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domenica 10 marzo 2024

CIna

 

Storia militare della Repubblica di Cina:

 dalle origini alle crisi degli stretti (1954-55 e 1958)

 

 Stefano Felician Beccari

 



 

 

I cambiamenti che seguirono la fine della Seconda Guerra Mondiale influenzarono particolarmente due continenti, ovvero l’Europa e l’Asia. Se la definizione del nuovo assetto politico del Vecchio Continente fu, tutto sommato, abbastanza rapida e indolore sul piano militare (se si esclude la guerra civile greca), in Asia la transizione fu diversa e ben più complicata. Come ricorda Crockatt, infatti, <<l’estensione della guerra fredda all’Asia fu, come nel caso dell’Europa, una conseguenza del mutamento nell’equilibrio di potenza provocato dalla seconda guerra mondiale[1]>>. Epicentro di questo nuovo e difficile equilibrio postbellico fu la Cina, le cui vicissitudini interne influenzarono tutta la futura definizione della geografia politica asiatica. Le dinamiche militari giocarono un ruolo determinante nella composizione di questo nuovo assetto, anche se spesso con una funzione ausiliaria o ancillare rispetto alle ben più complesse trame che le superpotenze andavano tessendo.   L’assetto postbellico, però, si dimostrò incapace di resistere alle sempre più forti spinte centrifughe che continuarono ad agitare la destabilizzazione della regione. Le superpotenze vincitrici, forti della loro influenza ideologica, ma soprattutto politica, militare ed economica, non persero tempo ad organizzare una rete di stati satellite capaci di contenere le manovre dell’avversario e, nel contempo, garantirsi una serie di posizioni strategiche potenzialmente utili per successive operazioni. Da questo domino geopolitico scaturirono una serie di divisioni artificiali di paesi i cui casi più noti sono il Vietnam (il cui Sud perirà nel 1975), la Corea, ancora oggi divisa in due ed infine il caso forse meno noto,  ovvero quello della Repubblica di Cina (in inglese Republic of China, ROC) più famosa in occidente con il nome di Taiwan o con l’appellativo della sua capitale, Taipei. Molti di questi stati, spesso creature artificiali, non esitarono a ricorrere alla forza per sistemare le inevitabili contese in cui erano coinvolti, dando origine ad una serie di conflitti, scontri ed incidenti più o meno estesi, che non contribuirono alla stabilità regionale.

In questo scenario fluido e complesso si inquadra la vicenda della piccola isola di Formosa, o Taiwan, “scoperta” dai portoghesi e così battezzata per la bellezza e la rigogliosità della sua vegetazione. Da sempre attratta nell’orbita cinese (salve le occupazioni degli “occidentali” in epoca coloniale) Taiwan soffrì – al pari dell’impero continentale – gli effetti della nascente potenza giapponese e delle ambizioni geopolitiche di Tokyo. Al termine della prima guerra sino-giapponese (1894-1895) la sconfitta del Celeste Impero aprì la strada alla conquista nipponica sia della penisola di Corea che di Taiwan. Il successivo Trattato di Shimonoseki[2] all’articolo 2 suggellava giuridicamente il passaggio della sovranità di Formosa dalla Cina al Giappone[3]. Quando iniziò la Seconda guerra mondiale, l’isola di Taiwan era sotto controllo giapponese: la fine del conflitto, però, non significò il ritorno ad un’era di pace, nonostante la cessazione dell’occupazione nipponica e la restituzione alla madrepatria cinese. I venti di guerra civile che spiravano nella Cina continentale non si erano ancora placati, ed il semplice ritiro delle unità nipponiche altro non era che la quiete prima di un’altra tempesta, destinata a placarsi solo verso la fine degli anni ‘50.

 

  1. La guerra civile cinese e la fuga di Chang Kai Shek: nasce la Repubblica di Cina

Prima di poter affrontare la storia militare della Repubblica di Cina è indispensabile tracciare brevemente i motivi che hanno comportato la nascita di questo stato. Ciò significa, inevitabilmente, riferirsi alla guerra civile cinese che ha insanguinato il paese negli anni fra il 1927 ed il 1949, e che portò alla nascita delle “due Cine” che ancora oggi conosciamo[4]. Questa divisione trae le sue origini dalla lunga guerra civile combattutasi in due round diversi e spezzati dalla Seconda guerra mondiale, al termine della quale, almeno formalmente, la Repubblica di Cina controllava tutto il paese e la neo-restituita isola di Taiwan. A capo della ROC c’era il Generalissimo Ciang Kai Shek, condottiero militare e leader del partito nazionalista Kuomintang (KMT). I lunghi anni di guerra antigiapponese, però, non avevano sopito le pesanti fratture che agitavano la società cinese, e che prontamente riemersero non appena le truppe di Tokyo tornarono in patria. La principale opposizione al Kuomintang era svolta da un piccolo partito di matrice comunista, ovvero il Partito Comunista Cinese, guidato dal giovane leader Mao Tse Tung. Entrambi i partiti disponevano non solo del tradizionale apparato politico, ma anche di milizie armate, con moltissimi membri temprati da anni di resistenza contro i giapponesi. La sfida Kuomintang-Partito Comunista dopo il 1945 sembrava facilmente destinata a risolversi a vantaggio del KMT. L’appoggio statunitense a Chiang ed alla sua fazione sembrava da solo essere risolutivo, senza considerare il consenso internazionale di cui godeva il Generalissimo ed il controllo del territorio esercitato dal KMT. Inoltre nel corso della prima fase della guerra civile i reparti del Kuomintang avevano ripetutamente fronteggiato gli avversari comunisti, tanto da costringerli ad una lunga ritirata strategica passata alla storia come “Lunga marcia”. Proprio durante questa massacrante operazione, poi mitizzata dalla storiografia di parte, emerse la figura di Mao Tse Tung quale futuro leader del Partito Comunista Cinese, oppositore del KMT.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nazionalisti e comunisti tornarono ad affrontarsi militarmente per la supremazia politica in Cina, come prima dell’invasione giapponese. I tentativi di riconciliazione, portati avanti dal Generale George Marshall, futuro autore dell’omonimo piano di ricostruzione economica, si rivelarono infruttuosi sin dal suo arrivo in Cina nell’inverno del 1945. Le varie richieste di cessate-il-fuoco venivano sistematicamente disattese dalle parti, troppo impegnate a contendersi la primazia piuttosto che accordarsi su una soluzione comune. Quando il Generale Marshall abbandonò il suo incarico, a gennaio 1947, la guerra civile in Cina era ormai riesplosa in tutta la sua interezza e ferocia. L’iniziale vantaggio del Kuomintang venne progressivamente eroso dall’avanzata delle unità comuniste, che in pochi anni riuscirono a controllare porzioni sempre maggiori del paese. Mentre il prestigio e la forza dei nazionalisti si sgretolavano, Mao e le sue unità riuscivano a liberare e controllare sempre maggiori porzioni di territorio cinese. Il 1 ottobre 1949, a Pechino, venne proclamata la nascita della nuova Repubblica Popolare Cinese (RPC), mentre Chiang Kai Shek ed i suoi seguaci, circa 2 milioni di persone, abbandonavano il continente per rifugiarsi nell’isola di Taiwan. Le poche sacche di resistenza rimaste sul continente vennero velocemente soffocate dagli uomini di Mao. Con l’arrivo di Chiang a Taiwan nasceva così la Repubblica di Cina rivale della RPC, e “unica” rappresentante della Cina fino agli anni ’70. La ritirata del KMT non significò la fine delle ostilità, ma il loro evolvere verso forme più complesse e, soprattutto, non più legate al mero piano nazionale. Così la difficile coesistenza fra le “due Cine” entrava a pieno titolo nelle complesse dinamiche della Guerra fredda. 

 


 

  1. In cerca di un equilibrio: le tensioni ROC-RPC e la nuova geopolitica del Pacifico

Sin dagli inizi le relazioni fra i due stati furono molto difficili, per molte ragioni diverse. Sul piano simbolico entrambi rivendicavano di rappresentare la “vera” Cina rispetto agli “impostori” dell’altra parte, rifiutando qualsiasi soluzione di compromesso. Sul piano politico i dissapori ideologici fra i contendenti rendevano impossibile sperare in una riconciliazione pacifica, senza contare che mentre la RPC guardava a Mosca la ROC si rifaceva all’amicizia con gli Stati Uniti. Sul piano militare la contrapposizione era ancora più netta, perché entrambi i paesi ambivano a (ri)conquistare il territorio del rivale, anche con la forza armata: date le ridotte distanze, poi, un conflitto fra i due sembrava inevitabile. Sul piano propagandistico, infine, fra le due nazioni si sprecavano le accuse reciproche, acuite anche dai risentimenti maturati durante la guerra civile. Tutti questi elementi contribuirono a rendere molto complessi i primi anni della Repubblica di Cina, cosa che spesso comportò il ricorso alla forza. Quando nel 1949 le armate di Chiang si ritirarono a Taiwan, quello che rimaneva della “Cina nazionalista” (altra dicitura usata per la ROC) era sostanzialmente l’isola di Taiwan, l’isola di Hainan (situata nel sud della Cina continentale, vicina al nord del Vietnam), le isole Pescadores ed infine alcune isole minori, più o meno vicine alla RPC. La situazione rimaneva instabile, e la sproporzione a vantaggio della RPC era evidente. I fragili equilibri post-guerra civile non erano destinati a sistemarsi rapidamente, e la ritirata di Chiang, in definitiva, altro non fu che un momento di tregua in un conflitto che ben presto riemerse anche sul piano militare. D’altro canto focolai di tensione nell’area non mancavano. Nel brevissimo periodo che intercorse fra la fondazione della RPC (1 ottobre 1949) e la guerra di Corea (25 giugno 1950) la Cina di Mao riuscì ad organizzare un paio di operazioni militari che ridimensionarono notevolmente il territorio della ROC, sconfiggendo le unità nazionaliste. Il confronto si spostava così dal piano terrestre a quello navale, caratterizzando i successivi scontri sino alla fine degli anni Cinquanta dato che caratterizzerà gli scontri fra le due parti sino alla fine degli anni Cinquanta. Escludendo un attacco diretto all’isola di Taiwan, più distante geograficamente, le unità della RPC puntarono su una strategia progressiva, focalizzandosi sulle aree di maggiore vulnerabilità dell’avversario, ancora scosso dagli effetti della ritirata. Per questo motivo il primo attacco della RPC venne portato all’isola di Hainan, una delle più estese isole cinesi, che si trova in posizione strategica per controllare il lato settentrionale del Mar Cinese Meridionale[5]. Nell’aprile del 1950[6] un assalto anfibio delle unità del People’s Liberation Army (PLA, le forze armate della RPC) segnò l’inizio del conflitto di Hainan, che durò circa un mese e si concluse con la sconfitta dei nazionalisti. Analoga sorte toccò poi ad altre isole sotto il controllo della ROC. La fallita difesa delle isole, resa ancora più complessa dalla lontananza da Taiwan, aveva dimostrato la debolezza militare delle unità del Kuomintang, cosa che accese ulteriormente le ambizioni di Pechino. Nonostante la poca preparazione del PLA, soprattutto nelle operazioni anfibie, nulla sembrava poter impedire anche la conquista di Formosa: era solo una questione di tempo. Ma mentre gli strateghi del PLA stavano progettando ulteriori attacchi ai nazionalisti, intervenne un fattore esterno che cambiò drasticamente il corso della storia.

Le ambizioni di Pechino vennero bruscamente interrotte dall’esplodere di un conflitto di tutt’altra natura, ma in cui Mao in primis era chiamato in causa. L’epicentro di questo nuovo confronto Est-Ovest si trovava nella penisola coreana, divisa artificialmente in due dalle logiche della nascente Guerra fredda. Il 25 giugno del 1950 le unità di Kim Il Sung, giovane dittatore della Corea del Nord, attraversarono il confine della rivale Corea del Sud scatenando una guerra che ebbe pesanti ripercussioni a livello mondiale. La rapidità dell’invasione e la profondità dell’offensiva in pochissimo tempo limitarono il territorio della Corea del Sud ad un piccolo perimetro intorno a Pusan, nella parte sud-orientale della penisola. Questo piccolo lembo di Asia, per secoli sconosciuta terra di conquista per gli eserciti cinesi e giapponesi, diventava la prima vera crisi militare della neonata Guerra fredda. Il conflitto coreano fu un vero e proprio choc per l’amministrazione Truman, e, più in generale, rappresentò un punto di svolta nei rapporti fra le superpotenze, poiché <<introdusse nella guerra fredda un elemento di imponderabilità che non vi era mai stato prima. L’attacco a sorpresa doveva rendere la guerra breve; il suo prolungamento richiese improvvisazione da entrambi gli schieramenti, e nessuno dei due vi era adeguatamente preparato[7]>>.

Paradossalmente il conflitto coreano fu la salvezza di Taiwan e del governo di Chiang Kai Shek[8], che fino a quel momento non era particolarmente stimato dal Dipartimento di Stato americano. Le accuse di malgoverno, corruzione e la perdita dell’intera Cina continentale non giocavano a favore del Generalissimo, in cui, inizialmente, gli Stati Uniti non riponevano molta fiducia. La guerra di Corea, invece, rimescolò le carte. Il comunismo, attivo ideologicamente e aggressivo militarmente, doveva essere fermato ad ogni costo, e per evitare che il conflitto coreano si espandesse verso sud gli Stati Uniti decisero di proteggere il governo di Chiang Kai Shek a Taiwan[9]. L’amministrazione statunitense, quindi, cambiò radicalmente il suo punto di vista. Il Dipartimento di Stato Americano così ricorda quella svolta: <<il Presidente Truman agli inizi del 1950 aveva dichiarato che non avrebbe voluto difendere i nazionalisti [di Taiwan] da un attacco comunista, ma dopo lo scoppio delle ostilità in Corea ordinò alla Settima Flotta di prendere posizione nello Stretto di Taiwan per evitare l’allargarsi del conflitto militare nella regione[10]>>. La Settima Flotta statunitense venne così inviata nelle acque di Formosa, mentre intanto, in Corea, il Generale MacArthur si apprestava a creare un contingente delle Nazioni Unite, avvallato dal celebre voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’arrivo delle unità della US Navy, il 27 giugno 1950[11], fece naufragare i desideri di riconquista di Mao. Man mano che il conflitto in Corea proseguiva, poi, l’attenzione di Pechino si spostava sempre di più allo scacchiere del nord-est, fino a che i “volontari” cinesi mandati ad aiutare i “fratelli” della Corea del Nord non giunsero a scontrarsi direttamente con le truppe dell’ONU. La strategia della RPC, quindi, si concentrò nel Nord, tralasciando, per il momento, la questione di Taiwan. La fine del conflitto coreano (1953) comportò un ripensamento radicale della strategia americana in Asia, e, quindi, una sorta di piccola “rivoluzione geostrategica” che non mancò di influenzare anche Taiwan. La logica dell’arrendevolezza o dell’incauto disinteresse si era rivelata una drammatica leggerezza per Washington; era quindi necessario riprendere i rapporti con gli alleati, solidificando quelli esistenti e puntellando i regimi amici per evitare ulteriori “contagi” del comunismo nella regione (si pensi al caso dell’Indocina francese). Taiwan divenne così parte di quella serie di stati filoccidentali importanti per esercitare il containment del comunismo. Tuttavia questo “ombrello” americano non impedì ulteriori scontri con la Cina continentale, che portarono alle famose “crisi degli stretti” degli anni ’50.

 

  1. La rottura dell’equilibrio: le due crisi dello stretto

La fine della Guerra di Corea non portò il complesso scenario asiatico ad una definitiva sistemazione. L’onda lunga della decolonizzazione aprì ulteriori focolai di crisi, come l’Indonesia, la Malesia o l’Indocina, che si sommarono alle rivalità già presenti nella regione. La situazione di Taiwan alla fine del conflitto coreano era nettamente migliore rispetto al 1950, se non altro perché ormai era inserita stabilmente nell’ambito dei paesi filoamericani[12]. Il cauto riavvicinamento fra Taipei e Washington, però, non impedì il sorgere di due delicate crisi politico-militari, note con il nome di “crisi dello stretto di Taiwan”, che, in diverso modo, rischiarono di scatenare un nuovo conflitto mondiale in Asia. Questi due incidenti, avvenuti nel 1954-1955 e nel 1958 rappresentarono due ulteriori passaggi complicati per la storia di Taiwan, e furono l’ultima seria minaccia alla sicurezza nazionale dell’isola, suggellando de facto l’esistenza di “due Cine” e dimostrando l’impossibilità di ricostituire manu militari una sola Cina. 

Le “Crisi dello stretto”, che ancora oggi rappresentano un passaggio dibattuto nella complessa relazione fra Pechino e Taipei, non possono essere confinate al solo piano bilaterale. Questa serie di scaramucce armate, di intensità variabile, riguardarono non solamente le due Cine, ma anche l’URSS e gli Stati Uniti. Le montanti tensioni nello stretto, periodicamente allentate da abili mosse e tatticismi politici delle varie diplomazie coinvolte, ebbero anche dei profili militari che, in definitiva, rischiarono di far precipitare gli Stati Uniti e la Cina popolare in una guerra aperta, con possibili esiti atomici. Infine, sul piano geopolitico, le due crisi segnarono l’inizio di una nuova fase degli equilibri asiatici, mentre l’interesse della Cina popolare, e di Mao in particolare, cominciava ad orientarsi verso questioni politiche interne di natura ben più urgente che la (ri)conquista di Taiwan o delle piccole isole di Quemoy e Matsu, veri e propri casi bellorum delle crisi del 1954 e del 1958.

La prima crisi dello Stretto (1954-1955). Come evidente, i prodromi della contesa risalivano all’instabile stuazione che era andata instaurandosi fra Pechino e Taipei. La Guerra di Corea e il pattugliamento della Settima Flotta non avevano sanato la situazione, ma semplicemente procrastinato il riemergere di successive tensioni. A questo, poi, andava sommato il territorio che era rimasto sotto controllo di Taiwan: a parte l’isola principale, Formosa, il KMT controllava le isole Dachen, le isole Yijiangshan ed infine Quemoy (o Kinmen) e Matsu, oltre alle Pescadores (o Penghu). Se le ultime e Formosa erano sufficientemente distanti dalla Cina continentale, questo non era il caso per le restanti quattro, troppo vicine alle coste della RPC per non far ipotizzare – come già successo con Hainan – un possibile blitz delle unità del PLA. A questa vicinanza geografica (che per isole come Quemoy e Matsu è solo di alcune miglia marine dal continente) si sommava l’atteggiamento di Chiang Kai Shek, che non mascherava le sue ambizioni di riconquistare l’intera Cina continentale. A Washington questa retorica non veniva considerata in termini realisti, ma più come una questione di propaganda. Ad ogni modo il neoeletto Presidente Eisenhower, nel febbraio del 1953, decise di ritirare la Settima Flotta dalle acque antistanti Taiwan, senza però cedere alle pressioni dei “falchi” che volevano favorire i progetti di Chiang Kai Shek. Dato il ritiro statunitense, ad agosto 1954 il KMT cominciò a rafforzare le proprie guarnigioni su Quemoy e Matsu, attirandosi ben presto le critiche di Pechino, preoccupata dall’attivismo dei nazionalisti e dalla fine dell’indiretta protezione americana. A questa scelta di Taiwan, poi, si aggiunse il dibattito sull’istituzione dell’allenza South East Asia Treaty Organization (SEATO), che venne creata a Manila proprio nel 1954. Questa alleanza di paesi filoccidentali per Pechino (e non solo) costituiva una minaccia indiretta. Dopo gli appelli propagandistici per “liberare Taiwan”, e nonostante gli avvertimenti di Washington, il 3 settembre 1954 le unità di Pechino cominciarono un bombardamento d’artiglieria che colpì Quemoy, causando anche la morte di alcuni ufficiali statunitensi. La crisi era cominciata. Washington si affrettò ad inviare nuovamente nell’area la Settima Flotta, mentre il Pentagono cominciò a suggerire, fra le ipotesi di risposta, anche delle possibili opzioni nucleari. Una questione prettamente bilaterale stava degenerando in una crisi mondiale, o, per ricorrere ad una lucida analisi di Kissinger, <<la crisi per un territorio che nessuno voleva era diventata globale[13]>>. Era insomma nato un pericoloso casus belli cui nessuno, però, voleva dare troppo seguito. Se sul piano militare gli effetti furono limitati, un ben altro impatto vi fu sul piano diplomatico. L’amministrazione Eisehnower era riluttante ad intervenire militarmente a fianco di Taiwan[14]; venne così decisa la negoziazione di un trattato bilaterale fra Washington e Taipei noto con il nome di Mutual Defense Treaty Between the United States and the Republic of China. Questo breve trattato, firmato il 2 dicembre 1954 ed entrato in vigore il 3 marzo del 1955, costituì la miglior risposta che Washington poteva offrire al piccolo alleato asiatico, e rappresentò un punto di compromesso fra chi vagheggiava un attacco nazionalista alla RPC e chi invece preferiva abbandonare in toto Chiang Kai Shek. Il problema principale risiedeva nell’atteggiamento statunitense: sarebbe stato il caso di farsi coinvolgere in una guerra aperta per le piccole isole della ROC, la cui importanza era, per lo più, simbolica? Eisenhower fece risolvere questo contrasto alle generiche formulazioni del trattato, che, fin dal preambolo, ribadivano ampiamente la funzione difensiva dello stesso, il richiamo ai valori delle Nazioni Unite e la necessità di addivenire ad una situazione di pace. Il cuore del problema, comunque, risiedeva nei limiti geografici del trattato, ovvero quali aree avrebbero potuto determinare l’intervento americano a fianco della ROC. Queste previsioni, contenute agli articoli 5 e 6, erano alquanto vaghe, e facevano esplicito riferimento, per la ROC, solamente all’isola di Taiwan ed alle Pescadores. Era un chiaro messaggio che Washington non voleva cominciare un conflitto contro la Cina comunista per dei piccoli (e strategicamente poco significanti) affioramenti marini. Allo stesso tempo, però, non venivano categoricamente escluse le piccole isole della ROC: come ricorda Matsumoto <<[il trattato] era evidentemente un compromesso fra Washington e Taipei. Questo indicava che la difesa delle isole non era completamente esclusa, e che gli Stati Uniti potevano difenderle a seconda delle circostanze. In secondo luogo, il testo enfatizzava che lo scopo del trattato era difensivo, non offensivo[15]>>. Il trattato, ad ogni modo, segnava la fine di certe ambiguità fra le due capitali: Washington, seppur a malincuore e con alcuni distinguo, aveva scelto di rafforzare il suo legame con il KMT. Questa mossa, inevitabilmente, indispettì Pechino, che a gennaio del 1955 riprese le ostilità contro Taiwan, ma con altri obiettivi. Invece che insistere su Quemoy e Matsu, le unità del PLA rivolsero la loro attenzione a due piccole isole situate più a nord, ovvero le Dachen e l’isola di Yijiangshan. Quest’utlima fu assalita dalle unità del PLA il 6 gennaio del 1955, e dopo dodici giorni di combattimenti le unità della ROC dovettero ritirarsi, perdendo ulteriori posizioni a vantaggio della RPC. Nell’attesa che entrasse in vigore il trattato bilaterale, e per dare un segnale a Pechino, il Congresso statunitense votò quasi all’unanimità la Formosa Resolution (29 gennaio 1955) con la quale il Presidente americano era autorizzato ad usare ogni mezzo necessario per difendere la ROC dalla RPC. Gli Stati Uniti, però, si limitarono ad utilizzare la Settima Flotta per far evacuare le isole colpite, senza reagire militarmente, nè contrattaccare la Cina comunista, né tantomeno cercando di riconquistare le isole perse. Nonostante questo atteggiamento passivo, i toni non erano destinati a spegnersi. Le minacce si fecero ancora più serie quando Eisenhower paventò un possibile utilizzo di armi nucleari contro la Cina continentale. Mao, del canto suo, si vantava di poter resistere alle armi atomiche, data la popolazione e l’estensione della RPC. Anche se colpiti nuclearmente i cinesi – secondo le parole del leader - avrebbero saputo resistere e poi contrattaccare. Le reazioni a questa possibile opzione furono immediate. L’Unione Sovietica si dimostrò particolarmente restia a rispondere nuclearmente agli Stati Uniti, mentre i paesi della NATO, con la Gran Bretagna in testa, espressero la loro completa disapprovazione per un possibile attacco nucleare. La situazione ormai era molto tesa, ed era fondamentale abbassare i toni. L’occasione fu la Conferenza di Bandung dei paesi non allineati: in quella sede, il 23 aprile 1955, il primo ministro Zhou Enlai dichiarò pubblicamente che la RPC era pronta a negoziare con gli americani, e con il primo maggio la crisi era cessata. Si trattava comunque di una mera tregua, perché le tensioni nell’area rimanevano ai massimi livelli. Non fu un caso, infatti, che a distanza di meno di tre anni emerse una nuova crisi fra la Cina e Taiwan. Il primo round si era concluso con un’altra situazione di stallo, ben presto destinata a ricadere nello scontro aperto.  

La Seconda Crisi dello Stretto (1958). La pace nelle acque cinesi durò pochi anni, perché nel 1958 emerse nuovamente una serie di scontri armati, passati alla storia come “Seconda Crisi dello Stretto”. La vicinanza delle date, però, non deve trarre in inganno. Pochi anni di differenza non avevano influito sul contesto geopolitico e militare, ma, piuttosto, avevano avuto un notevole impatto su quello politico, ed in particolare sulle relazioni bilaterali fra Mosca e Pechino. Oltre a ciò non vanno dimenticati i fattori interni alla Cina e, infine, l’atteggiamento che Washington aveva tenuto nei confronti di Pechino, durante i colloqui (riservati) a livello diplomatico. Aggiungendo questi tre ultimi elementi alle perduranti frizioni con il KMT, si venne a creare una serie di condizioni che portò, nel 1958, ad una ulteriore serie di scontri e poi ad una successiva fase di stasi. Sul piano politico due furono in particolare gli eventi che indirettamente contribuirono alla Seconda Crisi dello Stretto, e si consumarono principalmente a Mosca fra il 1956 ed il 1957, nell’ambito dei complessi equilibri della galassia comunista. La successione a Stalin, deceduto nel 1953, aprì la strada all’ascesa di Nikita Khruscev. Costui, ben conscio dei limiti dell’URSS e desideroso di modernizzare il paese, nell’ambito del XX congresso del Partito Comunista Sovietico a Mosca (1956), criticò pesantemente l’operato di Stalin denunciandone alcuni aspetti dell’operato ed il culto della personalità. Questa forma di “revisionismo”, subito contestata da Pechino, venne ulteriormente criticata dallo stesso Mao durante la successiva conferenza dei Partiti comunisti del 1957, a Mosca. La famosa “coesistenza pacifica” di Khruscev, ovvero il fatto che due sistemi (capitalista e comunista) potessero, appunto, “convivere” fu aspramente accusata da Mao, che propendeva, invece, per una posizione più “rivoluzionaria” e meno incline al compromesso con l’avversario. Da qui – almeno sul piano ideologico – è possibile tracciare l’inizio dello sfilacciamento dei rapporti fra Mosca e Pechino che poi condurranno, nel 1960, alla fine del trattato di amicizia fra i due paesi.

Sul piano interno, poi, il 1958 fu un anno cruciale per la RPC, ovvero coincise con il lancio del “Grande balzo in avanti”, cioè una grande riforma interna della società e dell’economia cinese. Complementare a questo ambizioso progetto vi era una massiccia propaganda e mobilitazione degli apparati di partito: in questo contesto si inserì anche una vigorosa retorica diretta a sostenere la “liberazione di Taiwan”. Le intenzioni di questo slogan così aggressivo, però, erano più dirette alla mobilitazione delle masse della RPC che all’effettiva cacciata di quello che restava del KMT. Analizzata da questo punto di vista, quindi, la Seconda crisi presenta delle implicazioni ideologico-politiche di natura interna che non possono essere trascurate, e che ben permettono di comprendere il motivo per cui questo secondo confronto sia finito in modo ben diverso dal primo. 

Il terzo elemento prodromico alla crisi fu la difficoltà nella gestione delle relazioni diplomatiche fra Washington e Pechino. Queste ultime, riprese dopo il 1954 in via riservata a Varsavia, si erano sempre mantenute su livelli non particolarmente alti. Pechino intendeva far progredire il livello delle negoziazioni, mentre gli Stati Uniti non ne sentivano la necessità.

La Seconda Crisi dello Stretto emerse a luglio del 1958, con la RPC che cercò di innalzare i toni nella regione per protestare – questa era la motivazione formale – contro l’intervento statunitense in Libano. L’idea di un’azione militare, per quanto dimostrativa, non emerse nemmeno durante la visita di Kruschev a Pechino (31 luglio – 3 agosto 1958), segno tangibile della lontananza che si stava creando fra i due paesi. Dopo un massiccio concentramento di unità a ridosso della costa, segretamente monitorato dagli americani, il 23 agosto del 1958 l’artiglieria del PLA scatenò un massiccio bombardamento su Quemoy e Matsu, dando il via alla Seconda Crisi. I bombardamenti, proseguirono con andamenti alterni, a volte fermandosi anche per alcune settimane: era chiaro che l’intenzione di Mao non era tanto scatenare un conflitto o riconquistare Taiwan quanto, piuttosto, una strategia più sottile e che sfruttava scontri militari di piccola portata per conseguire risultati politici. Tralasciando il livello della mobilitazione interna, sul piano internazionale lo scopo di Mao era quello di vedere fino a dove gli americani volevano o potevano spingersi nella difesa di Taiwan e, nel contempo, dimostrare una certa autonomia dall’Unione Sovietica. La reazione di Eisenhower fu di rimandare nello stretto di Taiwan la Settima Flotta e di rifornire la ROC di ulteriori armamenti, anche avanzati, oltre a dichiarare che gli Stati Uniti non si sarebbero ritirati nemmeno di fronte ad un’aggressione. Queste parole, e la presenza militare americana allarmarono Mao, che, per precauzione, aveva comunque vietato alle sue unità di fare fuoco su obiettivi americani. Il 5 settembre 1958 fu nuovamente Zhou Enlai ad aprire alla distensione, offrendo agli Stati Uniti di ricominciare la negoziazione con degli ambasciatori. Era ormai il prodromo della fine, che sopraggiunse un mese dopo, il 6 ottobre 1958, con la dichiarazione del Ministro della Difesa della RPC, Peng Dehuai, di trovare una soluzione pacifica per l’isola di Taiwan. Era insomma chiaro a tutti che lo scontro non aveva finalità militari, ma piuttosto rappresentava un tassello di una complessa partita che faceva perno su Pechino, e che riguardava tanto il rapporto di quest’ultima con Mosca che con Washington. Mentre la crisi andava scemando vi fu un tardivo intervento sovietico, <<l’unica parte di questa relazione triangolare che non comprese cosa stava avvenendo[16]>>. Schiacciato fra la necessità di evitare a tutti i costi di inserirsi in una contesa fra Cina e Stati Uniti, ma desideroso nel contempo di mostrare – quantomeno di facciata – la volontà di tutelare l’(instabile) alleato cinese, Khruscev a settembre indirizzò due lettere ad Eisenhower mentre la crisi ormai si stava spegnendo. Nella prima veniva ribadito che un attacco alla Cina era da considerarsi come un attacco all’URSS, mentre nella seconda si ipotizzava addirittura l’utilizzo di armi nucleari. L’iniziativa, però, giungeva fuori tempo massimo, e, in definitiva, non ebbe alcuna utilità. La crisi del 1958 si spense velocemente com’era nata, e chiuse quell’onda lunga di eventi che portarono all’assestamento, almeno de facto, di “due Cine”. Tutte le parti, a vario titolo, reclamavano di essere vittoriose.

 

  1. Gli effetti delle crisi e l’impatto su Taiwan

A distanza di oltre cinquant’anni i giudizi sulle Crisi dello Stretto sono ancora molto differenti, e continuano a risentire anche delle diverse posizioni da cui sono espressi i giudizi. Cercando – per quanto possibile – di confinare i risultati al piano geopolitico e militare, è possibile trarre alcuni insegnamenti da tutta la vicenda. Le due crisi non vanno considerate come episodi a sé, ma costituiscono il risultato, seppur indiretto, dei delicati equilibri post-guerra civile cinese. La cacciata dei nazionalisti a Taiwan aprì sicuramente la nuova fase delle “due Cine”, ma nel contempo non sopì quelle tensioni già emerse nella guerra sul continente. In quest’ottica, quindi, si potrebbero vedere gli incidenti degli stretti come una sorta di “scosse di assestamento” che hanno seguito l’evento sismico principale, cioè la vittoria di Mao. A livello generale, poi, va ricordato che se la contrapposizione RPC- ROC ha costituito la base dei due contenziosi, in realtà il confronto è stato (anche) giocato su piani nettamente più elevati, ovvero quello delle superpotenze. Stati Uniti e URSS sono stati attori di primo piano in tutta questa vicenda, e, anzi, hanno contribuito alla creazione dello status quo che ancora oggi persiste. La chiusura della fase armata, però, non fu priva di conseguenze rilevanti, soprattutto per la Cina comunista. La seconda crisi, in particolare, segnò l’inizio della fine dell’amicizia sino-sovietica (conclusasi nel 1960) e la spaccatura del monolite comunista, e coincise con una maggior attenzione del Partito Comunista Cinese verso tematiche di natura interna, come il “Grande balzo in avanti” o la successiva “Rivoluzione culturale” del 1966. Ad ogni modo, però, Mao riuscì a ricavare prestigio e visibilità da questi scontri, cosa che gli fu utile anche sul piano della propaganda. Gli Stati Uniti riuscirono finalmente a contenere non solo l’avanzata comunista, ma anche le intemperanze di Chiang Kai Shek, con il risultato che Taiwan rimase “l’unica Cina” sino agli anni Settanta, mentre le “due Cine” cominciarono a coesistere seguendo binari molto differenti.

Tutti questi effetti ebbero delle dirette ripercussioni sulla storia militare della ROC, che probabilmente non sarebbe esistita se non vi fossero stati due eventi determinanti, ovvero la Guerra di Corea e il Trattato con gli Stati Uniti. Le sole forze del KMT, infatti, si dimostrarono insufficienti quando si trattò di resistere agli attacchi della Cina continentale: pezzo dopo pezzo le unità del PLA, nonostante le loro non sviluppate capacità anfibie, sottrassero notevoli porzioni di territorio alla ROC. Questo processo, probabilmente, avrebbe portato all’annichilimento di Taiwan, se non fosse stato per l’irrompere della Guerra di Corea. Questo conflitto, cui non presero parte unità del KMT, si rivelò invece fondamentale per cambiare gli assetti politico-militari del paese. Da nazione amica degli Stati Uniti ma considerata poco utile strategicamente, Taiwan divenne un alleato importante che cominciò a beneficiare anche della tecnologia militare americana, soprattutto velivoli e missili avanzati. Il 1954, poi, rappresentò il vero discrimen sul piano politico-militare. Resisi conto che la strategia del Generalissimo, ovvero la riconquista della Cina continentale, poteva giungere ad effetti troppo destabilizzanti nella regione, gli Stati Uniti decisero di “imbrigliare” il piccolo alleato con il Trattato di mutua difesa, che segnò la definitiva “salvezza” della ROC. Non furono poche le divergenze fra Taipei e Washington, ma, in definitiva, Taiwan riuscì ad ottenere l’obiettivo così tanto agognato: la certezza dell’indipendenza nazionale garantita dalle armi americane. Questa garanzia, comunque, ebbe un costo. Chiang Kai Shek, guadagnando l’indipendenza perse molto spazio di manovra in politica estera, e vide tramontare i suoi desideri di riconquista della Cina continentale e dei territori che erano stati persi fra il 1950 ed il 1955. Per di più, un comunicato comune del 23 ottobre 1958, co-firmato con il governo americano, impegnò il KMT a risolvere politicamente i problemi con la Cina continentale evitando di ricorrere all’uso della forza. I costi che il governo di Taipei aveva dovuto sopportare erano stati pesanti. In poco più di dieci anni di esistenza Taiwan aveva perso diverse parti del suo territorio e aveva dovuto subire le imposizioni del più forte alleato americano: in cambio, però, era riuscita a sopravvivere alla soverchiante potenza della RPC, ed ora, forte della protezione statunitense, poteva finalmente concentrarsi su quelle riforme politiche, sociali ed economiche di cui il paese aveva bisogno. La dimensione militare dell’iniziale confronto fra RPC e Taiwan, per quanto limitata e spesso strumentale ad altre logiche, ebbe un ruolo peculiare nella formazione dell’identità di quest’ultimo paese e, in definitiva, nella sua storia.   

 

 



[1] Crockatt R., Cinquant’anni di Guerra fredda, Salerno Editrice, 1997, p. 154.

[2] Encyclopaedia Britannica, Treaty of Shimonoseki, http://www.britannica.com/EBchecked/topic/540685/Treaty-of-Shimonoseki, consultato il 20 aprile 2013.

[3] Treaty of Shimonoseki, http://www.taiwandocuments.org/shimonoseki01.htm, consultato il 28 aprile 2013.

[4] La guerra civile in Cina, iniziata nel 1927 e sospesa durante la guerra contro i giapponesi, ricominciò nel 1946, terminando nel 1949 con la vittoria della fazione comunista di Mao Zedong rispetto a quella nazionalista del partito Kuomintang di Chang Kai Shek.

 

[5] La scelta di Hainan si rivelò strategica fin dall’inizio, ed  oggi, forse, lo è ancora di più: come nota l’Annual Report to Congress: Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China 2012 del US Office of the Secretariat of Defense,  a pagina 22, <<the PLA Navy [People’s Liberation Army Navy, ovvero la marina militare cinese – N.d.A] has now completed construction of a major naval base at Yalong, on the southernmost tip of Hainan Island. The base is large enough to accommodate a mix of nuclear-powered attack and ballistic-missile submarines and advanced surface combatants, including aircraft carriers. Submarine tunnel facilities at the base could also enable deployments from this facility with reduced risk of detection>>. Testo completo su http://www.defense.gov/pubs/pdfs/2012_CMPR_Final.pdf, consultato il 2 aprile 2013.

[6] Cfr. Vadney T., The world since 1945, Penguin, 1999.  

[7] Mastny V., Stalin, il dittatore insicuro, TEA, p. 128.

[8] Yi Shen C., Korean War Saved Taiwan from Chinese Aggression, Taipei Times, 25 giugno 2010, http://worldmeets.us/taipeitimes000014.shtml#axzz2PJBVAKWq, consultato il 23 aprile 2013.

[9] <<Truman's desire to prevent the Korean conflict from spreading south led to the U.S. policy of protecting the Chiang Kai-shek government on Taiwan>>, US Department of State, Office of the Historian, Milestones 1945-1952, http://history.state.gov/milestones/1945-1952/ChineseRev, consultato il 15 aprile 2013.

[10] <<President Harry Truman had proclaimed in early 1950 that he would not defend the Nationalists from a Communist attack, but after the outbreak of hostilities in Korea he moved the U.S. Seventh Fleet into the Taiwan Strait to discourage the spread of military conflict in the region>> . La reazione della Cina non fu particolarmente felice, come nota lo stesso Dipartimento di stato: <<the PRC considered this U.S. action as interference in China’s internal affairs>>. Tratto da US Department of State, Office of the Historian, Milestones 1945-1952, http://history.state.gov/milestones/1945-1952/KoreanWar2, consultato il 2 aprile 2013.

[11] http://www.taipeitimes.com/News/editorials/archives/2010/06/30/2003476734/1

[12] La cronologia delle relazioni sino-americane si trova su US Department of State, Office of the Historian, Chronology of US-China relations, 1784-2000, http://history.state.gov/countries/issues/china-us-relations, consultato il 20 aprile 2013.

[13] Kissinger H., On China, Penguin, 2011, p. 154.

[14] Kazin M. et alii, “Korean War and the Cold War”, in The Princeton Encyclopedia of American Political History, Princeton, 2009, p. 448.

[15] <<This was evidently a compromise between Washington and Taipei. This suggested that the  defense of the offshore islands was not completely abandoned, and that the United States might defend these islands depending on the circumstances. Second, the statement emphasized that the  purpose of the treaty was defensive, and not offensive>>, Matsumoto H., The First Taiwan Strait Crisis and China’s “Border” Dispute Around Taiwan, p. 89, su http://src-h.slav.hokudai.ac.jp/publictn/eurasia_border_review/Vol3SI/matsumoto.pdf, consultato il 10 aprile 2013.

[16] Kissinger H., op. cit., p. 175.

giovedì 29 febbraio 2024

Albania 1943

 

Gen. Massimo Coltrinari,

Albania. Dalla caduta del Fascismo al Comando Italiano truppe alla Montagna. Il caso Pistoia.

 

 

L’Albania fu annessa al Regno d’Italia il 12 aprile 1939. Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, Imperatore d’Etiopia, era anche Re d’Albania. Governava questo suo regno tramite un Luogotenente ed il Luogotenente risiedeva a Tirana. L’Albania rapidamente fu dotata di un apparato statale ad immagine e somiglianza di quello italiano ed in breve si può die che il Governo di allora, con il suo capo, Benito Mussolini, aspirava a dimostrare che l’Albania era, o tendeva ad essere il nuovo modello di Stato che il fascismo, sia come movimento che come regime, presentava all’Europa, alla nuova Europa che si andava costituendo.

 

Fino all’ottobre 1940 gli Albanesi, sia come classe dirigente che come popolo, mostrarono una adesione  ed un consenso straordinario al fascismo ed all’Italia: per la prima volta nella loro storia recente erano, o si sentivano, partecipi della storia d’Europa. Nei loro calcoli era chiaro che, per un po’ di indipendenza avevano trovato un patner che poteva non solo sviluppare economicamente l’Albania, ma poteva appoggiarla nelle sue aspirazioni, sia culturali, sia economiche, sia politiche. Il movimento nazionalista albanese non faceva mistero, grazie all’Italia, di pensare che si potevano annettere tutte quelle regioni, abitate da albanesi, che erano fuori dai confini dell’Albania (del 1939). Si voleva annettere il Kosovo, parte della Macedonia nella regione intorno a Monastir e Tetovo e soprattutto la Ciamuria greca. In pratica si desiderava la realizzazione della grande Albania. Il consenso, quindi, era basato sul fatto che si considerava l’Italia una delle potenze europee e mondiali, in grado di assecondare e sostenere le mire del nazionalismo albanese.

 

Questo consenso venne meno e molte simpatie si impallidirono con la campagna di Grecia . Dichiarata il 28 ottobre 1940 la guerra alla Grecia, ben presto gli Albanesi toccarono con mano che L’Italia, come potenza militare non era di primo ordine. In breve la guerra non solo non portava all’Albania la Ciamuria, ma era così disastrosa che veniva combattuta , mercè la controffensiva greca, nel territorio albanese. Significativo al riguardo l’alto numero di diserzioni di soldati albanesi nei giorni di novembre e dicembre 1941, oltre alla pessima prova data dalle unità albanesi inserite nello schieramento italiano. Anche da parte italiana si prendeva atto che sugli albanesi non ci si poteva fare conto.

 

La conclusione della campagna di Grecia, nell’aprile 1941, non rialza, agli occhi degli albanesi,il prestigio italiano. Si constata e si crede che la vittoria è frutto dell’intervento tedesco, e la Germania è vista sempre più come la potenza leader dell’Asse. Ed è ad essa che ci si deve rivolgere  per avere vantaggi e sostegni per i propri progetti. Nel momento in cui il Kosovo viene annesso all’Albania, cioè al Regno d’Albania e quindi all’Italia, nella fase della spartizione della Jugoslavia, i maggiorenti albanesi concludono che questo è solo grazie ai buoni uffici della Germania. E’ la Germania padrona della situazione, come risulta evidente dal fatto che la Ciamuria, per il possesso della quale l’Italia, almeno nella propaganda, aveva attaccato la Grecia, rimane alla Grecia, cioè sotto amministrazione militare tedesca.

 

Dal 1914 a tutto il 1942 i rapporti italo-albanesi sono stabili, se non idilliaci. Non vi è una ribellione armata, ma via via che la guerra si prolunga, si attende di comprendere chi sarà il vero vincitore. E’ significativo che solo all’inizio del 1943, dopo Stalingrado ed El Alamein si cominciano a registrare i primi atti d ribellione, anche se non si può parlare in nessun caso di resistenza, come invece è in atto nella vicina Jugoslavia e in Grecia. Gli atti ribellistici via via si intensificano ma occorre arrivare al 10 luglio 1943 per registrare la creazione dei primi due battaglioni dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese, sintesi armata della opposizione, composta da comunisti, nazionalisti, zoghisti e monarchici all’Italia. Con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 la ribellione si estende e l’Albania passa sotto  controllo militare, ma il movimento di resistenza albanese non desta ancora preoccupazioni. A titolo precauzionale, nella primavera del 1943, era stata assorbita nell’Arma dei Carabinieri la Gendarmeria Albanese, che era stato

 

Come ha già brillantemente illustrato il gen. Marsibilio nella sua relazione, in Albania ha sede il Comando Gruppo Armate Est, retto dal generale Rosi, che ha alle dipendenze la 9a Armata, composta dal XXV Corpo d’Armata, stanziano nel centro-nord dell’Albania, dal IV Corpo d’Armata, stanziano nel su sul confine greco, e dal XIV Corpo d’Armata, stanziato in Montenegro, regione questa che era integrante, militarmente, dell’Albania.

 

Alla notizia della caduta del fascismo tutta l’impalcatura creata dal Fascismo crolla e rimane solo la struttura militare, imperniata sul Comando gruppo Armate Est.

 

I 45 giorni del governo Badoglio vengono vissuti in Albania nella più completa incertezza, tutti in attesa, in un futuro sempre più indecifrabile, degli eventi.

 

Questi precipitano quanto, in modo imprevisto ed inatteso l’annuncio della firma dell’Armistizio tra l’Italia e le Potenze Alleate raggiunse Tirana e l’Albania la sera dell’8 settembre, via Radio Roma.

 

Il Comando Gruppo Armate Est, ed il suo comandante gen. Rosi, uscirono subito di scena in quanto un ordine di SuperEsercito lo sciolse proprio la sera dell’8 settembre. Rimase attivo per un paio di giorni il Comando della 9a Armata, al comando del gen. Dalmazzo. I tedeschi, con opera sopraffina di lusinghe ed inganno in breve i resero padroni di tutti i punti di comando nodali e già l’11 mattina si poteva dire che il Comando dell’Armata era esautorato. I Tedeschi imposero al gen. Dalmazzo la diramazione di ordini che, nel giro di pochi giorni, disarticolò tutto il dispositivo militare italiano. Vari reparti, ed unità addirittura si misero in marcia, su ordine, per raggiungere le stazioni ferroviarie in Bulgaria, con la promessa di essere rimpatriati; in realtà furono tutti internati in Germania e nei campi di concentramento tedeschi in Polonia.

 

Delle sei divisioni presenti sul territorio, la “Puglie”, l “Arezzo”, la “Firenze”, la “Parma”, la “Perugia”, e la “Brennero” tutte, tranne la “Perugia” ed in parte la “Firenze” persero in poche ore la loro capacità operativa.

La “Puglie” che controllava il Kosovo, composta dal 65% da albanesi, si disarticolò per la diserzione in massa dell’elemento albanese, che uccise anche molti ufficiali italiani e passa in blocco ai Tedeschi. “L’Arezzo”, che controlla il Corciano, sarà quasi tutta catturata dopo l’armistizio ed avviata ai campi di concentramento tedeschi. La “Firenze”, stanziata nel Dibrano si mette in marcia verso il mare con l’intento di raggiungere i porti ed imbarcarsi; si scontra con i Tedeschi a Kruja il 22-23 settembre 1943 ed impossibilitata a proseguire, raggiunge le forze partigiane in montagna. Il suo comandante, gen. Azzi, prenderà il comando del Comando Italiano truppe alla Montagna, costituito il 14 settembre dal Ten. Col. Barbi Cinti, a Peza, mentre il suo vice, Gen. Gino Piccini, organizzerà lo Stato Maggiore. Piccini rimarrà in Albania in uniforme ed armato fino al 16 agosto 1945, data del suo rimpatrio, unica autorità militare riconosciuta dopo il rimpatrio del gen. Azzi. Le vicende della “Firenze” sono le vicende dei soldati toscani e pistoiesi in Albania, essendo questa divisione di prevalente reclutamento dell’Alta toscana, vicende che qui non si ha spazio di narrare.[1]

La “Parma” che doveva proteggere Valona si disintegra in 48 ore in virtù dell’azione tedesca, mentre la “Brennero”, valente unità motorizzata, sarà dai tedeschi, dopo varie vicissitudini rimpatriata, prima a Trieste, poi a Venezia nella speranza di poterla incorporare nelle proprie fila. Molti soldati della “Brennero” giunti in Italia o si daranno alla macchia o saranno inviati in Germania. La “Perugia” controllava la zona sud dell’Albania e la sua vicenda presenta molti interrogativi. Raggiunta da Argirocastro dopo una marcia tra difficoltà di ogni sorta, l’area ed il Porto di santi Quaranta, o Porto Edda come si chiamava allora, riesce a prendere posizione e ad attestarsi a difesa. Sono oltre 10.000 uomini in armi in grado di fronteggiare ogni minaccia tedesca. Riesce a prendere contatto sia con i Comandi a Cefalonia sia con il Comando Supremo a Brindisi; manda anche un suo Ufficiale che aggiorna le autorità italiane della situazione nel sud dell’Albania. Questo ufficiale rientrerà in Albania con radio, codici di trasmissione ed ordini. E sarà fucilato per primo dai Tedeschi al momento della cattura. La Divisione riesce ad organizzare trasporti da Santi Quaranta a Brindisi – Otranto ogni notte tanto che oltre 8000 soldati, per lo più feriti ed ammalati, rientrano in patria. Il 26 ottobre, caduta Cefalonia e Corfù, la “Perugia” respinge un attacco tedesco, ed in armi, con tutti i suoi uomini, tiene le posizioni. Un altro attacco viene respinto il 30 settembre. Poi arriva l’ordine di evacuare Santi Quaranta e portarsi a nord, a Porto Palermo con vaghe promesse di reimbarco. L’opposizione degli Alleati che non fanno uscire le navi italiane dai porti della Puglia condannano la “Perugia” ad essere catturata ed annientata. Parte dei suoi uomini si danno alla montagna, il resto viene catturato. I Tedeschi non hanno il coraggio di fare quello che hanno fatto criminalmente a Cefalonia, con la “Acqui”. Con la “Perugia”, che era rimasta in armi fino al 3 ottobre 1943, al oltre un mese dalla proclamazione dell’Armistizio, si limitano, in modo incoerente, a fucilare solo gli Ufficiali, inviato in campo di concentramento sottufficiali e truppa.

 

Da questi eventi nasce il Comando Italiano Truppe alla Montagna C.I.T.a.M, costituito, come detto, il 14 settembre 1943, a soli sei giorni dalla proclamazione dell’armistizio, da parte del Ten. Col. Barbi Cinti, comandante dell’aeroporto di Schijk, vicino Tirana. Salito a Peza con tutti i suoi uomini stipula un accordo con i comandanti dell’E.L.N.A. in cui si definisce l’architettura di questo Comando, che deve raccogliere, in modo autonomo e secondo le leggi ed i regolamenti italiani, tutti i militari italiani che decidono di opporsi ai tedeschi.  A fine settembre raggiunge Peza il gen. Azzi, come detto, che ne assume, essendo l’ufficiale più alto in grado, il comando.

Il C.I.T.a.M si articola in un Comando, uno Stato Maggiore, tre battaglioni operativi; l’Albania viene divisa in 10 Comandi Zone; in ogni zona viene inviato un ufficiale affinchè raccolga notizie sul numero, consistenza ed armamento dei militari ivi presenti e come si sono organizzati.

A fine ottobre, quando ormai si può dire che gli eventi armistiziali volsero al termine, dei 130.000 soldati italiani in Albania presenti l’8 settembre, circa 75.000 furono catturati dai tedeschi ed avviati nei campi di concentramento tedeschi, 6/8 mila rimasero fedeli alla vecchia alleanza a furono incorporati nelle unità ausiliare tedesche; 8/10 mila riuscirono a rientrare in Italia, grazie all’azione della Divisione “Perugia” che tenne i collegamenti fino alla caduta di Cefalonia; circa 20.000 rimasero in Albania, nascosti all’azione tedesca; 5000 mila salirono in Montagna per combattere i tedeschi, entrando nelle fila del Comando Italiano Truppe alla Montagna.

Proprio questa consistenza uomini armati in montagna, un reale pericolo per la presenza tedesca in Albania, costrinse il Comando tedesco ad organizzare offensive che si svilupparono per tutto novembre, dicembre 1943 e gennaio 1944 che mise a dura prova la tenuta del Comando Italiano Truppe alla Montagna.

Il reale significato di quanto detto, sta nel fatto che, all’indomani della crisi armistiziale, la reazione dei soldati italiani in Albania, fu si sorpresa e di iniziale resa verso i Tedeschi, ma nella sostanza opposero una reazione alle truppe tedesche e diedero vita ad una struttura solida che diede consistenza all’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese (E.L.N.A.) e lo pose in grado di fronteggiare e contrastare la occupazione tedesca dell’Albania

Una ricostruzione dettagliata delle forze che andarono a formare il Comando Italiano truppe alla Montagna è stata possibile grazie alle minute relazioni che sono state raccolte interpellando i reduci nel periodo 1989-1996. Attraverso queste relazioni, soprattutto i Diari Storici delle unità l’articolazione del C.I.T.a.M ha avuto una precisa fisionomia che permette di dire che oltre 5000  soldati italiani, armati, erano contro i Tedeschi in Albania, a fronte di 200-400 soldati armati dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese del settembre-ottobre 1943.

Una sperequazione evidente, che non poco preoccupò il gruppo dirigente albanese alla montagna che vi vedeva il pericolo che la lotta al tedesco sarebbe stata condotta dagli Italiani, con prevedibili conseguenze soprattutto politiche all’indomani della liberazione. Qui interessa sottolineare il fatto che le Unità italiane in Albania, pur con percorsi diversi, riuscirono a formare reparti alla montagna in grado di condurre una guerra di liberazione e contrastare la presenza dei tedeschi e dei loro alleati collaborazionisti albanesi, in modo paritetico con le Unità dell’E.L.N.A..

 

In Albania vi erano circa 130.000 militari italiani, inquadrati nella 9ᵃ armata, composta da due corpi d’armata, più un settore di livello divisionale e comandi minori. Nella relazione dell’anno scorso si è precisato che circa 75.000 furono catturati dai Tedeschi ed avviati ai campi di concentramento in Germania e soprattutto in Polonia,6/8 rimasero fedeli alla vecchia alleanza, 8/10 mila riuscirono a rientrare in Italia, attraverso i porti pugliesi, circa 20.000 rimasero in Albania, nascondendosi ai Tedeschi ed ai loro collaborazionisti, e circa 5000 salirono in montagna, di cui, come vedremo, solo 3000 poterono essere impiegati come combattenti per via della incapacità logistica albanese a sostenere un numero maggiore di combattenti. 

 

L’oggetto di questa relazione intende esaminare quest’ultima tipologia di militari e nello specifico coloro che furono inquadrati in un’organizzazione regolare sotto egida completamente italianail Comando Italiano Truppe alla Montagna, C.I.T.A.M. Tale struttura si formò già il 15 settembre ad Arbana, per iniziativa del tenente colonnello pilota Mario Barbi Cinti, già comandante dell’aeroporto di Scijak e del 38° stormo da bombardamento. La figura di Barbi Cinti è stata negli anni oggetto di varie interpretazioni,[2] anche se non è possibile distaccarsi dal concetto che egli fu il primo che per lungimiranza e coraggio seguì l’inevitabile corso delle Regie Forze Armate. Seguendo alla lettera i vaghi ordini di Badoglio e Ambrosio, riuscì insomma non solo a portare in salvo il suo reparto, ma lo fece anche in maniera ordinata e spendibile per il futuro.

In questo modo si formò il Comando Italiano delle Truppe alla Montagna (C.I.T.a.M.), derivante in tutto e per tutto dall’autorità del Comando Supremo italiano. Vale la pena quindi ribadire che nello spirito della sottoscrizione dell’accordo, Barbi Cinti s’impegnava – come rappresentante di Vittorio Emanuele III, Badoglio e Ambrosio – all’adesione “antifascista” e antitedesca delle residuali forze militari italiane. Seguendo tale spirito istituzionale l’accordo di Arbana del 15 settembre dispose: il ripristino per i militari italiani del Codice Militare di guerra; la cessazione da parte dei partigiani d’ogni attività propagandistica a carattere politico nelle file degli italiani; la facoltà di Barbi Cinti di rimettere il Comando assunto nelle mani dell’ufficiale superiore di grado che in seguito si fosse dato alla montagna e che fosse riconosciuto idoneo all’incarico.

Con questi presupposti l’accordo ricostituiva un comando unico e univoco italiano, da porre a servizio della lotta comune senza pregiudizio alcuno tra le forze componenti lo sforzo militare antitedesco. Nacque così un formale e sostanziale patto di reciproco riconoscimento tra italiani, albanesi e Alleati, che ridava – anche oltremare – effettività all’ordinamento militare delle Regie Forze Armate. L’essenza di tale accordo era la volontà di Barbi Cinti di mantenere in piedi l’ordinamento militare italiano e quella albanese di riconoscerlo. L’intesa prevedeva pure l’onere delle strutture partigiane di procurare i rifornimenti, mentre per gli italiani quello di predisporre l’intelaiatura organizzativa.

A quel punto il pomeriggio dello stesso giorno Barbi Cinti radunò i circa 300 militari, che lo avevano seguito, esponendo loro i termini dell’accordo sottoscritto. L’adunata si sciolse al grido di «Viva il Re! Viva l’Italia!». L’opera di proselitismo da parte di Barbi Cinti e dei suoi stretti collaboratori fu intensa e articolata; infatti il numero di 300 crebbe progressivamente con l’annuncio ufficiale della costituzione del Comando. L’appello “alla montagna” venne infatti fatto circolare per tutta l’Albania e affisso nelle principali città.

Intanto il giorno 17 si costituì il I battaglione “Truppe italiane alla montagna” e il 26 iniziò l’addestramento verso azioni di guerra partigiana, unica possibile in quel contesto ambientale. L’ulteriore tappa di questo percorso vi fu il giorno 28. Arrivato in montagna il generale Arnaldo Azzi (già comandante della divisione Firenze), questi successe nel comando a Barbi Cinti. Fu così che il C.I.T.a.M. divenne la massima autorità italiana in Albania, l’unica che in qualche modo voleva e poteva ereditare quanto di sopravvissuto ai precedenti comandi Gruppo armate Est e 9ᵃ armata.

 

Questi ultimi ne erano consapevoli; per questo tra l’ottobre 1943 e il gennaio 1944 lanciarono contro i militari italiani alla montagna e i partigiani albanesi ben cinque offensive, volte a distruggere ogni forma di ribellismo e di opposizione, giudicate di per sé una seria minaccia. Il comando germanico comprese quindi subito che tutti i militari italiani, che non erano riusciti a internare o arruolare subito, sarebbero divenuti prima o poi possibili avversari in armi. Di conseguenza l’atteggiamento verso i vecchi alleati fu sempre risoluto e duro, proprio per impedire di doversi pentire un domani della propria clemenza.

In buona sostanza l’accordo del 15 settembre, confermato poi da Azzi il 29, diveniva il presupposto necessario affinché gli italiani offrissero le competenze tecniche della guerra convenzionale; allo stesso tempo gli albanesi avrebbero contribuito alla condivisione con la logica della guerriglia. Per meglio coordinarsi lo stesso generale predispose poi una capillare rete di ufficiali di collegamento, atta a rendere pienamente sinergica e sincera la lotta comune. Intanto nel ribadire il precedente proclama di Barbi Cinti, Azzi allargò a tutti gli italiani (militari e civili) ancora presenti in territorio albanese l’esortazione ad aderire all’unica lotta possibile, ossia quella contro i tedeschi. Ognuno per proprio conto, in armi o attraverso il lavoro civile, avrebbe contribuito alla vittoria contro l’ex alleato.

 

A seguito di ciò, per ragioni di sicurezza il 1° ottobre il Comando si trasferì ad Alta Tai. Intanto altra impellenza per Azzi fu quella di creare un solido collegamento con il Governo italiano. Tramite il maggiore Seymour venne pertanto fatto pervenire in Italia il messaggio che circa 20.000 soldati connazionali erano ancora in Albania e che non avevano accettato le condizioni di resa o di collaborazione con i tedeschi. Il problema principale era tuttavia che i 20.000 non erano tutti disponibili o impiegabili. Tolti quelli che si erano indirizzati a un impegno civile (necessario tra l’altro al supporto agricolo-alimentare dei combattenti), vi fu poi una parte dei combattenti italiani, che – per disaffezione o per sino ad allora repressa coscienza politica – decisero di aderire alla lotta comune direttamente inquadrati in formazioni partigiane. Questo fenomeno fu in buona sostanza la versione balcanica di quella grande dicotomia regolari-volontari, che in modo molto più “problematica” si sarebbe evidenziata in Patria tra Forze Armate cobelligeranti e formazioni partigiane.

A questo punto, completati ulteriormente i presupposti politico-militari della formazione del C.I.T.a.M., si può riportare l’organigramma, a noi pervenutoci, del medesimo Comando per il mese di ottobre 1943:

 

Composizione del Comando Italiano Truppe alla Montagna

 

29 settembre 1943

Comandante: generale Arnaldo Azzi

Capo di Stato Maggiore: tenente colonnello Goffredo Zignani

Ufficiale di collegamento con la Missione Militare Britannica: tenente colonnello Mario Barbi Cinti

Sottocapo di Stato Maggiore: maggiore Ernesto Chiarizia

 

Alle dipendenze di detto Comando si ordinarono i seguenti nove comandi militari di zona, affiancati ai corrispondenti Comandi partigiani di zona: Peza, Dajti, Berat Dibra, Elbasan, Valona, Mati, Corcia, Argirocastro. Tali comandi erano retti da un ufficiale superiore, il quale aveva alle dipendenze, sia disciplinari che d’impiego, reparti non superiori alla forza di un battaglione, dislocato nella zona militare di competenza. Per la deficienza di armi pesanti e mezzi speciali, tutti i militari italiani (indipendentemente da qualunque arma o servizio fossero appartenuti in precedenza) divennero, in questo inquadramento, dei fanti.

Quasi subito Zignani chiese espressamente di assumere il comando del III battaglione italiano. La sua richiesta venne accolta il 3 ottobre. A seguito di questo movimento il colonnello Ferdinando Raucci assunse il comando militare italiano della zona di Peza e Chiarizia sostituì Zignani nell’incarico di capo di Stato Maggiore del C.I.T.a.M.

Alla metà di ottobre 1943, il C.I.T.a.M. aveva alle proprie dipendenze 13 battaglioni, individuati nelle precedenti nove zone elencate. Vennero pertanto inviati degli ufficiali inferiori per verificare la consistenza delle forze sul territorio. Gli ufficiali furono: capitano Kiss per la zona di Dibra, il tenente De Quattro per la zona del Dajti, il tenente Permartini per la zona del Mati, il tenente Bondi per la zona di Elbasan, il tenente Marsili per la zona di Berat, il tenente Guarnieri per la zona di Corcia, il tenente Mazzaglio per la zona di Argirocastro, il tenente De Dottori per la zona di Valona.

 

Questa fu la situazione che – tramite i loro resoconti – arrivò ad Azzi e quindi a noi:

 

Zona militare di Peza (al 17 ottobre 1943)

Comandante truppe italiane: colonnello Fernando Raucci

Comandante dei partigiani albanesi: Myslym

 

Reparti italiani armati

Alle dirette dipendenze:

1)       Un battaglione di circa 300 uomini al comandi del tenente colonnello Zignani, costituito da elementi di varia provenienza;

2)       Battaglione “Morelli”: circa 750 uomini;

3)       Battaglione “Mosconi”: circa 450 uomini;

4)       Reparto di 43 uomini e 26 quadrupedi al comando del colonnello Coviello per servizi vari nella zona dei forni della base d’Arbana;

Presso la III brigata partigiana albanese:

1)       Un reparto di circa 40 uomini della divisione Arezzo, armati con due fucili mitragliatori, due mortai da 81, due fuciloni anticarro e 11 quadrupedi;

2)       5ᵃ batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze al comando del capitano Giannoni su due pezzi con 5 ufficiali, 78 sottufficiali e truppa, 48 quadrupedi;

3)       Un nucleo costituito da un subalterno e 11 militari con un pezzo da 47/32 e 7 quadrupedi.

In totale armati: alle dirette dipendenze 2.370 circa; presso la III brigata 135 uomini circa. Uomini disarmati: imprecisato

 

Zona militare di Dajti (17 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: maggiore Martino

Comandante dei partigiani albanesi: non noto

 

Reparti italiani armati

1)       I battaglione del 127° reggimento fanteria Firenze con 31 ufficiali, 378 sottufficiali e truppa e 40 quadrupedi. Armamento: 62 pistole, 356 fucili, 1.050 bombe a mano, 18 fucili mitragliatori, una mitragliatrice;

2)       Batteria d’accompagnamento 127° reggimento fanteria Firenze con 4 ufficiali, 65 sottufficiali e truppa e 10 quadrupedi. Armamento: batteria senza pezzi; 7 pistole, 83 fucili, 82 bombe a mano;

3)       Reparto misto composto dal reparto Comando del 41° reggimento artiglieria con elementi del 510° battaglione mitraglieri G.a.F., con 7 ufficiali, 71 sottufficiali e truppa, 14 quadrupedi. Armamento: 2 pistole, 134 fucili, 1 fucile mitragliatore.

In totale: uomini armati: 42 ufficiali, 514 sottufficiali e truppa; uomini disarmati: non ne risultano.

 

Zona militare di Berat (22 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello Antonio Curti

Comandante dei partigiani albanesi: Mestan Ujaniku

 

Reparti italiani armati

1)       Battaglione di formazione, composto dal XIII raggruppamento G.a.F. di 150 uomini;

2)       Compagnia autonoma composta dalla 1525 batteria “Breda” da 20 m/m mod. 35 con 120 uomini al comando del capitano Pietro Conte;

3)       Un battaglione di formazione di 150 uomini.

Il totale dei militari armati era di circa 420 uomini. Il totale dei militari disarmato, grosso modo, era il reggimento Cavalleggeri del Monferrato.

 

Zona militare di Dibra (13 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: generale Gino Piccini

Comandante dei partigiani albanesi: Haxli Lleshi.

 

Reparti italiani armati

1)       Un reparto di formazione di circa 40 uomini al comando del sottotenente Frasce della divisione Brennero.

Totale uomini: armati 40, disarmati circa 1.250 dislocati per lavori nel triangolo Peshkopia-Zerqan-Dibra.

 

Zona militare di Elbasan (16 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello Achille Rossito

Comandante partigiano albanese: non noto

 

Reparti italiani armati

Alle dirette dipendenze:

1)       Un battaglione di formazione di circa 350 uomini per la quasi totalità provenienti dalla divisione Arezzo;

2)       Una compagnia di formazione di 150 carabinieri in parte provenienti dalla colonna Gamucci.

Presso la I brigata partigiana (comandante Mehmet Shehu, base a Labinoti):

1)       6ᵃ batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze (su due pezzi);

2)       9ᵃ batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze (su due pezzi);

3)       Una formazione di 130 militari italiani passati a loro richiesta a reparti italiani (battaglione “Gramsci”);

4)       Un reparto salmerie di 100 uomini e 100 quadrupedi forniti dal 127° reggimento fanteria e dal 41° reggimento artiglieria.

Presso la II brigata partigiani albanesi:

1)       7ᵃ batteria del 41° reggimento artiglieria in via di costituzione.

Totale uomini: armati, alle dirette dipendenze 500; disarmati circa 1.200 ripartiti fra Shëngjergj, Orenje e Labinoti, 750 provenienti dalla colonna Gamucci e 500 dalla colonna Brignani provenienti da Dibra.

 

Zona militare di Valona (18 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello Saraceno

Comandante dei partigiani albanesi: Islam Radovicka

Reparti italiani armati: nessuno

Il totale dei militari italiani disarmati risultanti al tenente De Dettori era circa 20 ufficiali e 1.500 uomini.

 

Zona militare di Mati (16 ottobre 1943)

Comandante dei partigiani albanesi: non noto

Comandante italiano: non specificato

Totale uomini armati: non risultavano

Totale uomini disarmati: circa 300

 

Zona militare di Corcia (22 ottobre 1943)

Comandante delle truppe italiane: non noto

Comandante dei partigiani albanesi: non noto

Reparti italiani armati: situazione non nota

 

Zona militare di Argirocastro (22 ottobre 1943)

Comandante truppe italiane: non noto

Comandante partigiano albanese: non noto

 

 

Questa la situazione militare ad ottobre 1943, con il Comando Italiano Truppe alla Montagna in gradi di poter svolgere azioni di una certa importanza contro le forze tedesche e collaborazioniste che occupavano l’Albania.[3]

 

 

Pistoia 8 novembre 2014

 

         



[1] Per la Divisione “Firenze” vds. Massimo Coltrinari,L’”8 Settembre” in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori ed eroismo. 8 settembre-7 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 265, il particolare il capitolo dedicato a questa divisione.

[2] P. Iuso, Esercito, guerra e nazione. I soldati italiani tra Balcani e Mediterraneo orientale 1940-1945, Ediesse, Roma 2008, p. 240; E. Aga Rossi e M.T. Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, Bologna 2011, p. 314.

[3] La relazione trae spunto ed origine dalle attività di ricerca iniziata nel 1989 per COREMite, Commissione per lo Studio della Resistenza dei Militari Italiani all’Estero, voluta dal Ministero della Difesa, per il comparto Albania. In questo quadro sono stati pubblicati i seguenti volumi:

Massimo Coltrinari, Albania Quarantatre, L’avviamento dei Militari Italiani ai campi di concentramento ,Roma, Edizioni Associazione Nazionale Reduci dalla prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione, 1995, pagine 236.Massimo Coltrinari,L’”8 Settembre” in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori ed eroismo. 8 settembre-7 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 265.Massimo Coltrinari, Paolo Colombo, L’a Divisione “Perugia”. Dalla Tragedia all’Oblio. Albania 8 settembre-3 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 320.Massimo Coltrinari, La Resistenza dei Militari Italiani all’Estero. Albania, Roma, Ministero della Difesa, Rivista Militare, COREMITE, Commissione per lo Studio della Resistenza dei Militari Italiani all’Estero, 1999, pag. 1144.Massimo Coltrinari, Laura Coltrinari, La ricostruzione e lo Studio di un avvenimento Militare, , Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 288[3]