesso assumeva l’incarico di
Comandante dell’Armata del Mincio, e conferiva il comando del IV Corpo
d’Armata, su otto divisioni, detto infatti Armata del Po, al Gen. Cialdini. La soluzione
adottata era simile a quella prussiana. Ma in Prussia il Capo di Stato
Maggiore, Gen. Von Moltke, ricopriva quell’incarico da circa otto anni e
pertanto era riuscito a preparare la guerra contro l’Austria in tutti i minimi
particolari. La Marmora, invece, assume l’incarico due giorni prima dell’invio
della dichiarazione di guerra, avvenuta il 20 giugno 1866.
L’organizzazione
in cui due armate operano separatamente a più di cento chilometri è, però,
forse la causa principale per la quale la campagna partì in maniera infelice
soprattutto per la mancanza di
coordinazione.
Con
questo antefatto, seguendo attentamente i fatti della campagna non si capisce
chi avesse il comando delle operazioni: il Gen. Cialdini non obbedì al Re che
gli aveva ordinato di passare il Po, dopo la sconfitta di Custoza, il Gen. La
Marmora non intervenne quasi mai sul Mincio e quando lo fece sbagliò
clamorosamente.
(2)
Pianificazione
Tutta
la campagna italiana fu caratterizzata dalla mancanza di un piano operativo
strutturato. Tutte le operazioni furono condotte senza una visione strategica,
senza che fosse stato espresso un disegno di manovra. Le operazioni erano
guidate da ordini scaturiti dalla pura
improvvisazione dei comandanti a tutti i livelli. Il piano prevedeva essenzialmente
due fronti uno sul basso Po e uno sul Mincio dove avrebbero operato due diverse
armate “secondo le occorrenze colla
massima energia per modo di battere o paralizzare il nemico attraendolo ora da
una parte, ora dall’altra”[i]. Il Gen.
La Marmora e il Gen. Cialdini erano convinto che l’altro avrebbe fatto
un’azione diversiva per agevolare la propria operazione. Ma se l’Armata del Po
avrebbe dovuto fare un’azione dimostrativa, tale operazione doveva precedere
l’attraversamento del Mincio. Per contro se a fare l’azione dimostrativa era
l’Armata del Mincio, non era necessario farlo con dieci divisioni. La soluzione
adottata dunque non solo mancava dell’unità di direzione, ma costituiva solo il
compromesso utile ad accontentare i due generali.
Per
comprendere l’inettitudine dei quadri dirigenziali che operarono a Custoza,
basterebbe osservare la disposizione dei due eserciti il 23 giugno 1866 per
rendersi subito conto di come gli imperiali siano pronti a combattere,
schierati secondo un concetto di manovra del comando supremo, mentre gli
italiani erano ben lontani da credere ad
un imminente inizio delle operazioni. L’idea era quella di un nemico
ancora sull’Adige
Più
nel dettaglio furono riscontrate carenze nelle attività di esplorazione che
furono completamente ignorate lasciando interi reparti di cavalleria nelle
retrovie e comunque inattive.
Gli
attacchi e i contrattacchi furono condotti senza unità di direzione e adeguato
sostegno di fuoco, ma soprattutto non alimentabili a causa della mancanza di
riserve o rincalzi, o se presenti schierati troppo lontani.
I
movimenti furono troppo lenti a causa di inciampi e di sovrapposizioni di
colonne su una stessa rotabile, ma soprattutto a causa del fatto che le colonne
avevano quasi tutto il carreggio al seguito.
Molte
unità non furono per nulla impegnate senza sapere cosa stesse succedendo a
pochi metri dalla loro zona di schieramento.
(3)
Il personale
“Non si può rifiutare all’avversario la
testimonianza che si è battuto con pertinacia e con valore. I suoi primi
attacchi, specialmente, erano vigorosi, e gli ufficiali, slanciandosi innanzi,
davano l’esempio”[ii]. Sono
le parole con cui l’Arciduca Alberto esamina il comportamento dei soldati
italiani nel corso delle operazioni.
Dall’esame oggettivo dei fatti è indiscutibile che gli italiani si batterono
bene, con ardore e coraggio quando furono ben comandati e guidati. I soldati
italiani dimostrarono ripetutamente in quella campagna sfortunata del 1866
preziose virtù militari.
Gli
sbandamenti e gli sfasci, che ci furono sia tra gli italiani sia tra gli
austriaci, furono sempre la conseguenza del cattivo impiego delle unità,
impegnate in combattimenti con rapporti di forza improponibili e su posizioni
tatticamente e tecnicamente sbagliate e non al grado di addestramento.
Nessun commento:
Posta un commento