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venerdì 28 aprile 2017

La Battaglia di Cuztoza XI

a.       L’ambiente operativo
(1)  Delimitazione ed inquadramento
La Battaglia di Custoza, episodio che va inquadrato nell’ambito della guerra austro-prussiana del 1866, si è svolta nel Veneto in un’area limitata ad ovest dal fiume Mincio, da Peschiera a Mantova, per circa 34 chilometri e dal cosiddetto Serraglio, l’area compresa tra il Mincio e il Po, malsana, impedita da canali e acquitrini, tutta inondabile e larga soltanto 11 chilometri. A sud l’area delle operazioni è delimitata dal fiume Po nella sua interezza (145 chilometri), spalleggiato da grandi paludi, canali e risaie: una zona intricatissima, facile da difendere e quasi impossibile da aggredire. Infine ad est e a nord rispettivamente dagli allineamenti Verona-Legnago e il Lago di Garda-Verona. All’interno di questa area si aggiunge un altro ostacolo, che correva parallelo lungo la linea di frontiera, l’Adige. Insomma, date le caratteristiche del terreno le fortezze di Peschiera, Verona, Legnago e Mantova, e l’area tra esse racchiusa, rappresentavano una porzione di terreno praticamente inespugnabile che offriva numerose posizioni difensive. Il tratto lungo il Mincio tra Peschiera e Mantova era forse il più accessibile.   
(2)  Caratteristiche fisiche
Le Alpi descrivono una fitta catena circolare che separa l’Italia dalla Francia, dalla Svizzera e dall’Austria. Le piogge e le nevicate frequenti, mantengono l’alimentazione di una enorme quantità di acqua che si riversa in tanti laghi, fiumi e riviere. Il Po, il più grande di queste linee idriche, attraversando tutta l’Italia settentrionale, si getta nell’Adriatico dopo aver raccolto un’infinità di affluenti minori che scendono dalle Alpi. Tra questi è opportuno ricordare il Sesia, il Ticino, l’Adda, il Mincio. L’Adige, il Brenta, il Piave, il Tagliamento e l’Isonzo si riversano direttamente nell’Adriatico.
In particolare, il Veneto, che insieme a Roma mancavano per completare l’unificazione nazionale, all’epoca era quella l’area compresa tra il Ticino e l’Isonzo da una parte, il Po e le alpi dall’altra. Tale collocazione “condanna” tutt’ora il Veneto ad essere attraversata da una fitta rete idrica. In particolare, dalla punta meridionale del Lago di Garda, Peschiera, esce il Mincio, il quale dopo aver formato acquitrini e laghi artificiali soprattutto nei pressi di Mantova si getta nel Po a Governolo. Più ad est, scorre l’Adige fino a Legnago da dove inizia a scorrere parallelamente al Po per poi riversarsi nell’Adriatico. Tutta l’area compresa tra il basso Po e l’Adige è paludoso, caratterizzato da un ginepraio di canali di irrigazione che la rendono assai poco praticabile.
Andando più nel dettaglio, il terreno dove si sono ripetutamente scontrati di due eserciti presenta una parte collinare e una parte di pianura. Il terreno collinoso, attraversato peraltro anche dal fiume Tione, che sorge a Pastrengo e scorre verso sud passando per Villafranca, in tutto il suo sviluppo longitudinale può essere considerato formato da tre gruppi collinari-pianeggianti: uno occidentale dal Mincio alla rotabile Castelnuovo-Valeggio, quello centrale da questa strada fino a Guastalla e quello orientale da quest’ultima fino a Verona[i].
Le alture di Custoza, dove si decise l’esito della campagna, sono particolarmente importanti perché sono costituite da due allineamenti, con andamento nord-est, che si raccordano e degradano appunto nel paese di Custoza. Da queste alture guardando a nord e nord-ovest si scorge una fronte che è la continuazione del Torrione, Monte Sabbione, Monte Vento e Santa Lucia, ottimi punti di osservazione[ii]. La coltivazione nell’area non era particolarmente fitta, a causa della natura sassosa di questo terreno collinoso   
A tutto ciò va aggiunto che la campagna del 1866, si è svolta a partire dalla terza decade di giugno quando nell’area crescono in maniera rigogliosa infinite piantagioni di granturchi e gelsi che, per loro natura, costituivano un naturale rallentamento alle operazioni militari.
(3)  Caratteristiche antropiche
La popolazione sparsa in molte frazioni e generalmente dedita all'agricoltura. Però non mancavano nel paese alcune industrie, come fabbriche di paste alimentari e filande da seta. Vi era anche una fabbrica di alcool ed era esercitata limitatamente la tessitura casalinga. Già allora il commercio era assai animato e vi si tenevano mercati importanti. 
La rete stradale era ottima e garantiva agli austriaci le linee di comunicazione tra le Alpi, il Po e il Mare Adriatico. Ciò permetteva di raggiungere tutte le principali città dell’area di operazioni entro 24 ore di marcia. Oltre a ciò Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Peschiera e Mantova comunicavano tra di loro per mezzo della ferrovia. Nelle vicinanze della riva sinistra del Mincio, l’unica strada buona che si sviluppava da nord a sud era quella che collegava Castelnuovo a Valeggio. Diverse e in buono stato erano invece le strade che attraversavano la pianura, soprattutto quelle che passavano per Villafranca. In tal senso, Villafranca rappresentava, quindi, il centro nevralgico delle principali vie di comunicazione.
Anche Valeggio costituiva un centro molto importante dal punto di vista militare non solo perché dominava il ponte sul Mincio (Borghetto), ma anche perché segnava il punto in cui la zona collinare lasciava il passo alla pianura, perché era un crocevia di interesanti vie di comunicazione e perché da li partiva la rotabile per Castelnovo.
(4)  Eventuali precedenti storici
L’area intorno a Custoza è stata già teatro di scontro nel 1848 tra Regno di Sardegna e Impero Austriaco durante la I Guerra di Indipendenza. I due eserciti si scontrarono nei pressi di Custoza per il controllo delle pianure del Veneto. Dal 24 luglio, manovrando nei settori più deboli, la saldatura del Corpo di Armata, gli austriaci, in una serie di scontri vittoriosi in più località, riescono a prevalere in quella che poi fu chiamata la Battaglia di Custoza. Il 27 luglio, Carlo Alberto si ritira su Milano fra il generale disappunto dei lombardi.
Durante questa campagna è emersa la grande forza, la grande organizzazione, la formazione, ma soprattutto la disciplina dell’Esercito Austriaco. Radestzky, a capo del contingente austriaco, diede prova di capacità militari inconfutabili, benché non abbia capitalizzato il massimo possibile dalle circostanze. Per contro, le truppe piemontesi per quanto visto sul campo dimostrarono di essere ben lontani dal dimostrare un’organizzazione tipica di un esercito regolare. La loro organizzazione si è rivelata talmente problematica da non poter resistere ad una campagna di quattro mesi. Le carenze riguardano soprattutto la disciplina tra i capi e i subordinati. In realtà nella campagna del 1848, le forze piemontesi hanno compiuto atti eroici, estemporanei, purtroppo non illuminati da combinazioni intelligenti senza le quali non si raggiungono risultati importanti.




[i] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 89.
[ii]  Pollio A., Op. Cit., p. 91.

mercoledì 26 aprile 2017

La Battaglia di Custoza XII

a.       I piani operativi
(1)  Generalità
Il 17 giugno 1866 scoppiano le ostilità tra Prussia e Austria e l’Italia, in virtù del Trattato firmato qualche mese prima, dichiara guerra all’Austria. Infatti, il 20 giugno 1866 alle ore 08:30 il Colonnello Pompeo Bariola, dello Stato Maggiore, recapitava al Tenente Maresciallo barone Sztankovic, Comandante della fortezza di Mantova, la dichiarazione di guerra all’Austria: “[…] tendendo tuttora schiava una delle più nobili nostre province, trasformandola in un vasto campo trincerato, […], le ostilità avranno principio dopo tre giorni dalla data della presente; a meno che Vostra Altezza Imperiale non volesse aderire a questa dilazione, nel qual caso la pregherei di volermelo significare […][i]    



[i]  Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 115.

venerdì 21 aprile 2017

La Battaglia di Custoza XIII


(1)  Esercito Italiano
Riuscire a capire quale fosse il piano di campagna dell’Esercito Italiano è impresa assai ardua in quanto il piano doveva essere presentato in una conferenza che si tenne a Bologna il 17 giugno 1866 tra La Marmora e Cialdini. Di quel colloqui non esistono documenti che attestino le decisioni che furono adottate. Nessuno era presente a quell’incontro, ma dall’analisi dei fatti dei giorni successivi si può arguire che i due generali si siano lasciati con la convinzione che l'uno avesse aderito alle idee dell'altro. E invece ognuno era rimasto fedele al proprio piano: il Cialdini, pensava che sul Po si dovesse sviluppare l'operazione principale, mentre sul Mincio si doveva condurre un’operazione diversiva. Al contrario, La Marmora credeva che l’operazione principale doveva essere svolta sul Mincio e di diversione quella del Po. Non a caso La Marmora poco tempo dopo disse: “la nostra azione rispettiva era troppo evidente perché fosse d’uopo di prendere accordi speciali. Ciascuno dalla parte sua avrebbe agito secondo le occorrenze colla massima energia per modo di battere o paralizzare il nemico attraendolo ora da una parte, ora dall’altra[i]. Da queste parole si evince chiaramente che l’Italia non aveva un piano, ma due diversi modi di vedere e di intraprendere le operazioni. A queste posizioni corrispondeva anche una diversa visione strategica a livello politico. Una, che faceva capo proprio al Generale Enrico Cialdini, che l’aveva elaborata e vedeva anche i favori degli alleati prussiani, su tutti del Generale von Moltke, prevedeva Bologna come base delle operazioni, l’invasione del Veneto dal basso Po, con attraversamento del fiume a monte di Ferrara, e l’avanzata su Rovigo. Per favorire l’operazione occorrevano alcune azioni diversive e di disturbo sul Mincio che avrebbero impegnato il grosso dell’Armata imperiale all’interno del Quadrilatero. Una volta raggiunto Rovigo e passato l’Adige, l’Armata del Po avrebbe avuto la strada spianata verso Padova, Vicenza e Venezia, puntando sulle più vitali comunicazioni del Veneto fin dentro il cuore dell’impero. Tale visione, inoltre, rendeva possibile anche un contributo della flotta italiana nell’Adriatico e l’infiltrazione  di un corpo di volontari in Dalmazia e in Ungheria con il compito di innescare una rivolta popolare in grado di minare la solidità dell’Impero. Questa linea di azione aveva il vantaggio di evitare “di rimanere invischiati in lunghe e faticose operazioni all’interno del Quadrilatero, con poche possibilità di successo”[ii] come era accaduto nel 1848.
L’altra visione, completamente opposta, elaborata da La Marmora e altri generali dell’ex esercito piemontese, prevedeva, invece, Piacenza e Cremona come basi di operazione, eseguire delle operazioni dimostrative sul basso Po, e di colpire direttamente il Quadrilatero da Ovest: attraversare il fiume Mincio tra Peschiera e Mantova e forzare le fortezze nel più breve tempo possibile grazie alla superiorità di forze disponibili o, in alternativa, ingaggiare battaglia all’interno dello stesso.
Alla vigilia della guerra, l’Italia pensava ad un teatro di operazioni in cui avrebbero agito due armate: una sul Mincio, Comandata dal Generale La Marmora, e una sul Po, comandata dal Generale Cialdini. La prima, “più sotto la mano del comando in capo dell’Esercito[iii], avrebbe ricevuto ordini e diposizioni direttamente, la seconda, da considerare più come un distaccamento, avrebbe agito secondo le indicazioni ritenute più idonee ed opportune da parte del comandante[iv] che aveva l’unico obbligo di tenere informato il Comando Supremo.  L’operazione che l’esercito italiano si accingeva a condurre era guidata da un piano che rappresentava soltanto il giusto compromesso fra due soluzioni alternative volte a soddisfare Cialdini e La Marmora per di più viziato da un’incomprensione di fondo: il Generale La Marmora si aspettava una dimostrazione sul basso Po e il Generale Cialdini si aspettava una dimostrazione sul Mincio. Non a caso, allorquando nel mattino del 24 giugno 1866, il Generale Cialdini ricevette dal Re Vittorio Emanuele il telegramma con cui gli si comunicava l’inizio delle ostilità, rispondeva di “essere desolato notizia che Vostra Maestà mi dà. Generale La Marmora mi aveva promesso di limitarsi a semplice dimostrazione. Voglio sperare non infausto esito giornata, ecc.”[v]. L’unica questione su cui si era fermamente concordi era il ruolo del Corpo di Volontari comandato da Garibaldi: non sbarcare in Dalmazia, per essere infiltrato in Ungheria, ma, attraverso azioni dimostrative verso il Tirolo, coprire l’estrema sinistra del dispositivo sul Mincio e la Lombardia.




[i]  Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 29.
[ii]  Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 104.
[iii] Pollio A., Ibidem.
[iv] Idem
[v]  Pollio A., Op. Cit., p. 31

giovedì 20 aprile 2017

La Battaglia di Custoza XIV

(1)  Esercito Imperiale
L’Armata Austriaca del Sud, abilmente condotta dall’Arciduca Alberto, di fronte ad un nemico così schierato, aveva ampia libertà di manovrare per linee interne[i]. L’obiettivo era, pertanto, quello di gravitare con il grosso delle forze laddove veniva percepita la minaccia principale, cioè dal Mincio, battere il nemico colpendolo sul fianco sinistro e rivolgere l’attenzione al basso Po, dove gli ostacoli naturali delle Polesine avrebbero rallentato l’avanzata dell’armata del Generale Cialdini. Tutta la manovra era rivolta a salvaguardare il possesso della città di Verona, vero centro di gravità del dispositivo austriaco di stanza nel Veneto, in virtù della posizione strategica, delle fortificazioni, delle linee di comunicazione che la attraversavano e delle risorse ivi stoccate.
A tal fine era necessario innanzitutto attirare il grosso dell’Esercito Italiano nel Quadrilatero e per fare questo occorreva far credere di essere sulla difensiva. Per fare ciò, l’Arciduca Alberto, mantenne i tre Corpi d’Armata a sua disposizione nei pressi di Montorio, Pastrengo, San Martino, San Michele e San Bonifacio e ordinò di lasciare intatti i ponti sul fiume per facilitare l'avanzata italiana verso il Quadrilatero. Alla vigilia delle ostilità, tutte le forze a disposizione dell’Armata austriaca del sud erano concentrate e disposte in modo da far credere agli italiani di rimanere in posizione difensiva dietro l’Adige. In realtà, pronte a muovere per essere impiegate contro le unità italiane provenienti da ovest.
Sul fronte del basso Po, l’Esercito Imperiale lasciava soltanto una brigata, il grosso della quale doveva attestarsi a Rovigo.
In quanto al Tirolo, il piano prevedeva realmente una difesa, ma attiva.[ii]



[i]  Per linee interne, quando una massa centrale interposta fra due o più masse nemiche opera in modo da impegnare battaglia separatamente con ciascuna di esse.
[ii]  Pollio A., Op. Cit., p. 37.

sabato 8 aprile 2017

La Battaglia di Gorizia XV

a.       Le forze in campo
(1)  Entità e qualità: funzionalità e costituzione, capacità interforze, caratteristiche tattico-operative, armamento e mobilità
(a)       Esercito Italiano
Il contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato come di seguito riportato:
-      Armata del Mincio, organizzato in tre Corpi d’Armata, da quattro divisioni ciascuno:
·       I Corpo d’Armata comandato dal Generale Giovanni Durando;
·       II Corpo d’Armata comandato dal Generale Domenico Cucchiari;
·       III Corpo d’Armata comandato dal Generale Enrico Morozzo Della Rocca.
-      Armata del Po comandata dal Generale Cialdini organizzata invece su otto divisioni.
Tanto nella prima quanto nella seconda armata, c’erano in organico divisioni e brigate di cavalleria alle dirette dipendenze del Comando di Armata, gruppi di artiglieria, unità del genio pontieri e servizi occorrenti.
In particolare, il Gen. Cialdini alla vigilia della guerra con l’Austria si trovava al comando di un Corpo d’Armata che costava di otto divisioni, moltissimi comandi subordinati, un immenso traino di materiali di ogni specie. In altre parole, un vero e proprio esercito, molto difficile da muovere e manovrare soprattutto in un terreno che era notoriamente complicatissimo e intricatissimo. L’Esercito messo a disposizione per le operazioni consta, dunque, di ben 20 divisioni, i cui comandanti furono scelti direttamente dal Ministro della Guerra, Ignazio de Genova di Pettinengo, e dal Generale La Marmora. Completava il dispositivo italiano, il Corpo di Volontari Italiani, istituito con un Regio Decreto quale strumento militare che, in caso di guerra, avrebbe contribuito alla difesa del paese. Il Comando di tale Corpo venne affidato a Garibaldi. Il 22 giugno 1866 la forza complessiva del Corpo dei Volontari Italiani avrebbe dovuto contare 38.041 uomini, 873 cavalli, 24 cannoni e due cannoniere a vapore.
L’unità tattica era la brigata che operava all’interno delle divisioni. Ciò permetteva di disporre di unità più piccole e più manovrabili. Per contro le compagnie di fanteria, così come gli squadroni di cavalleria, erano sottodimensionate, a causa dei tagli di bilancio che c’erano stati da poco e non avevano permesso di adeguare gli organici.
Tutto il personale era equipaggiato con fucile mod. 1860, cal. 17,4 mm, ad anima rigata, con una gittata utile di circa 400 m, disponibile in versione per fanteria e per il personale a cavallo. La cavalleria leggera, inoltre, era equipaggiata anche con sciabola. L’artiglieria era del tipo da campagna da 90 mm.
Il Regno di Italia era nato nel 1861 e da allora l’esercito aveva subito successivi interventi di ristrutturazione a partire da quello fondamentale dal Generale Manfredo Fanti che permise di integrare perfettamente nell’armata piemontese gli eserciti della Toscana e dell’Emilia a cui si aggiunse, non senza dibattiti e dissidi, anche quello borbonico. Il significato di parole come patria, unità e libertà era vago e incerto. Inoltre, l’imposizione della leva obbligatoria aveva creato forti dissensi che si manifestavano attraverso fenomeni di renitenza di massa, coperti e sostenuti dalle comunità di origine. Comunque, sia, alla vigilia della guerra con l’Austria, l’Italia possedeva un esercito numeroso, ben equipaggiato, addirittura superiore a quello del nemico. L’impianto dello strumento militare italiano era stata un’idea di La Marmora che era riuscito ad imporre la sua visione di dotarsi di un esercito moderno, al passo con le minacce e i rischi del tempo e in grado di salvaguardare la monarchia e la pace in tutto il regno[i]. In merito, è bene ricordare che all’epoca esistevano due teorie dominanti in Europa: quella dell’esercito di quantità, sul modello prussiano, e quella dell’esercito di qualità, modello francese. La prima prevedeva la costituzione di un piccolo core di ufficiali e sottufficiali di professione, in servizio permanente, che veniva integrato dalla leva richiamata in caso di mobilitazione. Tutti erano obbligati ad un periodo di addestramento, distribuito in due/tre anni, al termine del quale venivano posti in congedo. Il modello francese, o di qualità, prevedeva, invece, un esercito a lunga ferma, cinque/otto anni. In caso di guerra i suoi organici venivano integrati con poche unità provenienti dalla coscrizione obbligatoria. La differenza tra i due modelli risiedeva nel fatto che mentre il modello prussiano si basava sul principio del cittadino-soldato, quello francese faceva gravare l’onere del sistema sulle classi più povere. La Marmora aveva optato per il modello francese che aveva introdotto nell’esercito piemontese sin dal 1854.[ii]
Dopo l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859), Manfredo Fanti venne incaricato della riorganizzazione delle nuove divisioni formate dalle Lega dell'Italia Centrale (comprendente Granducato di Toscana, Ducato di Parma, Ducato di Modena, Legazioni) e, nel giro di pochi mesi, seppe trasformarle in un funzionante corpo di 45.000 uomini. Per dare manifestazione visibile al nuovo stato di cose, diede avvio alla nuova Scuola Militare di Fanteria di Modena, ospitata nel palazzo del deposto duca.
Certo è che, dopo cinque anni, l’Esercito Italiano non aveva ancora la coesione necessaria per sostenere una guerra contro un solido esercito come era quello austriaco: la leadership era costituita da ufficiali che si erano ottimamente distinti come generali nel piccolo esercito piemontese, nell’esercito garibaldino e nell’esercito napoletano, ma che erano ben lontani dall’essere ottimi generali. In quell’epoca “pochi generali sapevano e i grandissimi insegnamenti delle guerre napoleoniche erano stati lasciati nel più completo oblio, tranne che da alcuni generali prussiani della scuola di Clausewitz[iii]. Più in particolare, i generali italiani avevano una competenza tecnica ed un’esperienza decisamente inferiore rispetto a quella degli ufficiali austriaci e prussiani.


[i]  Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 29
[ii]  Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 35
[iii] Pollio A., Op. Cit., p. 4.

mercoledì 5 aprile 2017

La Battaglia di Custoza XVI

.(a)       Esercito Imperiale
L’Armata del Sud era formata da tre Corpi d’Armata, il V, il VII e il IX, da una Divisione di fanteria di “riserva”, dai presidi delle fortezze e dalle milizie territoriali in Tirolo. A comandare i tre Corpi destinati alla fronte meridionale furono chiamati, rispettivamente, il principe Federico di Liechtenstein (V), sostituito poi, per motivi di salute, dal maggior generale Rodich, il Generale Möring (VII), il tenente maresciallo Hartung (IX). Il Comandante della Divisione di Riserva, dapprima assegnata al Maggior Generale Rodich, fu il Maggior Generale Rupprecht.
In totale l'Armata Imperiale del Sud disponeva di  143000 uomini, 15000 cavalli e 192 pezzi d'artiglieria. Escludendo le forze impegnate nei servizi di fortezza e nel controllo delle vie di comunicazioni, per le operazioni vere e proprie rimanevano circa 94500 uomini, 12500 cavali e 168 pezzi di artiglieria, di cui 19000 uomini e 24 cannoni impegnati nel Tirolo. Il Comandante in capo dell’Armata, Arciduca Alberto, adattò il piano di battaglia, solo dopo essere venuto a conoscenza della disposizione delle truppe italiane in due masse distinte. Sfruttando, infatti, la posizione centrale delle proprie truppe, l’Arciduca Alberto aveva la possibilità di operare per linee interne ed affrontare separatamente le due armate italiane.
L'unità tattica dell'Esercito imperiale era la Brigata. Ogni Corpo d'Armata, infatti, era composto di tre brigate di fanteria, da quattro squadroni di cavalleria, da tre batterie d’artiglieria. La brigata austriaca, così come era concepita, era molto pesante e in quanto tale molto difficile da manovrare, ma allo stesso tempo troppo piccola per operare con la stessa autonomia di una divisione (7000 unità). Non a caso, dopo la Guerra austro-prussiana del 1866, l’Austria decise di tornare alle divisioni.
Infine, l’Armata austriaca del sud, come del resto tutto l’Esercito Imperiale, era dotato di gavette-marmitta che permetteva di cucinare il rancio senza aspettare tutto l’apparato logistico di supporto.
L’Esercito Imperiale era tradizionalmente composto da soldati diversi per etnia, estrazione sociale, lingua e religione. Pur tuttavia, appariva come una delle istituzioni più solide e civili dell’epoca soprattutto per l’attenzione che veniva posta nell’amalgamare “tanti individui di diversa nazionalità, per il sistema di stanziamento e di trasferimento delle truppe [i] che contribuivano a sedare gli eccessi di persone che, comunque, erano docili e umili per natura. La forza di questo esercito era nella disciplina, nella fedeltà alla corona, nella devozione, nello spirito di sacrificio. Pur avendo conosciuto sonore sconfitte, soprattutto ad opera delle forze napoleoniche, l’Esercito Austriaco non si era mai sfaldato soprattutto all’orgoglio dei propri soldati, allo spirito di corpo e al cameratismo[ii].
Da un punto di vista tattico, la fanteria austriaca era ben equipaggiata (Lorenz, cal. 13,9 mm) e ben addestrata, soprattutto nell’arte della difesa; la cavalleria era tradizionalmente buona, ben montata e addestrata. La cavalleria leggera, costituita da ussari e ulani[iii], era molto efficiente e tradizionalmente temuta da tutti gli eserciti europei. Tutta la cavalleria era equipaggiata con fucile Lorenz, cal. 13,9 mm, modificata per personale a cavallo.
L’artiglieria non era conosciuta per le sue gesta, pur essendo ben equipaggiata con pezzi da 8 e 4 libbre, nonché dotata di artiglierie di tipo shrapnel, cioè in grado di lanciare granate a frammentazione.
Anche il genio era ben addestrato e ben equipaggiato. Particolarmente conosciuto all’epoca dei fatti era il genio pontieri.
Il personale e l’organizzazione dello Stato Maggiore era il fiore all’occhiello dell’Esercito Imperiale che, comunque, presentava dei grossi difetti soprattutto per quanto riguardava la qualità dei comandanti e la scarsezza degli ufficiali, in proporzione alla truppa[iv]


[i]  Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 144.
[ii]  Idem
[iii] I primi, di origine ungherese, e i secondi, di origine tartara e polacca, vantavano una secolare tradizione nella cavalleria leggera con compiti di esplorazione e di offensiva.
[iv] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., pp. 145-147.