Nel quadro della proposta di avviare una nuova revista, di seguito un esempio di articolo
vds. www.prigioniadiguerra.blogspot.com
CONTRIBUTI
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CONTRIBUTI
Alla
origine della prigionia in mano della URSS
Massimo
Baldoni
Dal
1945 ad oggi è stato scritto molto sulla Campagna di Russia del 1941-1943, una
campagna che è stata, a partire dall'unità d'Italia, una delle prove belliche
più terribili e disastrose della storia dell’Esercito italiano. Sotto taluni
aspetti, per il soldato italiano questa fase della guerra potrebbe essere
considerata e paragonabile solo ad alcune delle più sanguinose battaglie della
prima guerra mondiale.
Sono
numerosi i reduci che hanno contribuito con le loro testimonianze a ricostruire
quei momenti drammatici, tuttavia, solo recentemente è stato possibile
ricostruire gli eventi con documentazione proveniente non solo da associazioni
ed enti istituzionali[1], ma anche con i contributi di studiosi
stranieri (in particolare, tedeschi e russi[2]), forniti grazie all’apertura degli archivi
sovietici nei primi anni ’90.
La
campagna di Russia, rappresenta una delle più significative pagine di storia scritte
dalle unità italiane durante la 2^ Guerra Mondiale, e questo, sia per le
perdite – che, in assoluto e in rapporto agli effettivi impiegati, sono state
le maggiori di tutta la guerra italiana 1940-43 - ma anche per le ragioni di
natura politica (che G. Rochat individua nell’anticomunismo esasperato degli
anni della guerra fredda) che hanno finito per strumentalizzare questa
campagna, menomandone e riducendone (se non annullando) il valore dei nostri
soldati.
In tale tragico contesto, senza dubbio ha giocato
un ruolo fondamentale il durissimo ed inospitale “ambiente geografico” ove si svolsero le vicende in esame. Un
ambiente, caratterizzato dalla steppa russa[3] ovvero, da sterminate pianure battute da
venti aridi e polverosi d’estate, fangose ai limiti della percorribilità in
primavera ed autunno ed innevate con 30/40° sotto zero d’inverno. Un ambiente,
operativamente caratterizzato da spazi molto ampi, con scarse possibilità di
copertura tattica e adatto all’impiego spinto di forze corazzate e motorizzate.
Un ambiente che ha fortemente penalizzato (e condizionato fino agli atti
conclusivi) chi si è trovato ad agire in carenza o assenza
totale di adeguati
mezzi, equipaggiamenti e rifornimenti logistici. Fra tutti i fattori, è stato
infatti il freddo - il “generale Inverno”
– a mietere il maggior numero di vittime, meritando a pieno titolo un posto
di rilievo sull’esito dell’intera campagna e costituendo per tutti (tedeschi ed
alleati) una amara sorpresa, alla stregua di quanto già era avvenuto un secolo
prima con Napoleone.
Lo
scopo di questo studio è quello di effettuare una disamina su “la sacca del Don” e, in particolare,
l’insieme di quegli eventi che hanno caratterizzato la fase conclusiva della
Campagna di Russia, determinando il quasi totale annientamento dell’Armata
Italiana in Russia (ARMIR). Il fine ultimo è quello di potersi soffermare e
riflettere su alcuni ammaestramenti da poter proiettare a quelle che sono le
operazioni dell’attuale contesto internazionale.
A
tal fine, si è inteso articolare lo studio partendo da un’analisi che
facilitasse la ricostruzione e l’inquadramento storico degli eventi. In tal
senso, si è fatto riferimento alle origini della guerra tedesca contro la Russia e la partecipazione
italiana sul fronte russo. Quindi, delineata la situazione venutasi a creare
sul Don (passaggio di consegne dallo CSIR all’ARMIR), si è proceduto ad una
rapida descrizione della controffensiva russa che, con l’Operazione “Piccolo
Saturno” (seconda “battaglia di dicembre”),
ha determinato il disfacimento del dispositivo difensivo dell’asse (fase di
logoramento e fase di rottura), travolgendo in una sacca mortale le unità
italiane.
Dall’esame
storico degli eventi, si è infine proceduto ad una analisi di pianificazione
operativa che - secondo un’ottica moderna - consenta di estrapolare alcuni
insegnamenti utili non solo per ricordare l’estremo sacrificio compiuto da
coloro che hanno scritto pagine della nostra storia ma, soprattutto, per non
permettere il ripetersi di errori macroscopici commessi a livello strategico ed
operativo.
Il
patto russo‑tedesco[4] di amicizia e di non aggressione, stipulato
a Mosca nell’agosto del 1939, fu un evidente espediente tattico dal quale i due Stati si erano
ripromessi di trarre reciproci vantaggi contingenti e temporanei.
Da
un lato, Berlino si proponeva di condurre indisturbata la sua “guerra lampo” (blitzkrieg) contro la Polonia e le Potenze
occidentali, dall’altro, Mosca intendeva conseguire una serie di concessioni
territoriali per migliorare la sua posizione politica e militare e,
contemporaneamente, guadagnare tempo per perfezionare la costituzione di una
adeguata macchina bellica. Fintantoché si trattò di allargare la propria sfera
di interessi, il binomio russo-tedesco funzionò abbastanza bene. I tedeschi
erano convinti che la guerra fosse vicina al termine (illusione che convinse
anche l’Italia a scendere in campo). Hitler
pensava che, dopo il rapido crollo della Francia e degli altri alleati minori, la Gran Bretagna
acconsentisse ad un accomodamento pena l’intensificarsi della guerra aerea sul
suolo inglese e, forse, uno sbarco. Ciò non avvenne, lo sbarco non si poté fare
e i bombardamenti, alla fine del settembre ’40, si andavano esaurendo. Mentre la Russia quasi senza sforzi
si era impadronita di vasti territori, la Germania era entrata in una fase di stallo.
Le
relazioni con la Russia
si facevano sempre più difficili tanto che in un convegno tra Molotov e Hitler (BERLINO, 12 novembre 1940)
si cercò di gettare le basi per una netta separazione delle sfere di
influenza. Un punto particolarmente delicato era quello della Finlandia, che
alla fine verrà sacrificata da Hitler
all’aggressione della Russia. Mussolini colse l’occasione per ammonire Hitler sul fatto che un’ulteriore passo
nei rapporti tedesco-russi avrebbe avuto effetti catastrofici in Italia. Mussolini sempre più sensibile alla
politica interna (in quel momento, la
Russia era impopolare in Italia e le simpatie vibravano per la Finlandia aggredita) ed
internazionale, avvertiva Hitler che
la soluzione del suo “spazio vitale” era in Russia. A ciò si aggiunge che anche
Churchill nelle sue memorie sulla
prima guerra mondiale aveva osservato che i Tedeschi avrebbero potuto vincere
nel 1918 se si fossero tempestivamente impadroniti della Russia, in particolare
l’Ucraina, eludendo così gli effetti del blocco marittimo. Questi consigli, del
presente e del passato, potrebbero aver influito sulla decisione finale di Hitler.
Tuttavia gli sforzi di una pacifica convivenza continuarono, tanto che la Germania formulò un
progetto per un vero e proprio accordo quadripartito tra Italia, Germania,
Unione Sovietica e Giappone. Ma la
Russia pose fin dall’inizio condizioni che sembrarono
inaccettabili a Berlino e - il 18 dicembre 1940 - il Quartier Generale del
Fuhrer diramava la direttiva segretissima per l’ “Operazione Barbarossa”.
L’Operazione
Barbarossa
All’alba
del 22 giugno 1941 le armate tedesche si mossero con sincronia lungo un fronte
di 2.000 chilometri
dando inizio all’“Operazione Barbarossa”,
con l’obiettivo di eliminare la “minaccia ad oriente”, nonché di assicurare
rifornimenti alimentari e materie prime (specialmente petrolio)[5]. Nel suo insieme l’operazione si prefiggeva
di “schiacciare la Russia sovietica in una
rapida campagna”, prima che la guerra contro l’Inghilterra fosse conclusa.
“Il grosso dell’esercito russo nella
Russia occidentale deve essere distrutto in operazioni ardite spingendo avanti
cunei corazzati e impedendo la ritirata di unità capaci di combattere
nell’immenso territorio russo”. “L’obiettivo
ultimo dell’operazione è creare una linea difensiva contro la Russia asiatica con un
fronte che vada dal Volga ad Arcangelo”[6]. Al fianco dei tedeschi operavano le forze
degli ”alleati” finlandesi, slovacchi e romeni: circa 23 divisioni, 3 brigate
di cavalleria, 3 brigate da montagna e 1 brigata motorizzata.
La
partecipazione italiana
Già
il 15 giugno 1941 in
una riunione a palazzo Venezia tra Mussolini, Cavallero (Capo di Stato
maggiore) ed il Generale von Rintelen
(addetto militare tedesco a Roma) si trattò per l’approntamento di un Corpo
d’Armata per la Russia. L ’offerta
italiana non trovò un’accoglienza favorevole da parte tedesca. Infatti,
l’Italia aveva già un proprio teatro di operazioni in Africa in cui stentava a
mantenersi. Inoltre aveva già disperso molte forze in Francia, Croazia, Albania
e Grecia ed aveva perso molti uomini e materiali. La sua produzione bellica era
lenta e stentata, i suoi quadri deboli ed i suoi soldati, benché validi, poco
addestrati. Mussolini - che probabilmente si sentiva in obbligo per l’aiuto
fornito dai Tedeschi in Africa - tenne duro e le notizie dei fulminei successi
tedeschi lo indussero a credere ad una facile vittoria dell’alleato. Non si
comprese che lo spazio diventava un’immensa forza per la Russia in funzione
difensiva (come il mare lo fu per l’Inghilterra). Il consenso tedesco alla
partecipazione arrivò il 30 giugno. Il 9 luglio il comando supremo stilò l’atto
di nascita del Corpo di Spedizione
Italiano in Russia (CSIR)[7]. Il 10 luglio 1941 il CSIR[8] iniziò i movimenti per la zona di radunata.
Il 13 giugno 1942 passò alle dipendenze della 17^ armata tedesca. Il
9 luglio il Comando dell’8^ Armata italiana (ARMIR)[9] assumeva la direzione del CSIR che prendeva
quindi il numerativo di “XXXV Corpo
d’Armata”.
L’offensiva
di primavera-estate 1942
La
grande offensiva del 1941 si rivelò un tale insuccesso per i tedeschi che
avrebbe dovuto far pensare ad un ritiro del nostro corpo di spedizione. Ma
questa volta Hitler non solo non
rifiutò il nostro aiuto, ma lo sollecitò.
Ai primi di maggio del 1942 i tedeschi avevano ripreso l’offensiva verso
oriente e l’andamento sembrava promettente. I 2.000 chilometri
di terreno pianeggiante su cui si estendeva il fronte (da LENINGRADO al MARE DI
AZOV) ed il numero di forze alleate indussero Hitler a seguire il principio dell’offensiva. Non essendovi però
forze per alimentare il fronte, questo fu ristretto per acquistare maggior
dinamismo. Tra LENINGRADO, MOSCA ed il Caucaso fu scelto quest’ultimo in quanto
si riteneva che le due capitali sarebbero state ben difese e la loro
occupazione non avrebbe avuto effetti strategici risolutivi, mentre occupando
la regione del basso Don, del basso Volga e del Caucaso - da cui provenivano i
rifornimenti di carburante alle armate sovietiche - si contava di togliere ai
russi la loro arma principale e più temibile: l’impiego massiccio dei carri
armati pesanti. La manovra tendente a tagliare fuori i due terzi dello
schieramento sovietico dalla regione petrolifera sembrava agevolata anche dalle
caratteristiche fisiche dei luoghi. Pertanto l’obiettivo principale
dell’offensiva diventava il basso Volga e Stalingrado[10].
L’insuccesso
strategico della campagna tedesca del 1941 aveva provocato numerosi mutamenti
dei vertici militari, spingendo lo Stato Maggiore a correggere e perfezionare
le tattiche sin lì adottate. Le operazioni, specialmente nel periodo invernale,
avevano rivelato l’importanza strategica degli “ampi spazi”, inducendo ad un
uso più prudente delle unità corazzate e motorizzate. Più che ad un’avanzata
fulminea diretta a distruggere l’elemento uomo, si pensava ad un’avanzata
metodica e sicura, diretta ad occupare talune zone vitali, necessarie
all’economia russa ed alle sue capacità di sostentamento alla guerra.
STALINGRADO costituiva il punto di raccordo fra le regioni centrali e
settentrionali dell’URSS - prevalentemente agricole - e quelle del sud,
industriali e ricche di materie prime, fra cui il petrolio.”[11] Fin dall’inizio Mussolini era scontento di aver dovuto limitare il contingente
italiano sul fronte russo ad un Corpo d’Armata. Ma dopo varie vicissitudini -
ottenuta l’assicurazione da parte dei tedeschi circa un loro concorso - venne
deciso di inviare un nuovo contingente, costituito da sei divisioni ed altre
unità non inquadrate nelle Divisioni.
LO SCHIERAMENTO SUL DON
L'Armata
italiana avrebbe dovuto essere impiegata a Sud del grande spiegamento tedesco
(che comprendeva in quest'area anche armate rumene ed ungheresi), ove gli
alpini erano stati designati per operare nelle impervie zone montane del
Caucaso. Tuttavia, le unità italiane furono destinate su un ampia ansa del Don
- lunga quasi 300 Km .,
poi ridotti a 270 - per prendere il posto delle divisioni motorizzate e
corazzate tedesche. Tra queste, venne lasciata solo una divisione corazzata
tedesca, in considerazione (ben nota) dell’assoluta mancanza di carri armati
nelle divisioni italiane. Tra i tanti motivi di preoccupazione dei tedeschi vi
era il fatto di dover far affidamento sulle truppe rumene, ungheresi ed
italiane per proteggere il fianco dell’avanzata, ma furono rassicurati da Hitler, in quanto certo che queste
sarebbero state impiegate per presidiare la linea del Don e quella del Volga
tra Stalingrado ed il Caucaso, in zone dove i fiumi stessi avrebbero agevolato
il loro compito.
Il
13 agosto, terminato il complesso movimento, il Generale Gariboldi assunse la responsabilità operativa dell’intero settore
assegnato all’8^ Armata - compreso tra PAVLOSK e la foce del Choper nel Don. I
criteri ai quali il “Comando Gruppo Armate B” intese informare la difesa furono
principalmente la proiezione in avanti di tutte le unità e l’esclusione di una
difesa dinamica che enfatizzasse la libertà di manovra. Il concetto operativo
fondamentale del Comando del Gruppo fu quello di sviluppare un irrigidimento
(difesa a tempo indeterminato) sulla riva del fiume, anziché sulle alture
dominanti e di manovrare eventualmente nelle zone di congiuntura, inevitabilmente
poco protette e difese per l’esigua disponibilità di forze.
L’8^
Armata si inserì tra la 2^ Armata ungherese (a sinistra) e la 6^ Armata tedesca
(a destra)[12]. L'avversario sovietico fronteggiava l'8^
Armata con la propria 63^ Armata[13].
Il contrattacco russo fu violento
e colpì duramente lo schieramento italiano dispiegato nell'ansa del Don
coinvolgendo, settore dopo settore, l'intero schieramento. Solo dopo giorni di
aspri combattimenti, grazie soprattutto all'arrivo in extremis della Divisione “Tridentina”, a prezzo di molti caduti
i sovietici venivano respinti. Ma a metà settembre i combattimenti
riprendevano, specie contro le Divisioni “Ravenna” e “Sforzesca”, senza che il
XVII Corpo d'Armata tedesco potesse intervenire come promesso e stabilito.
Cominciarono allora grandi lavori
di fortificazione da parte italiana che durarono fino all'inizio di dicembre in
previsione del temuto attacco sovietico.
Il 19 novembre aveva inizio sul
terreno dell'ansa di SERAFIMOVIC, difesa dalla 3^ Armata romena, la "battaglia del Volga". Profilatasi
la rottura di quel fronte, il Comando del Gruppo di Armate "B", per
evitare l'isolamento delle forze di STALINGRADO, decideva di spostare in quel
settore le Divisioni tedesche inquadrate nell'8^ Armata: la 294^ Div. (in
seconda schiera), all'ala sinistra, dietro il Corpo d'Armata Alpino nella zona
di ROSSOSCH; la 22^ Div. cor. (circa 200 mezzi corazzati), dislocata alle
spalle dei Corpi d'Armata XXXV italiano e XXIX tedesco; e perfino la 62^ Div.,
schierata sul Don tra le Divisioni “Pasubio” e “Sforzesca”, tra SATUBJANSKI e
l'ansa di VESCENSAKAJA. Quest'ultima, sarebbe stata sostituita dalla 3^
Div. “Celere”[14], che dovette interrompere
le operazioni di riordinamento, appena iniziate nella valle del BOGUCIAR. L'8^ Armata, pertanto, veniva ad
essere privata delle Divisioni di seconda schiera, le uniche forze che
conferivano un minimo di profondità al suo schieramento sul vastissimo fronte
di 270 chilometri .
Il Generale Vatutin (Comandante del fronte di Sud-Ovest) e Zukov misero a punto un piano di sfondamento - battezzato “Saturno” - che avrebbe dovuto
concludersi il 10 dicembre 1942.
In linea generale, prevedeva di
intrappolare l’ARMIR dentro un’enorme sacca triangolare che aveva come base il
Don e il Cir e il vertice a MILLEROVO dov’era l’Intendenza dell’8^
Armata italiana[15]. Qualche giorno più
tardi, per l’andamento favorevole della battaglia attorno a STALINGRADO, il
piano “Saturno” era stato modificato
ed aveva preso il nome di “Piccolo
Saturno”.[16]
L’obiettivo che si proponeva era
ancora più ambizioso: utilizzare l’attacco contro l’Armata italiana per mettere
in crisi l’intero schieramento tedesco dal Don al Caucaso.
Per quell’operazione Vatutin aveva a disposizione la
6^Armata, la 1^ e la 3^ Armata della Guardia, il XVII e
il XXIV Corpo corazzato. In base al piano, l’attacco principale doveva avvenire
sul fronte del II Corpo d’Armata italiano, contro il quale si sarebbero
lanciate la 6^ Armata e gran parte della l^ per investire
le Divisioni “Cosseria” e “Ravenna”.
Altre due Div. di fucilieri e due reggimenti di fanteria autonomi avrebbero
operato contro la “Pasubio”. Era uno
schieramento di forze nettamente superiore all’ARMIR, per non parlare dei carri
e delle artiglierie. Nella prima fase dell’operazione gli alpini furono
completamente evitati: tutti gli sforzi sovietici furono rivolti alla
neutralizzazione delle divisioni di fanteria schierate a sud della Div. “Ravenna”.
L’attacco incominciò l’11
dicembre sulla destra di KRASNO OREKOVO. La fanteria russa uscì dai boschi
mezz’ora dopo, quando l’artiglieria aveva smesso di sparare. Attraversò
velocemente il letto ghiacciato del fiume e si riversò contro i capisaldi della
divisione “Ravenna”, II Corpo d’Armata. I russi sommersero due
capisaldi, poi le mitragliatrici li bloccarono a 50 metri dalle proprie
postazioni. Era un’offensiva in piena regola che i russi continuavano ad
alimentare, nonostante il fuoco di sbarramento degli Italiani. Dal fiume si
susseguivano le ondate di fucilieri che indossavano tute bianche sparando
raffiche continue con i parabellum, mentre i cecchini appostati nel punti più
elevati cercavano di individuare e colpire gli ufficiali.
KRASNO OREKOVO e OSETROVKA,
costituivano la base della grande ansa di VERCHNIJ MAMON, la spina nel fianco
dello schieramento del II Corpo d’Armata che né i Tedeschi né gli Italiani
erano riusciti a eliminare durante l’estate.
Nel frattempo l’attacco si era
esteso 80 chilometri
più a sud, nella zona presidiata dal 79°
reggimento della “Pasubio” del XXXV Corpo d’Armata. Anche qui l’azione era
condotta in forze ed investiva OGALEV, con la quale erano saltati ben presto i
collegamenti per effetto dei tiri dei mortai. I russi combattevano senza badare
alle perdite: non c’era dubbio che presto sarebbero entrati in azione anche i
carri armati. Dalle postazioni dell’artiglieria italiana erano stati
individuati da tempo tratti del fiume nei quali l’acqua era perennemente
increspata. Se ne era dedotto che i russi, affondando nel Don dei tronchi
d’albero, nel settore della “Pasubio” erano riusciti a costruire due ponti
sotto il pelo della corrente, sui quali, con l’aiuto del gelo, sarebbero potuti
passare i mezzi corazzati. Ma altri passaggi sul Don erano stati costruiti dai
russi durante l’autunno, a PAVLOSK nel settore del Corpo d’Armata Alpino e poi
nella grande ansa, all’altezza del II Corpo d’Armata.
La fase di logoramento
L’attacco russo proseguì per
cinque giorni, ma si era trattato soltanto della “fase di logoramento” prevista dal piano “Piccolo Saturno”. Durante quei cinque giorni di combattimenti
spesso molto aspri, l’8^ Armata aveva conservato sostanzialmente le
proprie posizioni. Gli assalti incessanti che i battaglioni sovietici avevano
effettuato, erano stati bloccati dal fuoco delle armi automatiche,
dall’artiglieria e, quando le condizioni del tempo freddissimo l’avevano
permesso, anche dell’aviazione.
Gli attacchi sovietici oltre a
logorare le nostre difese, avevano anche consentito di raccogliere informazioni
sui tratti di fronte più sensibili. Quello tenuto dal II Corpo d’Armata era
risultato il più debole, ma non si ritenne necessario correre ai ripari. Lo
scopo principale perseguito dai russi in questa fase, quello cioè di nascondere
con azioni diversive il loro obiettivo principale, era dunque stato raggiunto.
In questa prima fase della
battaglia i russi avevano ottenuto lo scopo che si erano prefissati: portare a
termine un’ampia azione diversiva e logorare le difese italiane per trovarle
meno efficienti al momento dell’offensiva vera e propria.
La fase di rottura
Contro l’ARMIR, dopo la fase di
logoramento sviluppata nel settore del II Corpo d’Armata, seguì la “fase di rottura”[17].
Alle 7 di mercoledì 16 dicembre 1942, oltre 2.500 cannoni dei 5.025 di cui Vatutin disponeva, aprirono il fuoco
contro le posizioni italiane. I collegamenti telefonici della “Cosseria” e
della “Ravenna” si interruppero quasi subito. Dopo un’ora
e mezzo di bombardamenti ci fu l’attacco dei carri armati.
Presto la situazione delle unità
italiane si fece grave: scarseggiava il carburante e la mancanza di antigelo
inchiodava anche quei pochi mezzi che ne avevano una piccolissima scorta. I camion
e i traini delle artiglierie ne avevano una quantità sufficiente a percorrere 50 chilometri . Il
risultato fu che in poche ore i reparti investiti dai russi persero ogni
possibilità di manovra e dovettero abbandonare i cannoni dopo averli fatti
saltare.
Nell’estremo tentativo di
arginare l’avanzata, Gariboldi aveva
ordinato al Generale Nasci,
comandante del Corpo alpino, di mettere a disposizione del II Corpo d’Armata un
battaglione della Julia e il
battaglione sciatori Monte Cervino fatto
accorrere a tappe forzate da Rossosch, dove si trovava a riposo.
Mentre i due battaglioni alpini,
alimentati dai superstiti delle due divisioni tedesche ancora in grado di
combattere, sostenevano durissimi scontri nelle retrovie sconvolte del II Corpo
d’Armata, altri ordini di Gariboldi
giunsero a modificare l’allineamento del Corpo alpino e, per forza di cose, ad
indebolirlo. La mancanza di riserve a disposizione dell’ARMIR stava influendo
negativamente sulle divisioni di Nasci
diluendole lungo un fronte quasi raddoppiato e costringendole a spostamenti
improvvisi e logoranti.
Tutta la “Julia”, al comando del Generale Ricagno, fu tolta dallo schieramento e
messa a disposizione del Comando generale «per impiego in altro settore» e
infatti fu poi assegnata al 24° Corpo corazzato tedesco e disposta a copertura
su quel tratto del Don che era rimasto sguarnito dopo il cedimento della
“Cosseria”. Mentre la “Julia” si avviava così verso un tragico
destino, Nasci provvedeva a
distribuire sulle posizioni lasciate scoperte quattro battaglioni della
“Cuneense” e l’unica «riserva» a
disposizione: la divisione “Vicenza”.
Questa divisione si trovò quindi
sbalzata nelle immediate vicinanze del fronte con responsabilità tattiche
schiaccianti. I diecimila uomini del vecchio Generale Pascolini, disseminati fino a quel momento nelle retrovie dove
sorvegliavano i magazzini e vigilavano i prigionieri, furono faticosamente
riuniti, riassestati alla meglio e spinti in avanti con armi ed equipaggiamenti
assolutamente inadatti al compito loro assegnato.
La ritirata delle Divisioni di Fanteria
Per comprendere la situazione
nella quale si trovarono a dibattersi i resti delle Divisioni Cosseria, Ravenna, Torino, Pasubio, Celere e Sforzesca usciti
vivi dalla battaglia del Don, bisogna immaginare che i russi sfondarono il
fronte su una linea di oltre duecento chilometri e in questa voragine irruppero
in tre giorni per una profondità di oltre centottanta chilometri, dilagando in
ogni direzione. Le nostre divisioni subivano giorno e notte l’iniziativa del
nemico e dal tentativo di sfuggire alla morsa nasceva di volta in volta
l’improvvisata direzione di marcia delle colonne.[18]
Furono quindi queste circostanze
a formare i due principali gruppi in movimento, che furono poi, ufficialmente
definiti “Blocco Nord”[19] e “Blocco Sud”[20].
In 13 giorni le armate russe
avevano obbligato l’ala meridionale dell’ARMIR a una ritirata disastrosa,
raggiungendo KANTEMIROVKA e CERTKOVO; avevano sbaragliato la 3^ Armata rumena -
obbligando anche i tedeschi ad abbandonare il fiume Cir ‑ e bloccato i
tentativi tedeschi di raggiungere
gli assediati di STALINGRADO.
I carristi del XVII Corpo
continuavano ad avanzare ad un ritmo “eccezionalmente rapido”: in 5 giorni
avevano percorso 240
chilometri , ed erano in vista dell’aeroporto di TAZINSKAJA,
da dove partivano i rifornimenti per la 6^ Armata tedesca chiusa
dentro la morsa di STALINGRADO.
L’OPERAZIONE
“OSTROGOZSK-ROSSOSCH”
Il 20 dicembre Stalin aveva ordinato al Generale Golikov
(Comandante del settore che fronteggiava la 2^ Armata ungherese e il
Corpo d’Armata Alpino) di predisporre un’altra offensiva, alla quale era stato
dato il nome di Operazione “Ostrogozsk‑Rossosch”.[21]
L’obiettivo era quello di
circondare e distruggere le unità tedesche, ungheresi e italiane ancora
attestate sul medio Don e liberare i tronchi ferroviari LISKI‑KANTEMIROVKA e
LISKI‑VALUJKI necessari per l’avanzamento dell’esercito sovietico verso KARCOV
e il DONEC.
Erano previsti due attacchi
principali: uno a nord, contro la 2a Armata ungherese, ed uno a sud,
muovendo dalla zona di KANTEMIROVKA, per raggiungere dopo una grande manovra a
tenaglia la città di ALEKSCJEVKA. Erano previsti anche quattro attacchi
sussidiari, due interni e due esterni a quelli principali. Quelli esterni
dovevano puntare su VALUIKI e POKROWSKOJE a sud di ALEKSEJEVKA. Quelli interni
avevano come obiettivo a nord KAMENKA e a sud ROSSOSCH, dove il Generale Nasci
aveva dispiegato il Comando del Corpo d’Armata Alpino.
Il XXIV Corpo corazzato di Vatutin
aveva ridotto l’aeroporto di TAZINSKAJA in un immenso braciere, condannando
così alla fame l’Armata di Von Paulus,
già allo stremo dentro Stalingrado. I russi erano penetrati per 200 chilometri nello
schieramento degli italiani e dei tedeschi ed avevano liberato 1.246 città e
villaggi, annientate 11 divisioni e 3 brigate, catturati 60.000 prigionieri e
un bottino di 368 aerei, 178 carri armati e 1.927 cannoni. Per il momento i
compiti delle armate di Sud‑Ovest erano terminati. Adesso l’iniziativa toccava
a Golikov.
Von Weichs stava abboccando in pieno all’amo che Golikov gli andava porgendo con astuzia
e pazienza. La ricognizione aerea e i servizi di informazione lo avevano
convinto che i russi si preparavano ad attaccare le posizioni tenute sul Don
dalla 2^ Armata ungherese schierata alla sinistra del Corpo d’Armata Alpino. E
questo lo aveva indotto a mettere a disposizione degli ungheresi il Gruppo Cramer composto da due divisioni di
fanteria tedesche e una divisione corazzata. Il comandante del Gruppo dì Armate
B, inoltre, aveva ordinato che la maggior parte delle armi controcarro di cui
disponeva il XXIV corpo d’Armata fossero assegnati al Corpo d’Armata Alpino.
Era il 10 gennaio e Gariboldi –
che non condivideva affatto le valutazioni del Comandante del Gruppo di Armate
B - era dell’opinione che oltre a quella prevista contro gli ungheresi, i russi
stavano per scatenare un’offensiva non contro il settore degli alpini, ma
contro l’ala meridionale del XXIV Corpo, il cui indebolimento doveva essere
evitato a tutti i costi.
Per Von Weichs invece lo schieramento delle fanterie italiane e
tedesche bilanciava in quel settore quello dei russi, i quali a suo avviso
avevano successo soltanto quando attaccavano con un largo impiego di unità
corazzate.
Von Weichs non immaginava che Golikov
a sua insaputa aveva concentrato nella zona del XXIV Corpo d’Armata tutte le
grandi unità della 3^ Armata Corazzata e schierato, lungo i 65 chilometri del
fronte tenuto dal Corpo d’Armata Alpino, soltanto una divisione di fucilieri ad
organici ridotti.
Fu questa la mossa vincente
dell’offensiva che sarebbe scattata il 13 gennaio, con tre giorni di anticipo
rispetto al programma predisposto a Natale.
Il piano russo, aveva come
obiettivo l’accerchiamento e l’annientamento delle forze tedesche, ungheresi e
italiane schierate nell’area tra OSTROGOZSK e ROSSOSCH. Nello stesso tempo
prevedeva di raggiungere le cittadine di REPJEVKA, ALEKSEJEVKA, VALUJKI e
URAZOVO per controllare la linea ferroviaria SVOBODA‑KANTEMIROVKA. Su un fronte
di 260 chilometri ,
Golikov aveva ammassato tre aliquote
di forze: a nord, al centro e a sud. In tutto, 11 divisioni e 3 brigate
fucilieri, 3 corpi corazzati, un reggimento corazzato e un corpo di cavalleria.
Come aveva ribadito ai suoi ufficiali durante un rapporto nel suo Quartier
Generale, si trattava di una classica operazione a tenaglia, la cui
caratteristica era di effettuare contemporaneamente l’avvolgimento e
l’eliminazione delle forze avversarie, in modo da annientarle prima ancora di
chiuderle dentro la sacca. Golikov
aveva tenuto ben presente quanto era accaduto in dicembre sul Don durante
l’offensiva di Vatutin, quando i tedeschi si erano rifiutati di adottare una
“difesa elastica”: nell’elaborare il suo piano, aveva puntato sul fatto che von
Weichs avrebbe ripetuto lo stesso errore, reso inevitabile dagli ordini di
Hitler (come in effetti accadde). In particolare, era convinto che il
Comandante del Gruppo di Armate B sarebbe caduto nel tranello che gli stava
tendendo. Approfittando delle ore notturne e della nebbia, egli aveva occultato
i movimenti facendo credere che l’attacco russo sarebbe partito a VORONEZ.
Venne posta particolare cura
anche in alcune misure preparatorie per rendere possibile l’avanzata dietro le
linee nemiche superando sia la scarsa mobilità delle truppe russe sia le
particolari condizioni invernali[23].
Nel rapporto finale che venne
inviato a Stalin alla fine della
pianificazione da Zukov e Vassilevski il 7 gennaio, si indicavano
di massima anche le direttive date alla 3^ armata di Rybalko, il cui asse principale di penetrazione veniva spostato ad
ovest della linea ferroviaria KANTEMIROWKA‑ROSSOSCH, in maniera poi da seguirla
senza attraversarla ed avere un riferimento per l’accerchiamento del nemico.
Compito fiancheggiante del VII corpo di cavalleria e delle brigate sciatori era
la conquista di WALUIKI e URASOWO per assicurare il controllo di questi
importanti nodi ferroviari.
Completati i previsti
congiungimenti, la 3^ armata corazzata doveva costituire un fronte verso ovest
e completare l’accerchiamento delle truppe nemiche nella sacca.
Al centro era schierato il Corpo
d’Armata alpino con le tre divisioni Tridentina,
Vicenza e Cuneense (che, malgrado
la scarsità di forze, avevano costruito nei mesi autunnali una linea di
resistenza abbastanza robusta) ed un reggimento di artiglieria a cavallo.
A destra del Gruppo d’Armate B,
le unità del XXIV Panzer (Pz.) Korps erano ancora schierate su posizioni
speditive, senza aver avuto la possibilità di costruire una linea con lavori
difensivi, sia per i continui attacchi dei russi, sia perché le condizioni
climatiche rendevano difficile questa attività.
La pratica della maskirowka (inganno del nemico) sul
fronte del Gruppo d’Armate B fu un successo per il Fronte di Woronesh, che applicò i procedimenti già
dall’offensiva di Stalingrado in poi. L’operato della ricognizione aerea
tedesca non arrivò a scoprire alcuna particolare concentrazione di truppe sul
settore del XXIV Pz.Korps, perché di giorno i mezzi rimanevano occultati e le
truppe dovevano stare al coperto, sotto la minaccia della pena di morte.
Al comando del Gruppo d’Armate B
erano convinti che i russi avrebbero attaccato le linee tra la 2^ armata
ungherese e l’8^ italiana, anche in virtù dell’ormai accettato assioma che i
russi avrebbero colpito, con ogni probabilità, solo gli alleati[24].
Gariboldi aveva fatto una
valutazione diversa e l’8 gennaio aveva scritto al gruppo d’armate per far
presente che a suo parere i russi avrebbero avuto maggiori vantaggi attaccando
il XXIV Pz. Korps in corrispondenza della brigata Fegelein.
Scatta
l’offensiva: lo sfondamento del fronte ungherese e del XXIV Pz. Korps
L’inizio agli attacchi di ricognizione
in forze, dopo un’ora di preparazione di artiglieria, fu dato dal Generale
Moskalenko alle 10.00 del 12 gennaio 1943 in corrispondenza della testa di ponte di
URYW. La fine del bombardamento veniva contraddistinta da una salva di
lanciarazzi per far comprendere alla massa della truppa quale fosse il momento
in cui muovere all’assalto. I battaglioni di punta di quattro divisioni di
fanteria, appoggiati da carri, ebbero ragione abbastanza presto delle posizioni
ungheresi, quanto meno sulla loro ala destra.
L’attacco russo contro le linee
del XXIV Pz.Korps iniziò il mattino del 14 gennaio sul fronte del gruppo Fegelein e della 27^ Pz.Div., in corrispondenza del Fúhrer Begleit
Bataillon, che da questa dipendeva. Col favore della nebbia, carri e
fanteria russi si infiltrarono nella linea
tedesca e alle 14.30
l’avevano penetrata con circa 20‑30 carri che proseguivano verso nord tenendosi
ad ovest della linea ferroviaria. Non c’erano
riserve per contrattaccarli.
Alla 19^ Pz.Div fu ordinato di attaccare sul fianco il nemico che avanzava, ma
la divisione era già troppo premuta dai russi. La sera del 14 questa proposta
fu inoltrata al gruppo d’armate, con quella di ritirare il XXIV Pz.Korps verso
ROSSOSCH. Intanto, parte della 387^ ID era stata
accerchiata nel corso della giornata, assieme al Fúhrer Begleit Bataillon ed alla brigata Fegelein.
Solo in serata (alle ore 20.00
ca.), il Gen. Nasci viene vagamente
informato dal Gen. Schlemmer
(Ufficiale di collegamento tedesco presso il Corpo d’Armata alpino) della penetrazione.
Il Comando dell’8^ Armata italiana, sottovalutando palesemente il nemico, emana
un ordine che prevede per la 19^ Pz.Div e la 320^ ID di attaccare. Ma la
gravità dello sfondamento non è nota nemmeno al Comando del XXIV Pz.Korps.
Quella stessa sera, carri russi e fanteria motorizzata piombano di sorpresa sul
posto di comando tattico del XXIV
Pz.Korps a SHILIN: nello
schieramento tedesco si era aperta una falla che, ormai, era impossibile
tamponare. Le truppe corazzate russe si trovavano già ad una cinquantina di
chilometri sulle retrovie del Corpo d’Armata Alpino, il quale rischiava di
essere aggirato anche sulla sinistra per il crollo immediato degli Ungheresi.
L’attacco
su Rossosch
Gli avvenimenti incominciarono ad
assumere un andamento convulso. Alle 5 del mattino di venerdì 15 gennaio, una
formazione di carri armati sovietici piombò su ROSSOSCH sede del Quartier
Generale del Corpo d’Armata Alpino. Nasci inviò un messaggio urgente a
Gariboldi per segnalargli quell’avvenimento incredibile e chiedere l’intervento
degli Stukas tedeschi, i quali un’ora
dopo comparvero nel cielo della città bombardando i carri sovietici. ROSSOSCH
era rimasta in mani italiane, ma l’incursione si protrasse per una decina di
ore fino all’imbrunire. Dei 20 T-34 che avevano preso parte all’operazione, 12
erano stati distrutti mentre altri 8 si erano allontanati verso nord.
Nasci intuendo che a nord e a sud
del Corpo d’Armata Alpino il fronte stava crollando, aveva fatto avvertire i
comandanti della Tridentina, della Cuneense
e della Julia di tenersi pronti a
giungere “al più presto e con la maggiore efficienza possibile l’allineamento
VALUJKI‑ROVENKI, per schierarvisi a difesa, fronte a nord‑est, saldando le
proprie forze con le grandi unità tedesche in corso di schieramento in tale
zona”. Quell’ordine era stato recapitato integralmente soltanto al Generale
Battisti, comandante della Cuneense, mentre
i comandanti della Tridentina (Riverberi),
della Vicenza (Pascolini), e della Julia (Ricagno) ne avevano avuto una sintesi per telefono, in quanto gli ufficiali
incaricati di consegnarlo non erano riusciti a passare tra le maglie dei carri
russi. Quanto alle grandi unità tedesche cui Nasci aveva accennato e sulle
quali faceva affidamento, esistevano soltanto sulla carta. Nasci, comunque,
aveva deciso di trasferire il suo comando a PODGORNOJE per avere più sotto
controllo le divisioni ancora schierate sul Don con l’ordine di non arretrare
di un palmo. Il giorno dopo, all’alba, un’intera brigata di carri russi
suddivisa in tre tronconi ricomparve a ROSSOSCH. Un troncone attaccò i
capisaldi del “Cervino”, uno si diresse verso il centro della città, mentre il
terzo verso il campo d’aviazione. Due compagnie di alpini appena giunte
dall’Italia (la 604^ e 601^), furono sterminate dai T-34, fino all’ultimo uomo.
La situazione si aggravava di ora in ora e, dopo soli due giorni dall’inizio
dell’offensiva, i russi stavano già sviluppando con successo la manovra
avvolgente che li avrebbe portati ad ALEKSEJEVKA, circa 75 chilometri in
linea d’aria dal corso del Don.
Alle 20.00 del 15 gennaio il XXIV
Pz.Korps inizia il movimento autorizzato di ripiegamento verso KALITWA.
Fino a quel momento, del Corpo
d’Armata Alpino soltanto la
Divisione Julia era
stata impegnata duramente, perché inviata a tamponare la falla che si era
aperta sul fronte del II Corpo d’Armata. Le altre, integrate dall’evanescente Vicenza, erano rimaste sul Don, lungo la
linea dell’acqua, limitando la loro attività alle azioni di pattuglia oltre il
fiume verso le postazioni russe. Ma ora la situazione era precipitata. La
guerra si era improvvisamente spostata alle spalle degli alpini, il cui
schieramento sul Don stava diventando drammaticamente assurdo. Gli ordini di
von Weichs erano inequivocabili, tanto che Gariboldi, ancora alle 16,30 del 16
gennaio, aveva dovuto inviare a Nasci che premeva per un arretramento delle sue
divisioni, un laconico fonogramma: “Lasciare la linea del Don senza un preciso
ordine è assolutamente proibito. Vi faccio responsabile personalmente dell’esecuzione”.
Per colmo di ironia, a causa della confusione che oramai regnava nelle
retrovie, quest’ordine sarebbe stato recapitato a Nasci soltanto alle 9 del
giorno seguente.
Questo divieto incredibile cadde
24 ore dopo. Un fonogramma di Gariboldi recapitato a Nasci che si era
trasferito a PODGORNOJE diceva: “In conseguenza ripiegamento grandi unità
ungheresi anche Corpo d’Armata Alpino deve iniziare stasera all’imbrunire noto
ripiegamento”.
La
ritirata degli Alpini
Le divisioni alpine che avevano
lasciato sulle rive del Don alcuni reparti “civetta” per simulare che nulla
stava accadendo, incominciarono a ripiegare[25]: la Tridentina su
PODGORNOJE, la Cuneense e la Julia
che risaliva da NOVO KALITVA, su POPOVKA, mentre la Vicenza convogliava verso PODGORNOJE e POPOVKA
i due tronconi nei quali si era divisa. L’ordine era di dare la precedenza alle
armi, alle munizioni, ai carburanti ed ai viveri. Bisognava distruggere tutto
quello che non poteva essere caricato sulle camionette, sui muli, sulle slitte.
La tenaglia delle divisioni meccanizzate russe però, assieme a reparti
corazzati, oramai stritolava i fianchi degli alpini in ritirata, i cui reparti
si stavano infilando dentro strade strette e gelate in una enorme confusione.
Il comando del Corpo
d’Armata Alpino nel frattempo si era trasferito a OPYT, e Nasci, via radio,
aveva assegnato alla Julia e alla Cuneense il compito di puntare
su VALUJKI lungo l’itinerario KULESOVA‑SCELJAKINO. La Vicenza invece doveva risalire verso
SAMOJLENKOV per aiutare la Tridentina , prima che
i russi riuscissero ad ispessire il catenaccio che avevano chiuso attorno alle
divisioni italiane.
La marcia delle quattro divisioni
italiane e di tutto il corpo tedesco sulle poche strade disponibili controllate
dai russi costringe alla decisione di abbandonare i veicoli che non siano
fuoristrada e di sfruttare le doti di mobilità alpine per portarsi verso ovest,
cercando di salvare gli elementi essenziali per proseguire, cioè i cannoni
anticarro.
Tutti i camion e i mezzi di
collegamento del Corpo d’Armata erano stati distrutti, e il comandante degli
alpini poteva oramai contare soltanto su una stazione radio tedesca montata su
un autocarro semicingolato per rimanere in contatto con Gariboldi. A questo
punto gli era chiaro che i russi stavano manovrando sui fianchi per
accerchiarlo, accingendosi a sbarrargli la strada verso ovest. Per questo, il
20 gennaio aveva formato un forte scaglione d’avanguardia comandato da Reverberi[26].
Gli ordini erano di continuare la
marcia senza soste sia pure a prezzo di sforzi sovrumani, prevalentemente di
notte per sfuggire agli aerei e ai carri, evitare strade e abitati, separare i
reparti che erano in grado di combattere dalle migliaia di fuggiaschi che
venivano avanti in disordine intralciando i movimenti della divisione.
Il 21 gennaio Nasci aveva
cambiato l’itinerario della ritirata. Gariboldi gli aveva comunicato con un
radiogramma che VALUJKI era stata occupata dai russi. Pertanto era NIKITOVKA il
nuovo punto di sbocco del Corpo d’Armata Alpino. Nasci per tutta la notte aveva
cercato di mettersi in contatto con la
Julia e
la Cuneense per
informarle del cambiamento di programma, ma queste erano già state distrutte[27].
Al fine di individuare alcuni
insegnamenti dall’evento storico trattato, si è ritenuto di dover fare
riferimento a cinque principi classici dell’arte della guerra: “offensiva
(iniziativa)”, “manovra”, massa, “sicurezza” e “sorpresa”.
In merito all’iniziativa, l'8^ Armata (ormai in
difensiva da mesi) aveva deciso di riprendere le operazioni per la successiva
primavera. Ma tale decisione determinò una sorta di disarmo psicologico fra i
Comandi e le truppe[28],
facendo venir meno i vantaggi di tale principio (l’iniziativa) a causa di un adattamento ai rigidi criteri di difesa
statica fissati dal Comando del Gruppo d’Armate. Le intenzioni degli alti
comandi erano infatti finalizzate a bloccare i sovietici nelle fasi di
attraversamento del Don: in altre parole, gli attacchi nemici dovevano essere
stroncati davanti alle linee difensive e solo alcune eccezioni erano tollerate
o autorizzate dal Comando Supremo”[29]. Il venir meno dell’iniziativa precludeva ogni
forma di ripiegamento e i reparti dovevano solo preoccuparsi di resistere ad
oltranza sul posto, in attesa del “contrattacco liberatore” che, di fatto, non
sarebbe mai arrivato. Ed è ciò che venne tenuto ben presente dall'avversario,
allorché concepì le varie manovre a tenaglia che provocarono il tracollo delle
nostre truppe.
Per quanto attiene alla manovra, in fase difensiva doveva essere realizzata da contrattacchi
“istintivi ed immediati”[30],
facendo uso delle riserve (unità dotate di elevata mobilità). Nel caso in
esame, non solo le riserve non erano mobili, ma erano del tutto inesistenti. A
livello C.do Div. e C.A, non vi erano riserve precostituite; a livello Armata,
la sola Grande Unità inizialmente non schierata sul Don - la Div. “Vicenza” - era
indisponibile perché impegnata nella difesa delle retrovie e non aveva
artiglierie; la “Celere” - unica Grande Unità motorizzata - era stata impiegata
staticamente sul Don; a livello Gruppo Armate nessuna riserva era
tempestivamente disponibile e la 385^ Divisione tedesca arriverà in zona a
battaglia conclusa; la 21^ Div. tedesca, la sola disponibile a partire dal 15
dicembre, disponeva invece di soli 50 carri. In sintesi, mancando a tutti i
livelli la riserva, è mancata la possibilità di mantenere una libertà di
manovra, inficiando così sull’efficacia e l’operatività di tutte le unità.
Circa l’impiego della massa, tenuto conto delle poche forze a
disposizione in relazione agli enormi settori da presidiare, l'8^ Armata non
poteva che schierarsi a cordone sul Don, con il risultato che “l'unica massa che si poteva ottenere era una
non massa”.
II dispositivo era estremamente
rado, mentre la dottrina dell’epoca prevedeva che una Divisione binaria poteva
presidiare un settore di 13,5
km di ampiezza (circa metà settore assegnato alle
Divisioni sul Don). Tutte le poche forze disponibili erano quindi proiettate in
avanti, sulle posizioni difensive (e ciò spiega anche l’assenza delle riserve
anche ai livelli più bassi). Questo fattore offrì al nemico l’opportunità di
esercitare con estrema facilità la “sua massa”, trovando ovunque facilità di
sfondamento.
Pur pensando di voler esercitare
“massa” con il fuoco, ciò non fu possibile in quanto le artiglierie disponibili
(insufficienti e obsolete) non potevano realizzare concentrazioni di fuoco
massicce e tempestive e le forze aeree (per lo più tedesche) erano concentrate
nella fornace di Stalingrado.
La carenza di forze non offrì
altresì obiettive garanzie alla sicurezza
delle forze. I rapporti di forza erano decisamente a favore del nemico (in
termini di battaglioni, il rapporto era di 5:1; in termini di carri armati
addirittura di 10:1)
In difesa, specie in presenza di enormi
spazi, la dottrina suggeriva di predisporre un dispositivo profondo - o
comunque, in previsione di reiterare l'azione in profondità - utilizzando le
posizioni più convenienti. In campo logistico, inoltre, il dispositivo doveva
essere arretrato, scaglionato in profondità e pronto, se del caso, a ripiegare
ulteriormente per non essere coinvolto dalle puntate avversarie. Sul Don,
invece, come accennato venne seguito il criterio opposto di proiettare tutto in
avanti (anche gli assetti logistici), senza minimamente pensare a predisporre
una seconda posizione difensiva (e di tempo, ce ne era stato). Ciò fu
determinato da precise disposizioni di Hitler, secondo cui le prime linee
dovevano disporre in loco di scorte, viveri, munizioni e materiali pari a due mesi
dì autosufficienza, ancorando le truppe sul Don (che, ghiacciato, anziché
rappresentare un ostacolo, facilitava i movimenti nemici).
Infine, ancorata a difesa a tempo
indeterminato sul Don, appiedata, priva di riserve, con limitate artiglierie e
senza “ombrello aereo”, l'8^ Armata non poteva neanche realizzare alcuna forma
di sorpresa. In questo campo
qualcosa avrebbe potuto essere fatto per disorientare l'avversario: ad esempio,
anziché insistere con una resistenza ad
oltranza, si sarebbe potuto far cadere nel “vuoto” gli attacchi nemici,
attuando un repentino arretramento delle linee difensive. In alternativa, si
sarebbe potuto accennare, o quanto meno simulare, un attacco nei punti deboli
(settore della 270^ Divisione sovietica che fronteggiava pressoché da sola il
Corpo d'Armata alpino). In altre parole, si sarebbe potuto sviluppare un'azione
lungo la direttrice Pawlowsk - Werch Mamon per accerchiare tutte le forze
sovietiche (pari ad un'Armata) che si erano addensate in corrispondenza del
nostro II Corpo d'Armata. La contromanovra tedesca, anche solo abbozzata,
avrebbe presentato molti lati favorevoli: il più importante sarebbe stato
quello, come già detto, di partire dal vuoto cioè dagli 80 chilometri
presidiati dalla sola Divisione che fronteggiava gli alpini. Inoltre, se il Don
- ormai gelato - non era più un ostacolo per i russi, non lo sarebbe stato
neanche per i tedeschi (certo, l'azione non poteva essere affidata a truppe
alpine, appiedate e quindi non idonee ad azioni rapide in pianura, né all'Armata
priva com'era di riserve, ma a forze motocorazzate tedesche quali ad esempio le
Divisioni inutilmente sottratte al Gruppo Armate e mandate a sacrificarsi a
Stalingrado).
Un’ulteriore “lesson learned”: l'unitarietà di comando, in
teoria è stato l'unico principio ad essere stato rispettato, anche se in modo
esasperato ed accentrato nella figura di Hitler. In tal senso, il vertice della
piramide ebbe una visione panoramica della situazione ma perse la sensazione
delle concrete possibilità dei reparti sul campo. Soprattutto quando si è in
carenza di forze (come lo erano i tedeschi) è essenziale che la situazione sia
valutata in loco, perché solo in loco possono essere adottati i migliori e più
convenienti correttivi (compreso l’impiego delle riserve), evitando peraltro
gli inconvenienti dei ritardi nelle comunicazioni e nell’acquisizione delle
informazioni.
Di certo, le condizioni del
morale non hanno aiutato il corso degli eventi. Le motivazioni erano
molteplici: l'inverno e il freddo, la guerra non era sentita, le famiglie e la Patria erano lontani
migliaia di chilometri.
In sintesi, a nostro avviso, le
motivazioni principali che hanno portato al fallimento delle operazioni in
Russia sono da ricercarsi nel non aver rispettato alcuni principi dell’arte della
guerra, principi che potrebbero essere considerati validi ancor oggi.
Inoltre, dall’esame di queste
vicende, possiamo e dobbiamo evidenziare che, senza dubbio, tutte le nostre
Grandi Unità e i nostri soldati hanno scritto pagine significative della nostra
storia, rappresentando tuttora un grande esempio per tutti gli italiani.
[1] Centomila
gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi
(ha superato oggi le 2.000.000 di copie vendute); Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern (più di 700.000
copie); diversi volumi pubblicati dall’Ufficio Storico dello SME (l’8^ Armata; Le operazioni del CSIR e dell’ARMIR; I servizi logistici; Le operazioni
delle unità italiane; L’Italia nella
relazione ufficiale sovietica).
[2] V. Galitzki, Il tragico Don. L’odissea dei prigionieri italiani nei
documenti russi, 1993; A. Morozov, Dalla
lontana infanzia di guerra, 1994; N. Terescenko, L’uomo che “torturò” i prigionieri di guerra italiani, 1994.
[3] La steppa, dal punto di vista della
vegetazione, è una delle tre zone principali russe assieme alla tundra
(a nord del Circolo polare artico) ed alla taiga (a sud della tundra ma sopra
la steppa). Nella steppa il suolo è costituito prevalentemente dalla fertile
terra nera (cernozem), che deve il
suo colore e la sua fertilità all’humus. La terra nera copre
approssimativamente 250 milioni di acri, e rappresenta il fulcro della
agricoltura russa.
[4] Il patto è passato alla storia diplomatica con
il nome di «patto Molotov‑Ribbentrop»,
dal nome dei due Ministri degli esteri firmatari.
[5] Vds. Allegato “D” – Obiettivi iniziali delle
Forze tedesche.
[6] Aldo VALORI, La campagna di Russia
[7] Il Corpo di spedizione comprendeva due
Divisioni “autotrasportabili” (Pasubio e
Torino), una Divisione Celere (la
3^ Principe Amedeo d’Aosta) oltre a reparti del genio, un
battaglione chimico e supporto aereo.
[8] Vds. Allegato “A” – Quadro di battaglia del
CSIR alla data del 1° agosto 1941.
[9] Vds. Allegato “B” – Quadro di battaglia
dell’8^ Armata.
[10] Vds. Allegato “E” –
Piani di Hitler per la primavera del 1942.
[11] Aldo VALORI, La campagna di Russia , pag. 414.
[12] L’8^Armata
si schierò da sinistra a destra con il II
Corpo d’Armata (294^ Div. f. tedesca su 65 km dal Kolkoz Burgilovka
al fiume Teiornaja Kalitva; Cosseria su 34 km da Teiornaja Kalitva al
margine occidentale dell’ansa di Verhnij Mamon; Ravenna su 30 km dal margine occidentale
dell’ansa di Verhnij Mamon alla foce del Boguciar), XXIX Corpo d’Armata tedesco (Torino su 35 km dalla foce del Boguciar
al paese di Suchoj Donez; 62^ Div. f. tedesca su 55 km da Suchoj Donez al
paese di Merkulov); XXXV Corpo
d’Armata C.S.I.R. (Pasubio su 30 km da Merkulov al paese di
Rubescinski, Sforzesca su 33
km da Rubenscinski alla foce del Choper); 3^ Divisione Celere in riserva
(con efficienza ridotta dai combattimenti sostenuti nell’ansa di Serafimovic e
nel bacino del Mius e, in particolare, con le unità di fanteria ridotte di
un terzo e quelle di artiglieria della
metà ed in più con 2 battaglioni bersaglieri e 2 gruppi di artiglieria rimasti
ad operare con la 6^ Armata nel settore della 79^ Div. f. tedesca).
[13] La 63^ Armata
Sovietica era schierata da nord a sud con le seguenti unità: 127^
Div. fucilieri (di fronte alla 294^ tedesca, da Pavlovsk alla
Teiornaja); 1^ divisione fucilieri (di fronte alle Div. italiane “Cosseria”,
“Ravenna”, “Torino” e parte della 62^ tedesca, dalla Teiornaja Kalitva a
Krasnojarski); 153^ divisione fucilieri (di fronte alla 62^ tedesca ed alla
“Pasubio”, da Krasnojarski a Vescenskaja); 197^ divisione fucilieri (di fronte
alla “Pasubio” ed alla “Sforzesca”, da Vescenskaja alla foce del Choper). (Vds.
Allegato “C” – Composizione delle truppe sovietiche).
[14] La Div. “Celere” era allora
costituita da soli due reggimenti bersaglieri, non a completo organico, e
dovette rilevare un fronte che precedentemente era occupato da tre reggimenti
di fanteria della 62^ Div., venendosi a trovare in condizioni
sensibilmente più difficili della Grande Unità tedesca appena sostituita.
[15] Vds. Allegato “F” – Situazione dell’8^ Armata
al 10 dicembre 1942.
[16] Vds. Allegato “G” – Schema dei Piani
“Saturno” e “Piccolo Saturno”.
[18] Vds. Allegato “K” – Ripiegamento del centro e
della destra e ricostruzione di una linea difensiva.
[19] Un “Blocco nord”: formato dalle divisioni 298^ germanica e Ravenna,
parti della Cosseria, della Pasubio e della Torino, oltre
che numerosi elementi delle unità suppletive dei Corpi d’Armata II e XXXV-CSIR,
del Comando d’Armata e dell’Intendenza. Questo blocco dirigeva verso
VOROSCILOVGRAD ove confluiva entro la metà del gennaio 1943. La sera del 25
dicembre avrebbe raggiunto CERTKOVO, assediata dai russi: erano 7.000 uomini,
dei quali 3.800 feriti e congelati. Vi sarebbero rimasti, assieme ad
altrettanti tedeschi arroccati come loro nella città accerchiata, fino alla
sera del 15 gennaio, quando riuscirono ad aprirsi la via della salvezza e a
raggiungere BELOVODSK lasciando però sul posto la maggior parte dei feriti che
i due autocarri disponibili e le poche slitte a disposizione non permettevano di
trasportare
[20] Un “Blocco sud”: formato dalle aliquote
della Ravenna e della Torino, parte della Pasubio e della 3^
Celere con tutto il 6° reggimento bersaglieri, la Divisione Sforzesca
e truppe e servizi di Corpo d’Armata e di Intendenza. Questo blocco ripiegava
alle dipendenze del XXIX Corpo d’Armata tedesco, sosteneva aspre azioni
difensive in corrispondenza di capisaldi isolati e riusciva a rientrare nelle
linee amiche a SKASSIRSKAJA il 28 dicembre. Dopo un calvario inenarrabile di
sofferenze, il 5 gennaio si sarebbe raccolto a RYKOVO.
[21] Vds. Allegato “L” – Schema dell’Operazione
Ostrogozsk-Rossosch.
[22] I russi erano in
vantaggio per numero di carri ed artiglierie, mentre il rapporto di forze aeree
non fu mai a loro favore. Da precisare che la terminologia militare riferita
alle unità dell’Armata Rossa potrebbe trarre in inganno (gli organici delle
unità russe non corrispondono a quelle italiane, ungheresi o tedesche): il Fronte russo corrisponde al gruppo
d’armate, ma può raggruppare molte armate ed unità autonome, o essere a livello
di un’Armata dell’Asse; un’Armata russa
è come un corpo d’armata dell’Asse (formata da poche divisioni, con effettivi
inferiori a quelle dell’Asse in genere e dell’esercito tedesco in particolare);
una Div. di fanteria russa (gennaio
1943) contava 9.619 uomini, su 3 reggimenti, con 24 cannoni da 76mm e 12 da 122
(una notevole parte del volume di fuoco era costituito da mortai, 56 da 50 mm , 83 da 82 mm e 21 da 120 mm .) Il numero di armi
automatiche era elevato: 2.398 mitra e 522 fucili mitragliatori; un Corpo corazzato disponeva di 11.900
uomini e 240 tra carri e semoventi d’artiglieria. Ogni Brigata corazzata delle tre che componevano un corpo corazzato
aveva 65 carri (in genere, per due terzi T-34 e KV, per un terzo carri leggeri).
[23] A tutti vennero
distribuiti i valenki, stivali di
feltro a pezzo unico particolarmente indicati per camminare sulla neve a
temperature molto basse. Inoltre ad ogni divisione vennero assegnate dalle 400
alle 500 slitte per i trasporti. I veicoli vennero dotati con due ordini di
catene (mentre le macchine italiane si fermavano perché spesso senza catene).
Infine le truppe ebbero in dotazione delle pale da neve in legno per poter
liberare le strade durante le avanzate dai mucchi di neve che si accumulavano.
[24] La valutazione della situazione del
nemico il 7 gennaio (…) diede questo risultato: in profondità davanti all’ala
sinistra dell’8^ Armata italiana, il quadro del nemico ancora non è chiaro,
mentre davanti alla 2^ ungherese esistono indizi sui preparativi di attacco
(senza però elementi precisi su spazi e tempi di inizio dell’attacco). Da
questi elementi, si suppone un attacco per il controllo della linea che da
SWOBODA conduce verso sud (attacco con numerosi raggruppamenti, su largo
fronte); la localizzazione del centro di gravità può essere probabilmente
nell’area SWOBODA‑KOROTOJAK.
[26] Lo costituivano i
battaglioni “Vestone” e “Valchiese” del 6° alpini, rinforzati dai
gruppi “Bergamo” e “Vicenza”, e da 4 semoventi, più una batteria di lanciarazzi
e 5 pezzi di artiglieria da 152: quanto rimaneva del XXIV Corpo corazzato
tedesco che Eibl aveva posto sotto il suo comando. Invece il battaglione
“Verona” doveva proteggere il fianco destro della Tridentina, l’unica delle quattro divisioni che era riuscita a
sganciarsi in modo ordinato dal Don.
[27] Vds. Allegato “Q” –
La controffensiva russa dell’inverno ’42-’43; Allegato “R” ed “S” – Uniformi,
armi ed accessori in dotazione; Vds. Allegato “T” e “U” – Perdite.
[28] Si consideri, in proposito, I’asserto del
Clausewitz “generalmente nell'attacco ad una sosta necessaria non succede più
un secondo slancio”.
[29] Direttiva del Comando Gruppo Armate “B”. n
02/2012 del 14 luglio 1942
[30] “Direttive impiego GG UU.”, Ed, 1935.
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