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domenica 23 febbraio 2014

Sbarco di Anzio. Aprilia


La Associazione "Un ricordo per la pace" presieduta da Elisa Bonacini ha portato a termine con successo ricerche storiche che hanno stabilito l'esatto punto in cui cadde il padre di Roger Waters, Eric Fletcher Waters. Alcuni dati di queste ricerche, sviluppate per lo studio delle operazioni sulla costa pontina nel gennaio 1944, sono riportati in questo blog, come pure su: www.corpoitalianodiliberazione.blogspot.com, a cui si rimanda per approfondimenti

lunedì 17 febbraio 2014

Lezioni. Anno 2014 Titolazione generale


La strategia del debole verso il forte. 
La Guerriglia ed il Terrorismo



1. Introduzione alla Storia Militare. Il Metodo Storico
2. La Guerriglia oggi. e la nascita dello SM.  L'inizio della  elaborazione teoretica della Guerriglia
3. La Guerrgilia oggi ed i precedenti nella prima meta dell'ottocento
4. La Guerriglia oggi ed i precedenti nella prima meta del secolo breve
5. La Guerriglia oggi e la terorizzazione della Guerrigilia alla Vigialia della II Guerra Mondiale
6. La Guerriglia oggi ed i precedenti nella seconda metà del secolo breve
7. La Guerrgilia oggi e la storicizzazione. 


Truppe Germaniche impegnate in azioni antiguerriglia nella seconda guerra mondiale . Anno 1943.

per contatti: ricerca23@libero.it

martedì 11 febbraio 2014

Angelo Ottaviani. Diaro

Ricordi dell'Impresa Africana" 1935-1936

(prefazione al Diario pubblicato su "Antiquaviva" Quaderni di Studi e Ricerche Ottobre 2013 Anno XV n.4)

L’impresa d’Etiopia rappresenta il culmine del consenso che il popolo italiano accordò al Fascismo nel suo arco ventennale di governo. La proclamazione dell’Impero, nel maggio 1936, rappresenta il successo a tutto tondo del movimento fascista, sottolineato dalle due adunate oceaniche, quella del 5 maggio 1936, quando Mussolini, come Capo del Governo e Duce del Fascismo, si affacciò dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, annunciando al popolo italiano la vittoria etiopica, con la famosa frase “Il Maresciallo Badoglio telegrafa: oggi alle 17, 15, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Adis Abeba”, e quella del 9 maggio, quando richiamò sotto il balcone ancora il popolo italiano, proclamando la ricostruzione dell’Impero, ricollegandosi in modo molto ardito, all’Impero dei Cesari.

L’impresa di Etiopia non era iniziata bene nel 1935. Il ricordo delle sconfitte di Dogali e di Adua aleggiava su tutto. Gli abissini di Menelik avevano dimostrato con queste vittorie a tutti gli Africani che l’uomo bianco poteva essere sconfitto e non era invincibile. L’Italia, agli inizi del novecento, fu l’unica potenza europea che dovette soprassedere alla sua espansione coloniale. Nel 1935 questo progetto fu ripreso, soprattutto per dare uno sfogo alla nostra emigrazione, non essendo la sola Libia sufficiente ad accoglierla.  Mussolini, che vedeva nella guerra d’Etiopia un banco di prova del regime, non esitò a sostituire De Bono, inizialmente al comando delle truppe in Etiopia,  con il più determinato Maresciallo Badoglio; e non esitò a mettere a disposizione ogni sorta di materiale, in armi e munizioni ed inviando tutti gli uomini necessari. Questa disponibilità, e per la prima volta le Forze Armate Italiane combatterono una guerra in abbondanza di mezzi, rappresenta una delle cause della nostra sconfitta nel 1940-1943. Entrammo in guerra nel 1940 contro le potenze mondiali, Francia ed Inghilterra, con scarse riserve sia finanziarie che materiali, ulteriormente depauperate anche dalla guerra di Spagna e d’Albania. Tutto quello che impiegammo nel 1935-1939 sarebbe stato utile nella Guerra Mondiale, come del resto fece la Germania, che tranne una fugace e sperimentale presenza in Spagna con la Legione Condor tenne entro i confini le sue forze armate.
In Etiopia, in ogni caso, le cose andarono bene. Il Maresciallo Badoglio, coordinandosi con le forze di Graziani operanti dalla Somalia, da ottobre 1935 a maggio 1936, partendo dall’Eritrea, lanciò una serie di offensive, punteggiate da battaglie come quella dell’Amba Aradam, del lago Tana, dell’Ascianghi, che a maggio lo portarono ad entrare in Adis Abeba. Ma Badoglio sapeva che con l’entrare nella capitale nemica, come ampiamente dimostrato dalla Storia, vedi Napoleone che nel 1812 entra a Mosca, la guerra non era finita. Infatti non era stato distrutto il grosso dell’Esercito etiope. Occorrevano altre operazioni, che in parte ci furono, ma non sufficienti al conseguimento di quello che oggi chiamiamo l’”end state”. Cioè la vittoria, il conseguimento dell’obiettivo primario. L’Etiopia nel maggio 1936 era stata occupata ma non conquistata. Era una verità che i clamori dei festeggiamenti mise in secondo piano, ma che poi negli anni seguenti pagammo duramente. Badoglio, conscio di questo, iniziò a far rimpatriare quelle truppe che dovevano essere impiegate per distruggere definitivamente l’avversario, come se la vittoria fosse stata conseguita. Rimpatriò lui stesso, carico di gloria e di bottino, lasciando il comando al Maresciallo Graziani, il suo concorrente ai posti principali e di vertice delle Forze Armate Italiane. E Graziani dovette affrontare una snervante quanto sempre più virulente guerriglia che ebbe il suo apice nell’attentato proprio a Graziani stesso nel 1937. Nei quattro anni che seguirono tutte le nostre risorse in colonia furono assorbite da questa guerriglia; purtroppo al momento della dichiarazione di guerra del giugno 1940 la sorte dell’Impero era segnata. Impossibilitato ad essere soccorso dalla madrepatria, in quanto il nemico controllava il Canale di Suez, con scarse risorse disponibili, non aveva i mezzi per nessuna iniziativa strategica (come l’attacco al Sudan su Karthum che avrebbe minacciato nel prosieguo L’Egitto e Suez collegandosi con le forze operanti in Libia); fu solo una difesa, ammantata di valore, ma senza speranza.  Nel maggio del 1941 le forze inglesi ebbero facile gioco a conquistare l’Etiopia, appoggiate dalle forze etiopi, padroni del territorio. Se si può fare una similitudine con i tempi nostri, tranne l’ultimo segmento, la nostra vicenda in Etiopia e simile all’intervento statunitense in Iraq nel 2003 e in Afganistan, subito dopo. Conseguita con relativa facilità, data la grande abbondanza e disponibilità di mezzi e materiali, l’occupazione  dell’ Iraq, le forze statunitensi non riuscirono, per effetto della guerriglia in essere, a conquistare l’Iraq stesso, ritirandosi dopo anni di attentati ed attacchi indiscriminati. In Afganistan lo stesso. Ed in questo paese anche la URSS fallì, occupando il territorio ma non conquistandolo, nel decennio 1979-1989. Ed il fallimento in Afganistan può essere considerano non uno degli ultimi motivi per cui la stessa Urss implose. Stati Uniti e URSS non studiarono a fondo e non trassero lezioni dalla nostra guerra in Etiopia del 1935-1936.

Il Diario di Angelo Ottaviani riverbera, con gli occhi di una Camicia Nera, gli avvenimenti sopra descritti, nel ruolo di gregario, di volontario che lascia la sua casa per libera scelta, per partecipare agli avvenimenti in cui la Patria è impegnata. Occorre porre una riflessione su questo aspetto volontario. Il nostro Risorgimento in cui si compì l’unità della nazione, nell’arco di tempo che va dal 1848 al 1870, con la I Guerra mondiale che rappresenta il suo naturale completamento, è stato caratterizzato dal fenomeno del volontariato. Non occorre fare tanti esempi, elencando tutti i corpi volontari del 1848 e del 1849; basta citare la Spedizione dei Mille ed il nome di Giuseppe Garibaldi per avere una dimensione della entità del fenomeno. Nel maggio del 1915 ci fu una gara ad arruolarsi, “ad avere un posto alla frontiere per combattere il nemico ereditario” come allora la nostra propaganda sottolineava. Nella guerra del 1936 vi fu lo stesso entusiasmo di popolo, ancorché incanalato dalla organizzazioni del Partito Nazionale Fascista e  recepito e raccolto nella istituzione voluta da Benito Mussolini e fondata il 1 febbraio 1923 che va sotto il nome di Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Questa Milizia, che doveva rappresentare il fascismo in armi ed in guerra, con afflusso dei volontari, da vita a Divisioni Camicie Nere (Divisioni CCNN) organicamente costituite appositamente per l’esigenza etiopica. Un volontariato che ha base regionale se non locale, infatti Ottaviani la scia Nepi con 19 suoi compagni, e fortemente ideologizzato. Un fenomeno che si può quasi dire di massa che si manifestò nel 1936, ma che non si manifestò nel maggio-giugno 1940 al momento della dichiarazione di guerra. Una contraddizione che qui non vi è lo spazio per approfondire, rimando alla monumentale biografia che Renzo de Felice ha scritto su Mussolini, e quindi sul fenomeno fascista, ma che anticipa i sintomi di quella disgregazione morale e di motivazione che poi avremo in misura sempre crescente per tutti i 39 mesi della guerra mondiale.
In Etiopia l’entusiasmo e la motivazione non viene meno, come emerge dalle pagine del Diario. Dalla concentrazione per esercitazioni nell’area a ridosso del porto di imbarco, Napoli, alla partenza, ove il saluto del Principe Ereditario rappresenta quella adesione di casa Savoia al Fascismo inequivocabile, al viaggio, che tutto sommato è tranquillo, pur passando in acque ostili, controllate dalla Gran Bretagna, l’impresa sembra più una grande manifestazione di popolo che una vera guerra. Anche l’impatto con l’ambiente operativo è  positivo: riga dopo riga traspare la fiducia nei Capi, nell’esito finale, nel senso di essere partecipe di giorni che saranno ricordati. La descrizione delle manovre per le varie battaglie sono recepite come elementi che punteggiano la giornata, la progressione verso esiti positivi, dati quasi per scontati, con la descrizione del nemico visto come “massa”, che, nonostante tutti gli sforzi che fa, deve battere in ritirata e darsi a precipitosa fuga. Colpisce come Ottaviani ripete, in modo quasi costante, la sua ammirazione per l’azione dell’aviazione, l’arma “fascistissima” che ha la prima occasione di dimostrare tutta la sua potenzialità. Sono fresche nella memoria degli Italiani le imprese Mediterranee ed Oceaniche di Italo Balbo, le transvolate che posero al centro dell’attenzione di tutto il mondo l’Arma Azzurra che in quegli anni era veramente di riferimento per tutte le aereonautiche, alla ricerca di uno sviluppo in cui ancora ci si discuteva tra il più leggero, il dirigibile, e il più pesante, l’aereo, dell’aria. Ottaviani nel suo diario sottolinea l’azione  dei nostri aerei, che colpiscono il nemico oltre le sue linee, in profondità. Non vi è cenno all’uso dei gas, che tanta simpatia del resto del mondo ci costò, e che a posteriori si rilevò un arma non definitiva, ma che fu una delle molle che compattò la resistenza etiopica, che poi pagammo molto cara.
Un altro aspetto da sottolineare sono le descrizioni non guerresche, che si intervallano nel Diario. La vita sulle ambe, la popolazione, le condizioni geografiche, di vita ed umane. I luoghi storici delle nostre precedenti azioni (Adua, Macallè, Forte Galliano, il cippo Toselli)) sono ricordati ma non commentati, quasi a voler sottolineare che sono ricordi in cui gli Etiopi risultano essere vincitori, l’esatto contrario di quello che lui in quel momento sta vivendo. Infine una nota particolare: l’accenno ai Caduti. Riverente, serio, onesto e di tutto rispetto, ma accettato come una cosa ineluttabile. Oggi le nostre missioni di pace vengono vissute e gestite con costi di vite umane a costo zero; quando, per fatalità o per azione avversa, un nostro Soldato cade, si ferma la Nazione. Un diverso impatto dettato dal diverso sentimento nazionale. Allora, i nostri Padri avevano per i Caduti in guerra, a livello emotivo generale, lo stesso atteggiamento che oggi noi abbiamo per le vittime degli incidenti della strada; una necessità, accettata con fatalismo e rassegnazione; i nostri Padri aggiungevano una forte componente di virilità.
Il Diario si chiude con la descrizione della fine della campagna, vista da lontano ed il rimpatrio, vissuto tutto senza trionfalismi. Molto significativo in quando si manifesta in questo atteggiamento il senso della scelta, il senso di appartenenza, il senso del dovere compiuto, il lavoro ben fatto, e l’essere soldati, l’orgoglio di avere dato tutto alla Patria, con tutto quello che significa. 
Un Diario che, pur nella sua dimensione, vale la pena di riproporre a tutti, non solo alla nuove generazioni, ma anche a quelle più o meno anziane, per un esempio di come si devono educare i figli, per come si deve vivere il senso di appartenenza, il vivere affrontando sacrifici e privazioni, per un bene superiore comune, che, nell’orizzonte che vediamo tutti i giorni, sembrano parole non solo sbiadite ma a molti incomprensibili.


Massimo Coltrinari,

lunedì 3 febbraio 2014

Equipaggiamenti La Storia della Gavetta

              
                                     
Il termine Gavetta (o Gamella che sono sinonimi) è tradizionalmente fatto risalire alla lingua latina con significato di “scodella”.
Gavetta deriverebbe dal termine “Gabata”, che a Roma antica aveva una connotazione di origine straniera, mentre Gamella da “Camella”, probabilmente con chiaro riferimento alla gobba del cammello che nella sua forma ricorda quella di un recipiente rovesciato.
Il termine Gavetta e di più Gamella, nei secoli rinascimentali era legato più al mondo marinaro che a quello delle truppe di terraferma. Infatti a bordo delle galee e delle navi in genere veniva così denominata la grossa scodella in cui consumavano il pasto un gruppo di uomini, in genere sette. Il termine si istituzionalizzò al punto che con gavetta si indicava un gruppo di sette marinai ammessi al rancio.
Ancora un legame con la tradizione marinara del termine Gavetta. Nel linguaggio architettonico si definisce “volta a gavetta” quella ottenuta intersecando una volta a padiglione con un piano orizzontale: si ottiene così una figura che ricorda la chiglia di un certo tipo di imbarcazioni. La volta a gavetta viene detta anche “volta a schifo” ed il termine “schifo”indicava nell’antica costruzione navale una imbarcazione adibita al servizio di una nave maggiore. Considerando che “schifo” viene fatto derivare dal longobardo SKIF e che nella lingua inglese SKIFF sta a definire una leggera imbarcazione a remi o a vela, si può collocare il termine Gavetta, nella sua primitiva adozione, alle forme navali antiche o di modello particolare. Un ultima annotazione: se si rovescia la volta a gavetta, si legge una forma di contenitore che da una parte ricorda un natante, dall’altra si avvicina in modo particolare a quell’utensile che nella tradizione umbra viene chiamato “capestio” e che quella marchigiana chiama “scodella”.

L’Introduzione dell’uso della Gavetta nelle formazioni militari di terra.
L’uso della gavetta come contenitore di cibo e strumento per la confezione del rancio (pasto) è strettamente legato alla tecnica di gestione delle sussistenze nel quadro storico dell’organizzazione logistica  dell’Esercito.
Fino al periodo napoleonico ogni soldato doveva provvedere da se alla confezione del proprio rancio, spesso ricorrendo a soluzioni tutt’altro che accettabili come taverne,  cucinerei improvvisate ecc.. Si iniziò a sentire l’esigenza di uno strumento come la Gavetta nel momento in cui, passata l’era Napoleonica si istituzionalizzarono le prime caserme, ovvero edifici funzionalmente concepiti su criteri esclusivamente militari.
Nel clima della restaurazione, l’espeerienza napoleonica in seno agli eserciti non poteva essere ignorata. Furono emanate tutta una serie di disposizioni intese a rendere la struttura militare quanto mai omogenea sulla base dell’ordinamento e dele capacità operative specifiche dei corpi. Non possiamo portare ad esempio i vari eserciti europei o quelli pre unitari in quanto sarebbe troppo dispersivo. Prendiamo a modello l’esercito sardo, che poi nel 1861 diverrà l’Esercito Italiano. 
Nell’ambito della Intendenza Generale di Guerra, creata il 19 novembre 1816 su trasformazione del settecentesco Ufficio Generale del Soldo, in cui si trattavano tutte quelle funzoni  che oggi sono assolte dal Corpo di Amministrazione e Commissariato incentrate sulla logistica dell’uomo,  furono emanate via via regolamenti che resero la struttura militare più omogenea.
Nel Regio Editto Penale Militare del 1822 furono codificati gli oggetti personali del corredo del soldato in cui figurava un “gamellino” in cui la forma e la capacità non venivano indicate.
Il termine Gavetta appare per la prima volta nei nostri ordinamenti nel 1833. Da quella data le nostre truppe ebbero in dotazioni i modelli di gavetta così come indicato
-                       Gavetta modello 1833
-                       Gavetta modello 1835
-                       Gavetta modello 1872
-                       Gavetta modello 1930 grande
-                       Gavetta modello 1930 piccola

Il Modello 1833
Il regolamento del 1833 definisce sia i materiale che il modello della Gavetta, destinata ai “bassi ufficiali” ed ai soldati.
E’ in ferro battuto, di forma cilindrica, proposta in due versioni una per la cavalleria, (peso 14/16 once circa 450 gr., larghezza 155 mm altezza 89 mm)ed una più bassa e più larga ma della stessa capienza,( peso 15 once circa 450 gr., larghezza 175, altezza 57 mm. ) per la fanteria. LA capacità di questo modello era 1 pinta equivalente a 1,369 litri.

Il Modello 1835

L’adozione del modello 1833 non rese soddisfatti e subito furono proposte modifiche che, acquisite, diede vita al modello 1835, modello che nelle sue forme sostanziali rimarrà in vigore fino ai nostri giorni.
Il Regio Biglietto  pubblicato sul Giornale Militare il 11 Agosto 1835 stabiliva, art. 2:
la forma: doveva essere semicircolare con angoli mistilinei smorzati ad arco; il fondo esterno leggermente convesso, larga 200 mm, alta 150, il coperchio 38 mm.
è di  latta forte detta doppia, il peso sempre di 450 gr.
composta da due parti distinte, il corpo ed il fondo tenute insieme da una saldatura a lamina rivoltata sicchè possa reggere al fuoco
riporta un manico collegato alle estremita per il trasporto
Questo tipo di gavetta è veramente rivoluzionario, procurando vantaggi consistenti.
Dotata di un manico ne agevola il trasporto, anche in caso di completo riempimento; la superficie piana aderiva allo zaino, mentre quella convessa era più resistente agli urti; i liquidi contenuti, essendo a sviluppo verticale, erano più controllabili; aveva una sua indubbia “manualità”.
Il modello fu distribuito solo alla fanteria ed agli zappatori del genio, mentre la Cavalleria continuava ad avere la gavetta del modello precedente, era costruito con la lamiera detta “ a bandone”. Nel 1837 fu distribuita all’artiglieria. La cavalleria continuò ad usare il vecchio 1833 modello fino al 1855, alla vigilia della spedizione in Crimea.

Il modello 1872
All’indomani della Presa di Roma, nel fervore delle riforme volute dal generale Ricotti Magnani con circolare 124 nota 10 pubblicata sul Giornale Militare 24 giugno 1872 fu adottata un nuovo tipo di gavetta che, memori delle esperienze della guerra al brigantaggio, doveva portare delle novità nella confezione del rancio. Il nuovo modello era in lamiera ed era tale da potervi confezionare il rancio per tre uomini o il caffè per sei. Di questo modello vennero forniti tutti i dettagli tecnici, nella forma ricalcava sostanzialmente il modello precedente, mentre la capacita passava da 1,350 litri a 1,5.
La novità era costituita dal manico recante uno snodo al centro che permetteva al manico stesso di adattarsi alla forma convessa della gavetta quando la si applicava allo zaino. Una piastrina di ottone rivettata a destra del passante metallico del coperchio recava per ponzunatura il cognome del soldato a cui apparteneva, che nel 1887 fu sostituito da una lettera dell’alfabeto e da  un numero da 1 a 999. Fu distribuita alla fanteria, mentre la cavalleria continua ad avere il precedente modello
Il modello 1872 rimase in uso alla Fanteria fino al 1882 anno in cui si torno al precedente modello, senza specificarne le ragioni
Nel 1896 si adottò, tranne che per gli alpini e l’artiglieria da montagna un tipo di gavetta più piccolo per tutte le armi.


Il modello 1930 grande Il modello 1930 piccola

Negli anni trenta la gavetta fu completamente riprogettata, ad oltre un secolo dalla sua comparsa, con materiali tecniche di lavorazioni e particolari nuovi. Si tratto di una seconda rivoluzione nella storia dell’oggetto di equipaggiamento che venne realizzato in lamiera d’alluminio che produceva la forma per stampaggio. Si hanno due vantaggi: l’alluminio era un metallo decisamente più leggero degli altri fino ad allora usati; la tecnica di lavorazione e stampaggio portava alla realizzazione di un elemento compiuto senza ricorrere alle saldature. Gli occhielli di fissaggio del manico erano ottenuti per fusione sempre di alluminio ed applicati al corpo della gavetta con dei ribattini dello stesso metallo.
Un altro aspetto innovativo fu l’attenzione dedicata al coperchio che fu dotato di un comodissimo manico incernierato sulla parte piana in modo tale da potersi ripiegare sull’interno del coperchio stesso. Si sanciva così l’utilità di quello che veniva chiamato comunemente coperchio ma che in realtà diveniva definitivamente ad essere un proprio contenitore utensile con uso specifico, forse mai regolamenta ufficialmente, ma inventato di volta in volta dalla fantasia del soldato stimolata dalle situazioni contingenti.
I modelli di gavetta del 1930 sono in tutto conformi a quelli attualmente in dotazione; le uniche differenze consistono nell’essenza, nel modello attuale, dei passanti metallici per le cinghie di fissaggio e nell’aggiunta di un bottone in alluminio sul coperchio sul lato opposto al manico. Da notare che aggiungendo un altro coperchio con il manico ed il bottone in posizione invertita rispetto al coperchio superiore il manico di ogni coperchio va a fermarsi sul bottone del coperchio opposto in modo da realizzare una solida chiusura dell’oggetto così composto.

(Massimo coltrinari. ricerca23@libero.it)