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domenica 25 settembre 2016

Custoza. 24 giugno 1866

1.       AVVENIMENTI
a.       Le operazioni di guerra
(1)       24 giugno 1866
(a)       Disposizioni preliminari
-      Esercito Italiano
Guidato dalla convinzione di un improbabile ingaggio con il nemico:
·       I Corpo d’Armata: deve mantenere il collegamento con il III Corpo d’Armata sulla propria destra, lasciare una divisione sulla destra del Mincio, prevedere che due divisioni si dispongano fra Sona e Santa Giustina e un’altra a controllare Peschiera e Pastrengo, dopo aver occupato Sandrà, Coà e Pacengo. Ubicazione del Quartier Generale presso Castelnovo. In particolare:
o   La 1^ Divisione, destinata al controllo di Peschiera e Pastrengo, inizia a muovere nel cuore della notte con il grosso. Avrebbe dovuto puntare a nord attraverso strade alternative, ma, nella convinzione di anticipare i tempi, si porta dapprima a sud per poi utilizzare la rotabile Valeggio-Castelnuovo con tutto il carico logistico. Purtroppo a Valeggio incrocia le colonne della 5^ Divisione perdendo del tempo prezioso. 
o   La 2^ Divisione  rimane tra Pozzolengo e Monzambano ad osservare Peschiera.
o   La 3^ Divisione riceve l’ordine di muovere verso ovest per andare ad occupare Sona passando per Valeggio, Custoza e Sommacampagna. 
o   La 5^ Divisione, la cui avanguardia puntando a nord verso Santa Giustina, ingannata dalle indicazioni ricevute dalla popolazione locale, sbaglia itinerario proseguendo lungo la strada che da Valeggio porta a Castelnovo. Il grosso rimane a Valeggio con i carri della 1^ Divisione.
o   La riserva, partendo da Volta, e gravitando sulla sinistra del dispositivo, riceve l’ordine di muovere dopo circa 4 ore. 
·       II Corpo d’Armata: con due divisioni deve occupare Curtatone e Montanara, successivamente proseguire e minacciare la strada Mantova-Borgoforte. Le altre due (10^ e 19^ Divisione) devono essere pronte a raggiungere Marmirolo e Roverbella con non poche difficoltà di movimento (circa 25/30 km).
·       III Corpo d’Armata: ha l’ordine di schierare le quattro divisioni a disposizione tra Villafranca e Sommacampagna. Più nel dettaglio:
o   La 7^ Divisione deve marciare sulla strada di Massimbona verso Villafranca con l’obiettivo di schierarsi nei pressi di Ganfardine.
o   L’8^ Divisione deve mantenere la strada Pozzolo-Quaderni-Rosegaferro verso Sommacampagna seguendo l’andamento delle colline a sud di Custoza e mantenendo il collegamento con le unità del I Corpo d’Armata.
o   La 9^ Divisione, seguendo l’itinerario Massimbona-Quaderni-Le Sei Vie-Rosegaferro deve raggiungere i pressi del Monte Torre.
o   La 16^ Divisione deve muovere lungo la strada per Mozzecane per schierarsi davanti a Villafranca, mantenendo il collegamento a sinistra con la Divisione del Generale Bixio. 
·       Divisione di Cavalleria, che deve schierarsi tra Mozzecane e Quaderni ove posizionare anche il proprio Quartier Generale, segue la 7^ Divisione sino a Rosegaferro.
-      Esercito Imperiale
Mentre la Divisione di riserva deve muovere da Sandrà verso Castelnovo per poi dirigersi su Oliosi, il V Corpo ha il compito di spostarsi su San Giorgio in Salici per poi puntare su San Rocco di Palazzolo. Il IX Corpo, sfruttando tutte le coperture che il terreno offre, deve marciare verso Sommacampagna per schierarsi ad est intorno a Berrettara. Il VII Corpo, seguendo il IX Corpo, deve schierarsi a Sona e rimanere in riserva. Le Brigate di cavalleria che precedono il IX Corpo devono schierarsi davanti a Sommacampagna per coprire il fianco sinistro del dispositivo. In caso di contatto con il nemico, l’ordine è perentorio: “attaccare vigorosamente”

(b)       I primi scontri (06:30 – 07:30)
-      I Corpo d’Armata: dopo che a Valeggio furono coordinate le priorità di sfilamento tra la 1^ e la 5^ Divisione lungo la strada che porta a Castelnovo, l’avanguardia della 5^ Divisione, che nel frattempo ha sbagliato itinerario e deciso di marciare da sola verso Castelnovo, ha raggiunto Oliosi. Da Monte Vento, il principale punto di osservazione, scorge movimenti di truppe nemiche verso nord-est a dimostrazione che l’esercito imperiale aveva già passato l’Adige.
Non appena, il grosso della 5^ Divisione giunge nei pressi della Pernisa viene fatta oggetto di fuoco da parte del nemico. L’attacco prende di sorpresa tutti e solo dopo un’attenta ricognizione il Gen. Sirtori, convinto sino a quel momento che si trattasse di fuoco amico, diede ordine per assumere le formazioni per la battaglia, ma le truppe austriache erano ormai giunte alle alture intorno alla Pernisa. Le condizioni erano sfavorevoli: l’esercito italiano aveva investito in quell’area circa due divisioni, mentre gli austriaci cinque brigate. Il rapporto numerico era di circa 1 contro 2.
-      III Corpo d’Armata: la 7^ Divisione marciava sin dalle prime ore del mattino lungo la strada per Massimbona con l’obiettivo di sfilare sulla sinistra di Villafranca ed andare a schierarsi presso Ganfardine. L’ordine impartito era quello di muovere con il massimo delle precauzioni dal momento in cui l’unità non disponeva di un adeguato schermo della cavalleria e soprattutto di squadroni preposti all’esplorazione. Il Gen. Bixio, comandante la divisione, era consapevole che alla sua destra poco più avanti stava marciando la 16^ Divisione, che alla sua sinistra si stava muovendo l’8^ Divisione e che in posizione leggermente più arretrata procedeva la 9^ Divisione di riserva.
I distaccamenti avanzati riportavano che Villafranca era completamente sgombera, ma che poco più avanti era presente uno squadrone di ussari austriaci della Brigata Bujanovics seguito da numerose colonne di cavalleria dalla direzione di Sommacampagna e Ganfardine.
Verso le ore 07:00, questi reparti entrano in contatto con le avanguardie della 16^ Divisione con una carica portata all’altezza di Ganfardine. Le avanguardie della divisione a stento riescono a disporsi a quadrato per la difesa, ma una volta completati questi movimenti sono in grado di stemperare l’ardore della carica infliggendo numerose perdite. Stanche e disordinate dopo il primo attacco, le unità austriache subiscono persino un contrattacco da parte dei Cavalleggeri di Alessandria, inviati dal Comando di Corpo d’Armata. Le unità austriache si ritirarono quasi subito dietro Ganfardine, inseguiti senza particolare vigore da alcuni squadroni a cavallo.
Non era trascorsa neanche un’ora da quell’abboccamento quando da Sommacampagna alcuni (tre o quattro) squadroni di Ussari dell’Esercito Imperiale si apprestano a caricare le avanguardie italiane, ma soprattutto la prima linea della 7^ Divisione: il buon addestramento del personale impartito dal Gen. Bixio permise di disperdere la carica con la pronta risposta della fanteria e qualche salva di artiglieria, favorendo così il contrattacco dei Lanceri di Foggia. Il Colonnello Pulz, nell’informare il suo comando superiore, scrive: “un’ora e mezza di combattimento con forte cavalleria nemica […] presso Villafranca […][1].
Numerosi cavalleggeri austriaci nell’evitare il contrattacco italiano sia da parte della 7^, ma soprattutto della 16^ divisione, aggirarono Villafranca in direzione di Massimbona trovandosi, casualmente, nel cuore delle retrovie del III Corpo d’Armata. Con poche scorribande portano il completo scompiglio. Il panico era dilagato, contagiando anche alcuni “reparti di fanteria che insieme al supporto logistico formavano una lunga colonna sino al Mincio[2]. In quel marasma, infatti, confluivano i carriaggi della 7^ Divisione, le colonne della 9^ Divisione e la Divisione di Cavalleria.
(c)       Monte Cricol, Custoza, Monte Torre e Monte della Croce (07:30 – 10:00)
-      I Corpo d’Armata:
·       Dalla direzione di Castelnovo iniziavano a scendere colonne di fanteria austriaca che vanno occupando le alture circostanti e minacciando la 1^ Divisione, ma soprattutto l’avanguardia della 5^ Divisione che, avendo sbagliato itinerario, era orfana del grosso dell’unità. La situazione della Brigata Brescia era veramente delicata: minacciata da est e da nord, era stata costretta a disperdersi su una fronte troppo larga, per di più subiva il cannoneggiamento austriaco da San Rocco di Palazzolo. E la situazione non poteva che peggiorare a causa del sopraggiungere di altre colonne di fanteria della Brigata Benko, della Divisione di Fanteria di Riserva, probabilmente per andare a rinforzare le posizioni sulle alture circostanti. Il Monte Cricol cade in mani italiane solo per circostanze fortuite: mentre gli austriaci occupano il monte, venivano fatti oggetto di fuoco di artiglieria da parte delle proprie batterie costringendoli a ripiegare verso Castelnovo da dove, comunque, sopraggiungono i rinforzi. Ma da sud arrivano anche i tanto sospirati rinforzi italiani: la Brigata Pisa, testa della 1^ Divisione, fa assumere la formazione di attacco alle proprie unità che viene scagliato con estrema violenza riuscendo ad impadronirsi di Fenile, Mongabia, lo stesso Monte Cricol, ricacciando gli austriaci. Nel frattempo giungeva da sud il grosso della Divisione, ma “la Brigata Forlì continuava a marciare per quattro […] come se niente fosse, senza il benché minimo accenno a schierarsi a battaglia. A guardarla da lontano, la colonna sembrava una di quelle processioni di paese, allungata e indolente, che quando la testa arriva al santuario, la coda è ancora in piazza[…][3]. La situazione, apparentemente vantaggiosa, era drammaticamente pericolosa perché il dispositivo aveva davanti delle unità pronte al contrattacco, sul fianco destro le unità del V Corpo d’Armata Austriaco, a sinistra il Mincio e dietro la colonna della Brigata Forlì.
Non erano neanche le 09:45 quando quest’unità, testa dell’intera 1^ Divisione, viene completamente travolta fra Monte Cricol e Oliosi dai reparti della Divisione di Riserva dell’Esercito austriaco: “rinculando davanti ai cavalli, le prime file avevano sospinto all’indietro quelle che immediatamente seguivano […] la maggior parte dei soldati non aveva potuto vedere ciò che era successo […], ma aveva avvertito la pressione provocata dal movimento di quanti retrocedevano”[4]. Esaurita questa carica di cavalleria, la Divisione di Riserva si riorganizza e lancia un attacco “ad ala”. Non soddisfatti, gli austriaci lanciano sul fianco della Brigata Forlì un’altra carica di cavalleria, sicuramente meno incisiva della precedente, ma più che sufficiente a moltiplicare il panico e a diffonderlo nella fila italiane. In questa circostanza anche il Gen. Cerale viene ferito. Come se non bastasse dalla destra di ciò che rimaneva del dispositivo della Brigata Forlì – cioè dalla zona di Oliosi lasciata sguarnita dalla Brigata Brescia, il cui comandante decide unilateralmente di ricongiungersi con il grosso - sopraggiungono i fanti austriaci che iniziano a sparare incessantemente. Sottoposta a questo massacro, la Brigata crolla: migliaia di soldati in fuga, senza un minimo di orgoglio, abbandonavano posizioni ed equipaggiamenti. Molti Ufficiali e Sottufficiali si unirono alla fuga. “La Brigata Forlì aveva cessato di esistere[5].
Di fronte a questa disfatta e con il fianco sinistro completamente scoperto, gli italiani sono costretti a rischierarsi e a lasciare Monte Cricol. I movimenti retrogradi vengono eseguiti alla perfezione per rischiararsi sulla sinistra della strada che collega Valeggio e Castelnovo sulle alture di Maragnotte, più a sud rispetto ad Oliosi. Inoltre, favorita dalle località e dai frequenti caseggiati, molti drappelli, ben comandati fecero viva ed ostinata resistenza infliggendo ingenti perdite al nemico. Poco dopo, giunge la nomina del Colonnello Dezza quale Comandante di ciò che rimane della 1^ Divisione.  
·       Nel frattempo, nella area di responsabilità della 3^ Divisione, sulle alture intorno a Custoza, si assiste a degli scontri importanti: parte della divisione, impossessatasi della cresta del Monte Torre e Monte della Croce, e udendo rumori di combattimenti provenienti dalla zona di Villafranca, si schiera con la fronte da quella parte. L’unità interessata è la Brigata Granatieri di Sardegna. La Brigata Granatieri di Lombardia, invece, comandata dal Principe Amedeo, prosegue sino a fondo valle tra Custoza e Monte Torre dove il personale, stanco e assetato si dirada per trovare un pò di ristoro. Ma proprio quando nessuno se lo aspettava ecco che inizia un intenso bombardamento austriaco proveniente dalla zona di Staffalo: il tiro non era preciso, ma produsse molte perdite. Si trattava di un fuoco di preparazione per l’assalto dei reparti di fanteria, teso ad impedire il consolidamento degli italiani sulle alture di fronte a Sommacampagna. I Granatieri di Sardegna, con estrema fatica, si ridispongono con la fronte verso nord-ovest riuscendo a resistere valorosamente a ripetuti attacchi frontali. Ma per i Granatieri di Lombardia fu la disfatta: l’unità non era completamente riorganizzata quando fu colpita dal nemico e nella circostanza venne ferito anche il principe Amedeo. Scossi, impauriti e senza comandante, i soldati iniziano a retrocedere verso Custoza. Alle 09:00 la situazione è più che compromessa, la superiorità del nemico sia in termini di uomini che di pezzi di artiglieria e la consapevolezza della presenza di altre unità austriache, già attestate su Monte Molimenti, sanciscono il tracollo della Brigata Granatieri di Lombardia nonostante isolati gruppi di combattenti cercano di tenere le posizioni originarie. Gli austriaci, galvanizzati per il successo e per la posizione favorevole, tentano l’attacco al Monte della Croce dove, pur non soverchiando la Brigata Granatieri di Sardegna, infliggono gravissime perdite, incrinando definitivamente il dispositivo della 3^ Divisione.
-      III Corpo d’Armata
Dopo le ore 09:30 e, comunque, quando la disfatta di alcune unità del I Corpo era ormai completata, alla 9^ Divisione, che costituisce la riserva del III Corpo, viene dato l’ordine di portare soccorso alla 3^ Divisione del Gen. Brignone sulle alture di Custoza.
(d)       La Pernisa (10:30)
La 5^ Divisione del I Corpo d’Armata, ora al completo, con il ricongiungimento dell’avanguardia costituita dalla Brigata Brescia che nella zona di Oliosi aveva subito gravissime perdite, è schierata dinnanzi alla Pernisa con l’obiettivo di attaccare per conquistare la posizione. La mancanza di supporto delle artiglierie, la stanchezza, il caldo e la mancanza di impeto non favorirono il buon esito dell’operazione. Alle brevi avanzate di un fronte seguivano i ripiegamenti dell’altro, ma nessuno sembrava in grado di prevalere o disposto a cedere fino a quando gli austriaci decidono di impiegare forze fresche. Dopo un accurato fuoco di preparazione dell’artiglieria, viene lanciato l’attacco da parte del 28° Reggimento Benedek sotto il cui impeto la prima linea italiana vacilla ed inizia a ripiegare. Nell’eseguire questo movimento retrogrado gli italiani si imbottigliano in una conca che aveva alle spalle il fiume Tione, oltre il quale presentava il ciglio delle Muraglie e di Santa Lucia. Intanto, le batterie che avevano preparato l’attacco, ora dirigono il fuoco sul ciglione di Santa Lucia a pochi passi dalla conca dove c’erano le truppe in ritirata. Centinaia di soldati si accalcavano sul bordo del Tione che presentava un solo ponte di legno. Quindi gran parte degli uomini decise di guadare, sfruttando la esigua profondità. Purtroppo l’altra riva era ripida e scivolosa. Fucili ed equipaggiamento vengono abbandonati per favorire la risalita. Il problema era che dietro la prima linea non c’è nessuno. Al constatare ciò, quello che fino a quel momento era una ritirata disordinata si trasformò in una vera e propria fuga. La confusione era talmente tanta che molti soldati si trovano nel mezzo di cambi di schieramento di altre unità adiacenti che non erano state ancora ingaggiate, portando lo scompiglio e facendo perdere loro il controllo di se stessi che, ignorando i richiami dei propri ufficiali, si frammischiano ai fuggitivi della Brigata Brescia e si dirigono verso le retrovie.
Nel frattempo, il Gen. Durando, Comandante del I Corpo d’Armata, schiera la riserva di corpo intorno a Monte Vento anche grazie a tempestivo, ma limitato intervento della 2^ Divisione. Monte Vento era un’eccellente posizione dove i pezzi di artiglieria potevano battere verso Salionze, verso Oliosi e verso Santa Lucia.
(e)       Custoza
-      Ore 11:30
Come detto, sin dalle 09:30, la riserva del III Corpo d’Armata,  la 9^ Divisione del Gen. Govone era stata tascata per sostenere la 3^ Divisione. La risalita verso Custoza con le truppe in linea pronte al combattimento era abbastanza difficile. Durante questo movimento, molti soldati in ritirata si accingevano a combattere di nuovo, rincuorati dall’arrivo di truppe amiche. Comunque, l’arrivo provvidenziale di una batteria a cavallo scortata dalla cavalleria italiana era l’aiuto insperato che serviva al Gen. Govone. Gli austriaci asserragliati a Custoza erano a questo punto minacciati da sud e da ovest. I fanti italiani, rinvigoriti da questa situazione favorevole, entrano di forza nel paese osservando la ritirata delle truppe imperiali appartenenti al VII Corpo d’Armata verso il Belvedere, che sovrasta Custoza, ma che riescono comunque a mantenere una parte del paese.
-      Ore 12:30
Il Gen. Govone, con un definitivo attacco, riesce a snidare gli ultimi austriaci a Custoza e a farli ritirare finanche oltre il Belvedere che a questo punto è in mani italiane. Da questo momento però inizia un cannoneggiamento da parte dell’artiglieria austriaca proveniente dalla zona di Staffalo che si protrae per parecchio tempo. Questo fuoco però non serve solo a coprire la ritirata, in realtà si tratta di fuoco di preparazione di un contrattacco proveniente da Monte Molimenti. Due colonne austriache puntano su Custoza, l’artiglieria italiana colpisce e ne fa vacillare una, ma l’altra riesce ad avvicinarsi sino ad impadronirsi del Belvedere. I combattimenti sono rapidi e confusi. Dopo due ore di combattimento la situazione è molto difficile: i soldati sfiniti sono sul punto di cedere. Dall’interrogatorio di alcuni prigionieri austriaci, il Gen. Govone capisce che l’Arciduca Alberto sta impegnando due Corpi d’Armata per Custoza che evidentemente è ritenuta una posizione chiave. E lo era perché se Custoza fosse caduta in mano austriaca l’Armata del Mincio veniva tagliata in due tronconi: uno nella zona di Villafranca e uno nella zona di Oliosi.
-      Ore 14:45
Esaurito il fuoco di preparazione, quattro colonne austriache avanzano parallelamente: una lungo la strada che proviene da Staffalo, una dal crinale che porta a Belvedere, le altre due a mezza costa tra Monte Molimenti e il Monte Arabica. Le batterie di artiglieria italiane, che si trovano sul Monte Torre, aprono il fuoco rompendo ampi vuoti tra i serratissimi ranghi austriaci. Non appena a tiro utile, la fanteria italiana apre il fuoco respingendo l’attacco. La 9^ Divisione accenna anche un timido contrattacco esauritosi quasi subito. Il Belvedere torna in mani italiane.
(f)        Santa Lucia/Pernisa e Monte Vento (15:00)
Mentre il Gen. Pianell, già comandante della II Divisione, viene nominato comandante del I Corpo d’Armata, le cui condizioni sono allarmanti, si combatte ancora alacremente:
-      Persa la Pernisa e subito l’attacco che ha causato la fuga di migliaia di soldati sulle rive del Tione, la 5^ Divisione, con le poche risorse rimaste, contrattacca con non poche difficoltà per scacciare gli austriaci dalle rive del fiume. L’operazione ha successo e galvanizza praticamente tutte le unità per inseguire il nemico verso la Pernisa. L’attacco è impetuoso, forse un pò disordinato, ma sicuramente efficace: gli austriaci abbandonano la Pernisa e si riparano dietro le alture. Purtroppo, l’ardore delle unità impegnate e la mancanza di coordinamento di una tale operazione nata spontaneamente, distesero il dispositivo su una schiera troppo lunga, peraltro allo stremo delle forze. Gli austriaci, intuita la difficoltà tattica degli italiani, iniziano a cannoneggiare e subito dopo a far intervenire i reparti di fanteria. Ma non si arrivò nemmeno allo scontro poiché gli italiani della 5^ Divisione, quasi tutti della Brigata Valtellina, si ritirano verso Santa Lucia. Ma la pressione austriaca e la stanchezza fanno vacilalre la coesione e il caos ha il sopravvento. Il Gen. Sirtori, Comandante della 5^ Divisione, da l’ordine di abbandonare ogni posizione e di ritirarsi a Valeggio. In quella occasione circa duecento prigionieri rimangono nelle mani del nemico.
-      Dopo circa due ore di fuoco e controfuoco tra le batterie italiane in forza alla riserva del I Corpo, stanziate sul Monte Vento, e le artiglierie austriache che tiravano dalla zona di Oliosi, senza grandi risultati, gli austriaci spingono verso sud molti reparti di fanteria che in breve tempo iniziarono a minacciare la base del monte. La situazione è delicata anche perché non c’erano collegamenti con le divisioni collaterali e arretrate. Le uniche informazioni che arrivavano era quelle dei fuggitivi e del caos che c’era a Valeggio. Il Gen. Aribaldi-Ghilini, Comandante della Riserva del I Corpo, ritenendo più remunerativo preservare Valeggio e non confidando dei suoi uomini che erano molto stanchi, impartisce l’ordine di abbandonare le posizioni di Monte Vento. La ritirata fu semplicemente da manuale.
(g)       Custoza (16:00-17:30)
Le truppe della 9^ Divisione hanno in mano Custoza e il Belvedere e riescono a respingere tre contrattacchi austriaci, ma sono allo sfinimento. Vengono richiesti rinforzi, ma sono rifiutati dal Gen. Della Rocca per tre volte nonostante nella zona di Villafranca non si combattesse dal mattino.
La battaglia sembra rallentata. Il Gen. Govone da ordine di portare i carri con le vettovaglie per ristorare la truppa che però tardano ad arrivare. Nonostante ciò è il momento del relax per tutti: un sorso d’acqua, una parola con i commilitoni, una battuta, un sigaro. La divisione è schierata tra Custoza-Belvedere, e Monte Torre, mentre sulla destra sono stati stabiliti i collegamenti con l’8^ Divisione, le cui unità si estendono sino alla piana di Villafranca. La situazione delle munizioni, sia per l’artiglieria sia per la fanteria, non è rassicurante in quanto i carri munizioni non erano riusciti a seguire il grosso della divisione sulle alture.
A rompere questo momento di stasi, arriva la notizia che da nord, nord-est, oltre Staffalo, ci sono movimenti di truppe: circa tre o quattro brigate che si preparano ad attaccare. Non basta: truppe austriache sono in avvicinamento anche dalla parte del Monte Mamaor, a significare che il fronte italiano ad ovest è stato travolto. La superiorità austriaca è palese, forse circa 5 a 1. La divisione si sfalda e i soldati di fronte a tanta potenza militare abbandonano le posizioni. La resistenza, molto spesso isolata, non riesce a reggere l’urto: gli austriaci irrompono da diverse parti, riprendono il Belvedere, puntano su Custoza, ma non tralasciano Monte Torre dove c’è il Quartier Generale. Il Gen. Govone, furioso con il comandante del Corpo perché gli ha negato per l’ennesima volta i rinforzi, impartisce gli ordini per la ritirata. Il prezzo che viene pagato, rimarrà nella storia: centinaia di morti in pochissimi minuti di combattimento dove perdono la vita anche molti Ufficiali. Lo stesso comandante di Divisione viene ferito da una scheggia di granata. Sono le truppe del Gen. Möring che entrano a Custoza.
Nel frattempo il Gen. Della Rocca impartisce l’ordine che tutto il III Corpo d’Armata si ritiri da Villafranca verso Goito[6]. Il movimento viene protetto dalla 7^ Divisione e dalla Cavalleria di linea.
(2)       25 giugno 1866
Mentre l’Armata del Mincio si riposa e lo staff, con a capo il Gen. La Marmora pensa sul da farsi, il Gen. Cialdini informato dei fatti accaduti il giorno precedente nella zona di Custoza, impartisce l’ordine di ritirata: il IV Corpo d’Armata non passerà più il Po, nonostante l’ordinde contrario del Re, e si ritira verso Modena a difesa di Bologna e delle linee di facilitazione per Firenze, cioè la capitale d’Italia.
Durante questa giornata di calma e di recupero delle capacità operative giunge al Quartier Generale dell’Armata una missiva proveniente dal Capo di Stato Maggiore dell’Arciduca Alberto con cui si riferiva di gravissime violazioni del Diritto Bellico: un atto di barbarie nei confronti di alcuni soldati austriaci che, dopo essere stati feriti, erano stati impiccati. La missiva chiudeva con l’avvertimento che altri casi come quelli accaduti il 24 giugno 1866 avrebbero comportato una serie di severe rappresaglie.
(3)       26 giugno 1866
Al momento, l’esercito si trovava schierato fronte nord, con l’ala destra in possesso del ponte di Goito, saldamente appoggiato al Mincio e con gli sbocchi da Mantova ben presidiati. L’ala sinistra si distendeva nella pianura verso Castiglione, il centro delle alture di Volta e Cavriana. Ma alle ore 08:00 il Gen. La Marmora decide la ritirata sul Chiese prima e sull’Oglio poi. L’Armata lascia le posizioni sul Mincio.
b.       Considerazioni riepilogative
Analizzare le cause del disastro della Battaglia di Custoza, ma più in generale della campagna contro l’Austria del 1866, è impresa assai ardua. Infatti, sull’argomento molto è stato scritto da parte di studiosi molto qualificati. Ci sono, però, alcuni elementi dell’analisi della sconfitta che sono comuni a tutti gli studiosi.
Condizioni politiche, strategiche e tecnico-militari favorevoli alla guerra, condizioni morali e motivazionali ottime, addestramento modesto, impreparazione dei quadri elevati e mancanza, ai massimi livelli, di capi degni di uno stato maggiore sono gli elementi chiave della battaglia di Custoza. La mancanza o quanto meno l’ambiguità dei piani operativi, l’assenza di un comandante in grado di condurre le operazioni completano la base di partenza della III Terza Guerra di Indipendenza.
In questa sezione verranno presentati quelli che a parere dello scrivente sembrano essere i motivi principali che hanno portato alla sconfitta e che più di altri sembrano essere di attuale interesse.
(1)       Unicità di comando
Il Re Vittorio Emanuele II avrebbe voluto assumere il comando effettivo delle operazioni, assistito dal capo di Stato Maggiore il Gen. Petitti, Il Gen. Cialdini, così come il Gen. Della Rocca, desiderosi di assumere il comando supremo, non gradivano la possibilità che il Gen. La Marmora potesse assumere l’incarico di Capo di Stato Maggiore. Ma La Marmora era il più anziano e pertanto si optò per una soluzione in cui egli stesso assumeva l’incarico di Comandante dell’Armata del Mincio, e conferiva il comando del IV Corpo d’Armata, su otto divisioni, detto infatti Armata del Po, al Gen. Cialdini. La soluzione adottata era simile a quella prussiana. Ma in Prussia il Capo di Stato Maggiore, Gen. Von Moltke, ricopriva quell’incarico da circa otto anni e pertanto era riuscito a preparare la guerra contro l’Austria in tutti i minimi particolari. La Marmora, invece, assume l’incarico due giorni prima dell’invio della dichiarazione di guerra, avvenuta il 20 giugno 1866.
L’organizzazione in cui due armate operano separatamente a più di cento chilometri è, però, forse la causa principale per la quale la campagna partì in maniera infelice soprattutto per la mancanza di  coordinazione.
Con questo antefatto, seguendo attentamente i fatti della campagna non si capisce chi avesse il comando delle operazioni: il Gen. Cialdini non obbedì al Re che gli aveva ordinato di passare il Po, dopo la sconfitta di Custoza, il Gen. La Marmora non intervenne quasi mai sul Mincio e quando lo fece sbagliò clamorosamente.
(2)       Pianificazione
Tutta la campagna italiana fu caratterizzata dalla mancanza di un piano operativo strutturato. Tutte le operazioni furono condotte senza una visione strategica, senza che fosse stato espresso un disegno di manovra. Le operazioni erano guidate da ordini scaturiti dalla  pura improvvisazione dei comandanti a tutti i livelli. Il piano prevedeva essenzialmente due fronti uno sul basso Po e uno sul Mincio dove avrebbero operato due diverse armate “secondo le occorrenze colla massima energia per modo di battere o paralizzare il nemico attraendolo ora da una parte, ora dall’altra[7]. Il Gen. La Marmora e il Gen. Cialdini erano convinto che l’altro avrebbe fatto un’azione diversiva per agevolare la propria operazione. Ma se l’Armata del Po avrebbe dovuto fare un’azione dimostrativa, tale operazione doveva precedere l’attraversamento del Mincio. Per contro se a fare l’azione dimostrativa era l’Armata del Mincio, non era necessario farlo con dieci divisioni. La soluzione adottata dunque non solo mancava dell’unità di direzione, ma costituiva solo il compromesso utile ad accontentare i due generali.
Per comprendere l’inettitudine dei quadri dirigenziali che operarono a Custoza, basterebbe osservare la disposizione dei due eserciti il 23 giugno 1866 per rendersi subito conto di come gli imperiali siano pronti a combattere, schierati secondo un concetto di manovra del comando supremo, mentre gli italiani erano ben lontani da credere ad  un imminente inizio delle operazioni. L’idea era quella di un nemico ancora sull’Adige
Più nel dettaglio furono riscontrate carenze nelle attività di esplorazione che furono completamente ignorate lasciando interi reparti di cavalleria nelle retrovie e comunque inattive.
Gli attacchi e i contrattacchi furono condotti senza unità di direzione e adeguato sostegno di fuoco, ma soprattutto non alimentabili a causa della mancanza di riserve o rincalzi, o se presenti schierati troppo lontani.
I movimenti furono troppo lenti a causa di inciampi e di sovrapposizioni di colonne su una stessa rotabile, ma soprattutto a causa del fatto che le colonne avevano quasi tutto il carreggio al seguito.
Molte unità non furono per nulla impegnate senza sapere cosa stesse succedendo a pochi metri dalla loro zona di schieramento.
(3)       Il personale
Non si può rifiutare all’avversario la testimonianza che si è battuto con pertinacia e con valore. I suoi primi attacchi, specialmente, erano vigorosi, e gli ufficiali, slanciandosi innanzi, davano l’esempio[8]. Sono le parole con cui l’Arciduca Alberto esamina il comportamento dei soldati italiani  nel corso delle operazioni. Dall’esame oggettivo dei fatti è indiscutibile che gli italiani si batterono bene, con ardore e coraggio quando furono ben comandati e guidati. I soldati italiani dimostrarono ripetutamente in quella campagna sfortunata del 1866 preziose virtù militari.
Gli sbandamenti e gli sfasci, che ci furono sia tra gli italiani sia tra gli austriaci, furono sempre la conseguenza del cattivo impiego delle unità, impegnate in combattimenti con rapporti di forza improponibili e su posizioni tatticamente e tecnicamente sbagliate e non al grado di addestramento.





[1] Pollio A., Op. Cit., p. 109.
[2] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 202.
[3] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 208.
[4] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 227.
[5] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 229.
[6] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., pp. 254 - 293
[7] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 29
[8] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 1

Custoza 24 giugno 1866. 2a Fase Sintesi Grafica

La Battaglia di Custoza 24 giugno 1866
 2a Fase


martedì 20 settembre 2016

Il 1866. La terza Guerra di Indipedenza IV Parte

SITUAZIONE PARTICOLARE CAPITOLO II – LA BATTAGLIA DI CUSTOZA
1.       SITUAZIONE GENERALE
a.       Situazione generale militare
(1)       I quadri – le forze – i mezzi
(a)     I capi: organizzazione del vertice operativo
In analogia all’Esercito Prussiano, l’Italia adottò la soluzione per la quale il Re Vittorio Emanuele II avesse il comando supremo e che lo esercitasse attraverso il suo Capo di Stato Maggiore, individuato nel Generale Alfonso La Marmora, che fino a due giorni prima dell’inizio delle ostilità ricopriva l’incarico di Presidente del Consigli dei Ministri. Il Ministro della Guerra era il Generale Ignazio de Genova di Pettinengo.
Il contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato in:
·       Armata del Mincio, sotto il comando del Re in persona e quindi del Gen. La Marmora,
·       Armata del Po comandata dal Generale Cialdini.
Il Comandante in Capo delle Forze Armate era l’Imperatore Francesco Giuseppe. L’Esercito si componeva di un’Armata dell’Iser, di un’Armata del Nord e un’Armata del Sud.
L’Armata del Sud, impegnata nella campagna contro l’Italia, aveva da poco cambiato il comandante supremo: al Maresciallo Benedek, assegnato per operare sul fronte principale in Boemia, era subentrato l’Arciduca d’Austria, feldmaresciallo Alberto Federico Rodolfo, figlio dell’Arciduca Carlo.
(b)     Gli SM: la loro organizzazione ordinativa
Erano passati “soli cinque anni dalla costituzione dell’Italia in Regno, e, oltre allo straordinario ingrandimento dell’Esercito piemontese, si era dovuto procedere alla fusione nel regio Esercito di una parte dei quadri dell’Esercito delle Due Sicilie e dell’Esercito garibaldino. Con finanze assai ristrette, si erano dovuti fabbricare materiali in grandissima copia, creare dotazioni, stabilire magazzini e depositi, creare stati maggiori, quadri, ecc. […][i].L’Italia non aveva ancora una tradizionale efficienza nel servizio di stato maggiore. I generali La Marmora, Della Rocca e Cialdini erano ottimi ufficiali con una splendida carriera militare alle spalle, ma con nessuna esperienza di comando di un enorme contingente e per di più costituito da soldati regolari. Il Gen. La Marmora che assunse poi l’incarico di Capo di Stato Maggiore era quello più impegnato dal punto di vista politico e che quindi aveva una percezione della realtà dello strumento militare veramente limitata. Se a questo aggiungiamo una certa “gelosia” tra i grandi generali italiani, ma soprattutto il desiderio del Re Vittorio Emanuele II di dirigere le operazioni, insieme al Gen. Petitti, è facile intuire che il Comando Supremo delle operazioni, così come l’organizzazione degli stati maggiori, non poteva che presentare dei problemi che si sarebbero ripercossi sulle operazioni.
Lo stato maggiore, come inteso dai prussiani e anche dagli austro-ungarici, non era mai esistito nell’Esercito Sardo e continuò a non esistere anche nell’Esercito Italiano. Gli Ufficiali di stato maggiore, al termine dei corsi frequentati, avevano dismesso lo studio che diventava privilegio di pochissimi volenterosi. Gli stessi inadeguati insegnamenti strategici, tattici, procedurali e storici erano stati dimenticati per cui nel 1866, pochi erano gli Ufficiali si stato maggiore preparati.
Benché non abbondante di vittorie, la tradizione militare austro-ungarica era molto solida. Anzi, si può dire che la vitalità dell’Impero di Francesco Giuseppe risiedeva proprio nell’esercito. Pur tuttavia, la principale cagione dei mali era la scarsità di grandi condottieri. Non mancavano i generali dotti e preparati, ma i geni militari rimanevano soffocati dalla ferrea disciplina, dalle consuetudini e dai pregiudizi da cui era emerso nel recente passato solo l’Arciduca Carlo, padre di Alberto.
(c)     Le forze terrestri: unità in genere, di pronto impiego, di riserva
Senza contare i volontari di Garibaldi, circa 38000 uomini, le truppe di presidio e di completamento, l’Esercito Italiano aveva una forza effettiva di 22000 uomini, 37000 cavalli e 456 cannoni. Fu disposto il richiamo delle classi 1834 – 1840 (prima categoria) e 1840 – 1841 (seconda categoria). Le operazioni di mobilitazione furono complicatissime a causa della configurazione della penisola italiana e per lo scarso sviluppo delle ferrovie. L’organizzazione di quel contingente fu opera del Gen. Petitti.
Per resistere al contingente italiano, gli austriaci avevano organizzato un esercito che poteva contare di fortissimi appoggi e fortificazioni inespugnabili. Ma erano comunque necessarie numerose guarnigioni ed era inevitabile un certo disseminamento di forze. Dei dieci corpi costituenti l’Esercito Imperiale, ben sette furono destinati all’Armata del Nord, insieme a cinque Divisioni di Cavalleria, e una riserva generale di artiglieria per un totale di circa 185000 uomini. Soltanto tre Corpi di Armata vennero destinati all’Armata del Sud, con una Brigata di Cavalleria di riserva, per un totale di circa 145000 uomini, 15000 cavalli e 192 pezzi di artiglieria. Escludendo le forze di presidio e di guarnigione e delle forze destinate nel Tirolo, dove fu inviato un contingente autonomo sotto il Comando del Gen. Von Kuhn, per le operazioni nel Veneto erano disponibili 94500 uomini, 12500 cavalli e 168 pezzi.
(d)     Le dottrine operative: la loro definizione in base agli intendimenti politici, di ordine strategico, tattico e potenziale
In Italia, come del resto anche nell’Impero, gli insegnamenti delle guerre napoleoniche erano stati lasciati volutamente nel dimenticatoio, a differenza di alcuni generali prussiani della scuola di Clausewitz. Le campagne napoleoniche avevano insegnato, ad esempio, che un corpo d’armata non poteva avere più di quattro divisioni, se non compromettendo la mobilità e la manovrabilità. Ma i principi dell’arte della guerra non erano conosciuti, se non superficialmente. Per dirlo in altre parole, gli studi militari in Italia non erano presi in seria considerazione. Certamente la dottrina tattica presentava segni di invecchiamento e necessitava di rinnovamento, ma quando applicata correttamente era ancora motivo di successo.
Anche per quanto riguarda l’Impero, all’epoca dei fatti pochi generali “sapevano” fare la guerra e uno di questi era il Comandante dell’Armata del Sud,  l’Arciduca Alberto, figlio primogenito del grande Arciduca Carlo d’Asburgo che aveva battuto Napoleone nel 1809. Egli si era formato studiando le campagne, specialmente quelle del padre. Da questi insegnamenti aveva appreso soprattutto la fermezza d’animo, il carattere serioso, ma soprattutto l’idea secondo la quale non bisognava lanciarsi alla carica fino ad un punto di non ritorno. Al contrario, bisognava avere l’accortezza di tenere sempre un atteggiamento guardingo e difensivo. E questo concetto volle applicarlo integralmente nella campagna contro gli italiani, definiti da lui stesso rapaci. Quindi come l’Armata del Nord, comandata dal Gen. Benedek, in Italia l’Arciduca Alberto si proponeva di fare una guerra difensiva, favorita dal terreno e dalle fortificazioni presenti nel Veneto.  
b.       Avvenimenti e provvedimenti in vista del conflitto
(1)    Politici e diplomatici
Le condizioni poste con la pace di Villafranca e il successivo trattato di Zurigo del 10 novembre 1859 avevano deluso la speranza degli italiani che dopo la valorosa vittoria di Solferino si aspettavano di veder concluso il processo di unificazione. D’altronde la pace con l’Impero Austro-Ungarico non poteva che essere un cessate il fuoco da momento in cui lo stesso imperatore si rifiutava di riconoscere il Regno d’Italia, appellando la penisola come ancora come Regno Sabaudo.
Tutti gli attori dell’epoca erano consapevoli che prima o poi l’Italia avrebbe ripreso le armi contro l’Austria non solo per l’inaccettabile sistemazione dei confini, ma soprattutto perché l’Austria, conservando il suo dominio sul Veneto e la disponibilità del Quadrilatero, nonché il desiderio di rivendicare quanto perso sette anni prima, rappresentava il nemico numero uno. Il Regno d’Italia, per contro, non era in grado di dichiarare compiuta “l’unità nazionale senza Venezia e Roma. E per ottenere Venezia si doveva fare la guerra[ii].
L’Italia, dopo estenuanti trattative diplomatiche, condotte dal Gen. La Marmora, il Ministro de Barral e il Gen. Govone, inviato speciale a Berlino, ottenne quello che aveva sempre desiderato: l’alleanza con una grande potenza militare. L’Italia si era legata alla Prussia in virtù del trattato firmato l’8 aprile 1866. Si trattava di un trattato molto ambiguo soprattutto perché influenzato dalla difficile figura di Bismark, di natura offensiva e difensiva che prevedeva quattro condizioni: 1) la guerra deve essere condotta con ogni energia e nessuna delle due potenze alleate può concludere un armistizio o una pace senza il consenso dell’altra; 2) tale consenso non può essere rifiutato se l’Austria cede all’Italia il Veneto e alla Prussia territori equivalenti; 3) il trattato deve considerarsi senza efficacia se la Prussia non dichiara guerra all’Austria entro tre mesi dalla firma; 4) l’Italia s’impegna a inviare la sua flotta in aiuto a quella prussiana nel caso in cui l’Austria invii navi da guerra nel Baltico.
Come si può notare, il trattato non prevedeva il carattere di reciprocità in quanto impegnava l’Italia a entrare in guerra nel caso in cui la Prussia l’avesse dichiarata, ma non il contrario. Né prevedeva l’intervento di quest’ultima se fosse stata l’Austria a prendere l’iniziativa contro l’Italia. Tale sbilanciamento, fu espressamente sottolineato da Bismark che, pur avendo riconosciuto l’inopportunità di lasciare l’Italia da sola a combattere, affermò ripetutamente che il trattato non impegnava la Prussia a dichiarare guerra all’Austria nel caso in cui questa si fosse trovata in conflitto con l’Italia. In realtà, Bismak in quei giorni fece sapere, attraverso gli opportuni canali diplomatici che in caso di intervento militare austriaco contro l’Italia, la Prussia avrebbe onorato i propri obblighi di amicizia nei confronti dell’alleato italiano. Per ogni altra ipotesi Bismark consigliava vivamente gli italiani di astenersi da ogni tipo di iniziativa offensiva.
Purtroppo, la situazione stava prendendo una strada completamente diversa: in Austria giungevano, da fonti informative di dubbia veridicità, informazioni su presunti armamenti e movimenti militari italiani sui confini. Erano delle esagerazioni, ma più che sufficienti per accelerare la mobilitazione e la preparazione dell’Armata austriaca del Sud ubicata in Veneto[iii].
Nonostante ciò, qualche settimana dopo (5 maggio 1866), l’Austria, che fino quel momento si era sempre rifiutata di discutere la questione veneta con l’Italia, offre la cessione di Venezia alla Francia affinché la girasse all’Italia. I diplomatici italiani, dietro sollecitazione del Presidente del Consiglio, rifiutano categoricamente in quanto giungeva troppo tardi per poter essere motivo di rottura degli accordi con la Prussia.
Agli inizi di maggio la situazione era quanto più che mai in stallo e le strade per una soluzione diplomatica sembravano quasi impossibili. La Francia, nel tentativo di fermare ogni focolaio di guerra, si fa addirittura promotrice di un Congresso ove discutere tutte le pendenze territoriali, compreso il Veneto.
(2)    Economico finanziari.
Dopo la crisi politica del dicembre 1865, era diventato Ministro della Guerra il Gen. Ignazio de Genova di Pettinengo che, tra i primi atti ministeriali, impose un taglio di bilancio di circa undici milioni. Questo in realtà si andava ad aggiungere ad un ulteriore taglio, pluriennale, disposto dal precedente Ministro della Guerra, Gen. Petitti, di circa nove milioni. Alla vigilia della guerra, quindi, l’esercito poteva contare su un budget decurtato di circa venti milioni che aveva imposto delle economie soprattutto per quanto riguarda i richiami. L’Esercito Italiano entrava in guerra con circa 30000 uomini in meno. Questa carenza si fece sentire soprattutto a livello tattico, dove le compagnie di fanteria potevano contare su una forza di circa 125 uomini contro i 165/170 delle compagnie imperiali.   
c.        Considerazioni riepilogative
(1)    Correlazione fra intendimenti e possibilità: valutazione dell’adeguatezza delle forze in campo in relazione agli intendimenti ed agli scopi
Nel 1848 Carlo Alberto con un piccolo esercito mosse guerra all’imponente armata austriaca di Radestzky e ripiegando su Milano perdeva rovinosamente. Diciotto anni dopo, nel 1866, l’Esercito del Regno d’Italia, con una popolazione sette volte quella del Piemonte e con mezzi militari decisamente superiori scende in campo contro l’Austria, che nel Veneto dispone di un esercito circa la metà del suo. L’occasione è favorevolissima. Le forze che l’Italia ha messo in campo sono sicuramente adeguate allo scopo di sconfiggere gli Austriaci e costringerli a cedere il Veneto.
Per contro, seppur inferiore da un punto di vista quantitativo, l’esercito imperiale, che si propone di difendersi appoggiandosi ai presidi e alle fortezze presenti sul terreno, ha una forza adeguata agli scopi. 
(2)    Rapporti di potenza fra le parti contendenti: capacità rispettiva di sostenere sforzi prolungati
A parte la superiorità numerica, l’esercito imperiale era comunque in condizioni più favorevoli di quelle italiane: unità di comando, libertà di comando, maggiore amalgama e addestramento dei reparti di fanteria e cavalleria, superiore conoscenza del terreno erano i fattori che potevano fare la differenza. L’impossibilità di utilizzare una fitta ed efficiente rete ferroviaria, inoltre, rallentavano i movimenti soprattutto di chi attacca. Le condizioni climatiche e del terreno completavano una situazione quasi proibitiva per coloro che si ponevano l’obiettivo di attaccare agevolando, per contro, coloro che, godendo di posizioni fortificate, dovevano difendere.
Inoltre, l’aver scomposto il contingente in due armate, che avrebbero agito su due fronti completamente separati, non permetteva all’esercito italiano di concentrare il massimo sforzo in un punto rendendo più debole il dispositivo.
Infine, il supporto a sostenere la campagna esisteva: al momento della dichiarazione di guerra il paese era saldamente stretto intorno all’esercito così come la monarchia appariva popolare e nel pieno diritto di porsi alla guida delle armi e della nazione. Anche quando le confuse notizie dal fronte non erano confortanti e facevano intuire che le cose non erano andate come si sperava, l’opinione pubblica reagì molto bene dando ulteriore fiducia all’esercito e ai suoi comandanti. In sintesi, alla vigilia della guerra tutto lascia presupporre che non ci siano ostacoli per l’Esercito Italiano a sostenere sforzi prolungati
Per quanto, riguarda l’esercito imperiale, nonostante le forze e l’organizzazione lascino presupporre la possibilità di intrattenere una campagna di lunga durata, si ritiene che molto dipende dalle operazioni in Boemia, dove il grosso deve scontrarsi con l’esercito prussiano di von Moltke.       
2.        
a.       Eventuali operazioni precedenti
Non ci sono operazioni precedenti nell’ambito della stessa campagna.
b.       L’ambiente operativo
(1)  Delimitazione ed inquadramento
La Battaglia di Custoza, episodio che va inquadrato nell’ambito della guerra austro-prussiana del 1866, si è svolta nel Veneto in un’area limitata ad ovest dal fiume Mincio, da Peschiera a Mantova, per circa 34 chilometri e dal cosiddetto Serraglio, l’area compresa tra il Mincio e il Po, malsana, impedita da canali e acquitrini, tutta inondabile e larga soltanto 11 chilometri. A sud l’area delle operazioni è delimitata dal fiume Po nella sua interezza (145 chilometri), spalleggiato da grandi paludi, canali e risaie: una zona intricatissima, facile da difendere e quasi impossibile da aggredire. Infine ad est e a nord rispettivamente dagli allineamenti Verona-Legnago e il Lago di Garda-Verona. All’interno di questa area si aggiunge un altro ostacolo, che correva parallelo lungo la linea di frontiera, l’Adige. Insomma, date le caratteristiche del terreno le fortezze di Peschiera, Verona, Legnago e Mantova, e l’area tra esse racchiusa, rappresentavano una porzione di terreno praticamente inespugnabile che offriva numerose posizioni difensive. Il tratto lungo il Mincio tra Peschiera e Mantova era forse il più accessibile.   
(2)  Caratteristiche fisiche
Le Alpi descrivono una fitta catena circolare che separa l’Italia dalla Francia, dalla Svizzera e dall’Austria. Le piogge e le nevicate frequenti, mantengono l’alimentazione di una enorme quantità di acqua che si riversa in tanti laghi, fiumi e riviere. Il Po, il più grande di queste linee idriche, attraversando tutta l’Italia settentrionale, si getta nell’Adriatico dopo aver raccolto un’infinità di affluenti minori che scendono dalle Alpi. Tra questi è opportuno ricordare il Sesia, il Ticino, l’Adda, il Mincio. L’Adige, il Brenta, il Piave, il Tagliamento e l’Isonzo si riversano direttamente nell’Adriatico.
In particolare, il Veneto, che insieme a Roma mancavano per completare l’unificazione nazionale, all’epoca era quella l’area compresa tra il Ticino e l’Isonzo da una parte, il Po e le alpi dall’altra. Tale collocazione “condanna” tutt’ora il Veneto ad essere attraversata da una fitta rete idrica. In particolare, dalla punta meridionale del Lago di Garda, Peschiera, esce il Mincio, il quale dopo aver formato acquitrini e laghi artificiali soprattutto nei pressi di Mantova si getta nel Po a Governolo. Più ad est, scorre l’Adige fino a Legnago da dove inizia a scorrere parallelamente al Po per poi riversarsi nell’Adriatico. Tutta l’area compresa tra il basso Po e l’Adige è paludoso, caratterizzato da un ginepraio di canali di irrigazione che la rendono assai poco praticabile.
Andando più nel dettaglio, il terreno dove si sono ripetutamente scontrati di due eserciti presenta una parte collinare e una parte di pianura. Il terreno collinoso, attraversato peraltro anche dal fiume Tione, che sorge a Pastrengo e scorre verso sud passando per Villafranca, in tutto il suo sviluppo longitudinale può essere considerato formato da tre gruppi collinari-pianeggianti: uno occidentale dal Mincio alla rotabile Castelnuovo-Valeggio, quello centrale da questa strada fino a Guastalla e quello orientale da quest’ultima fino a Verona[iv].
Le alture di Custoza, dove si decise l’esito della campagna, sono particolarmente importanti perché sono costituite da due allineamenti, con andamento nord-est, che si raccordano e degradano appunto nel paese di Custoza. Da queste alture guardando a nord e nord-ovest si scorge una fronte che è la continuazione del Torrione, Monte Sabbione, Monte Vento e Santa Lucia, ottimi punti di osservazione[v]. La coltivazione nell’area non era particolarmente fitta, a causa della natura sassosa di questo terreno collinoso   
A tutto ciò va aggiunto che la campagna del 1866, si è svolta a partire dalla terza decade di giugno quando nell’area crescono in maniera rigogliosa infinite piantagioni di granturchi e gelsi che, per loro natura, costituivano un naturale rallentamento alle operazioni militari.
(3)  Caratteristiche antropiche
La popolazione sparsa in molte frazioni e generalmente dedita all'agricoltura. Però non mancavano nel paese alcune industrie, come fabbriche di paste alimentari e filande da seta. Vi era anche una fabbrica di alcool ed era esercitata limitatamente la tessitura casalinga. Già allora il commercio era assai animato e vi si tenevano mercati importanti. 
La rete stradale era ottima e garantiva agli austriaci le linee di comunicazione tra le Alpi, il Po e il Mare Adriatico. Ciò permetteva di raggiungere tutte le principali città dell’area di operazioni entro 24 ore di marcia. Oltre a ciò Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Peschiera e Mantova comunicavano tra di loro per mezzo della ferrovia. Nelle vicinanze della riva sinistra del Mincio, l’unica strada buona che si sviluppava da nord a sud era quella che collegava Castelnuovo a Valeggio. Diverse e in buono stato erano invece le strade che attraversavano la pianura, soprattutto quelle che passavano per Villafranca. In tal senso, Villafranca rappresentava, quindi, il centro nevralgico delle principali vie di comunicazione.
Anche Valeggio costituiva un centro molto importante dal punto di vista militare non solo perché dominava il ponte sul Mincio (Borghetto), ma anche perché segnava il punto in cui la zona collinare lasciava il passo alla pianura, perché era un crocevia di interesanti vie di comunicazione e perché da li partiva la rotabile per Castelnovo.
(4)  Eventuali precedenti storici
L’area intorno a Custoza è stata già teatro di scontro nel 1848 tra Regno di Sardegna e Impero Austriaco durante la I Guerra di Indipendenza. I due eserciti si scontrarono nei pressi di Custoza per il controllo delle pianure del Veneto. Dal 24 luglio, manovrando nei settori più deboli, la saldatura del Corpo di Armata, gli austriaci, in una serie di scontri vittoriosi in più località, riescono a prevalere in quella che poi fu chiamata la Battaglia di Custoza. Il 27 luglio, Carlo Alberto si ritira su Milano fra il generale disappunto dei lombardi.
Durante questa campagna è emersa la grande forza, la grande organizzazione, la formazione, ma soprattutto la disciplina dell’Esercito Austriaco. Radestzky, a capo del contingente austriaco, diede prova di capacità militari inconfutabili, benché non abbia capitalizzato il massimo possibile dalle circostanze. Per contro, le truppe piemontesi per quanto visto sul campo dimostrarono di essere ben lontani dal dimostrare un’organizzazione tipica di un esercito regolare. La loro organizzazione si è rivelata talmente problematica da non poter resistere ad una campagna di quattro mesi. Le carenze riguardano soprattutto la disciplina tra i capi e i subordinati. In realtà nella campagna del 1848, le forze piemontesi hanno compiuto atti eroici, estemporanei, purtroppo non illuminati da combinazioni intelligenti senza le quali non si raggiungono risultati importanti.
c.        I piani operativi
(1)  Generalità
Il 17 giugno 1866 scoppiano le ostilità tra Prussia e Austria e l’Italia, in virtù del Trattato firmato qualche mese prima, dichiara guerra all’Austria. Infatti, il 20 giugno 1866 alle ore 08:30 il Colonnello Pompeo Bariola, dello Stato Maggiore, recapitava al Tenente Maresciallo barone Sztankovic, Comandante della fortezza di Mantova, la dichiarazione di guerra all’Austria: “[…] tendendo tuttora schiava una delle più nobili nostre province, trasformandola in un vasto campo trincerato, […], le ostilità avranno principio dopo tre giorni dalla data della presente; a meno che Vostra Altezza Imperiale non volesse aderire a questa dilazione, nel qual caso la pregherei di volermelo significare […][vi]    
(2)  Esercito Italiano
Riuscire a capire quale fosse il piano di campagna dell’Esercito Italiano è impresa assai ardua in quanto il piano doveva essere presentato in una conferenza che si tenne a Bologna il 17 giugno 1866 tra La Marmora e Cialdini. Di quel colloqui non esistono documenti che attestino le decisioni che furono adottate. Nessuno era presente a quell’incontro, ma dall’analisi dei fatti dei giorni successivi si può arguire che i due generali si siano lasciati con la convinzione che l'uno avesse aderito alle idee dell'altro. E invece ognuno era rimasto fedele al proprio piano: il Cialdini, pensava che sul Po si dovesse sviluppare l'operazione principale, mentre sul Mincio si doveva condurre un’operazione diversiva. Al contrario, La Marmora credeva che l’operazione principale doveva essere svolta sul Mincio e di diversione quella del Po. Non a caso La Marmora poco tempo dopo disse: “la nostra azione rispettiva era troppo evidente perché fosse d’uopo di prendere accordi speciali. Ciascuno dalla parte sua avrebbe agito secondo le occorrenze colla massima energia per modo di battere o paralizzare il nemico attraendolo ora da una parte, ora dall’altra[vii]. Da queste parole si evince chiaramente che l’Italia non aveva un piano, ma due diversi modi di vedere e di intraprendere le operazioni. A queste posizioni corrispondeva anche una diversa visione strategica a livello politico. Una, che faceva capo proprio al Generale Enrico Cialdini, che l’aveva elaborata e vedeva anche i favori degli alleati prussiani, su tutti del Generale von Moltke, prevedeva Bologna come base delle operazioni, l’invasione del Veneto dal basso Po, con attraversamento del fiume a monte di Ferrara, e l’avanzata su Rovigo. Per favorire l’operazione occorrevano alcune azioni diversive e di disturbo sul Mincio che avrebbero impegnato il grosso dell’Armata imperiale all’interno del Quadrilatero. Una volta raggiunto Rovigo e passato l’Adige, l’Armata del Po avrebbe avuto la strada spianata verso Padova, Vicenza e Venezia, puntando sulle più vitali comunicazioni del Veneto fin dentro il cuore dell’impero. Tale visione, inoltre, rendeva possibile anche un contributo della flotta italiana nell’Adriatico e l’infiltrazione  di un corpo di volontari in Dalmazia e in Ungheria con il compito di innescare una rivolta popolare in grado di minare la solidità dell’Impero. Questa linea di azione aveva il vantaggio di evitare “di rimanere invischiati in lunghe e faticose operazioni all’interno del Quadrilatero, con poche possibilità di successo”[viii] come era accaduto nel 1848.
L’altra visione, completamente opposta, elaborata da La Marmora e altri generali dell’ex esercito piemontese, prevedeva, invece, Piacenza e Cremona come basi di operazione, eseguire delle operazioni dimostrative sul basso Po, e di colpire direttamente il Quadrilatero da Ovest: attraversare il fiume Mincio tra Peschiera e Mantova e forzare le fortezze nel più breve tempo possibile grazie alla superiorità di forze disponibili o, in alternativa, ingaggiare battaglia all’interno dello stesso.
Alla vigilia della guerra, l’Italia pensava ad un teatro di operazioni in cui avrebbero agito due armate: una sul Mincio, Comandata dal Generale La Marmora, e una sul Po, comandata dal Generale Cialdini. La prima, “più sotto la mano del comando in capo dell’Esercito[ix], avrebbe ricevuto ordini e diposizioni direttamente, la seconda, da considerare più come un distaccamento, avrebbe agito secondo le indicazioni ritenute più idonee ed opportune da parte del comandante[x] che aveva l’unico obbligo di tenere informato il Comando Supremo.  L’operazione che l’esercito italiano si accingeva a condurre era guidata da un piano che rappresentava soltanto il giusto compromesso fra due soluzioni alternative volte a soddisfare Cialdini e La Marmora per di più viziato da un’incomprensione di fondo: il Generale La Marmora si aspettava una dimostrazione sul basso Po e il Generale Cialdini si aspettava una dimostrazione sul Mincio. Non a caso, allorquando nel mattino del 24 giugno 1866, il Generale Cialdini ricevette dal Re Vittorio Emanuele il telegramma con cui gli si comunicava l’inizio delle ostilità, rispondeva di “essere desolato notizia che Vostra Maestà mi dà. Generale La Marmora mi aveva promesso di limitarsi a semplice dimostrazione. Voglio sperare non infausto esito giornata, ecc.”[xi]. L’unica questione su cui si era fermamente concordi era il ruolo del Corpo di Volontari comandato da Garibaldi: non sbarcare in Dalmazia, per essere infiltrato in Ungheria, ma, attraverso azioni dimostrative verso il Tirolo, coprire l’estrema sinistra del dispositivo sul Mincio e la Lombardia.
(3)  Esercito Imperiale
L’Armata Austriaca del Sud, abilmente condotta dall’Arciduca Alberto, di fronte ad un nemico così schierato, aveva ampia libertà di manovrare per linee interne[xii]. L’obiettivo era, pertanto, quello di gravitare con il grosso delle forze laddove veniva percepita la minaccia principale, cioè dal Mincio, battere il nemico colpendolo sul fianco sinistro e rivolgere l’attenzione al basso Po, dove gli ostacoli naturali delle Polesine avrebbero rallentato l’avanzata dell’armata del Generale Cialdini. Tutta la manovra era rivolta a salvaguardare il possesso della città di Verona, vero centro di gravità del dispositivo austriaco di stanza nel Veneto, in virtù della posizione strategica, delle fortificazioni, delle linee di comunicazione che la attraversavano e delle risorse ivi stoccate.
A tal fine era necessario innanzitutto attirare il grosso dell’Esercito Italiano nel Quadrilatero e per fare questo occorreva far credere di essere sulla difensiva. Per fare ciò, l’Arciduca Alberto, mantenne i tre Corpi d’Armata a sua disposizione nei pressi di Montorio, Pastrengo, San Martino, San Michele e San Bonifacio e ordinò di lasciare intatti i ponti sul fiume per facilitare l'avanzata italiana verso il Quadrilatero. Alla vigilia delle ostilità, tutte le forze a disposizione dell’Armata austriaca del sud erano concentrate e disposte in modo da far credere agli italiani di rimanere in posizione difensiva dietro l’Adige. In realtà, pronte a muovere per essere impiegate contro le unità italiane provenienti da ovest.
Sul fronte del basso Po, l’Esercito Imperiale lasciava soltanto una brigata, il grosso della quale doveva attestarsi a Rovigo.
In quanto al Tirolo, il piano prevedeva realmente una difesa, ma attiva.[xiii]
d.       Le forze in campo
(1)  Entità e qualità: funzionalità e costituzione, capacità interforze, caratteristiche tattico-operative, armamento e mobilità
(a)       Esercito Italiano
Il contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato come di seguito riportato:
-      Armata del Mincio, organizzato in tre Corpi d’Armata, da quattro divisioni ciascuno:
·       I Corpo d’Armata comandato dal Generale Giovanni Durando;
·       II Corpo d’Armata comandato dal Generale Domenico Cucchiari;
·       III Corpo d’Armata comandato dal Generale Enrico Morozzo Della Rocca.
-      Armata del Po comandata dal Generale Cialdini organizzata invece su otto divisioni.
Tanto nella prima quanto nella seconda armata, c’erano in organico divisioni e brigate di cavalleria alle dirette dipendenze del Comando di Armata, gruppi di artiglieria, unità del genio pontieri e servizi occorrenti.
In particolare, il Gen. Cialdini alla vigilia della guerra con l’Austria si trovava al comando di un Corpo d’Armata che costava di otto divisioni, moltissimi comandi subordinati, un immenso traino di materiali di ogni specie. In altre parole, un vero e proprio esercito, molto difficile da muovere e manovrare soprattutto in un terreno che era notoriamente complicatissimo e intricatissimo. L’Esercito messo a disposizione per le operazioni consta, dunque, di ben 20 divisioni, i cui comandanti furono scelti direttamente dal Ministro della Guerra, Ignazio de Genova di Pettinengo, e dal Generale La Marmora. Completava il dispositivo italiano, il Corpo di Volontari Italiani, istituito con un Regio Decreto quale strumento militare che, in caso di guerra, avrebbe contribuito alla difesa del paese. Il Comando di tale Corpo venne affidato a Garibaldi. Il 22 giugno 1866 la forza complessiva del Corpo dei Volontari Italiani avrebbe dovuto contare 38.041 uomini, 873 cavalli, 24 cannoni e due cannoniere a vapore.
L’unità tattica era la brigata che operava all’interno delle divisioni. Ciò permetteva di disporre di unità più piccole e più manovrabili. Per contro le compagnie di fanteria, così come gli squadroni di cavalleria, erano sottodimensionate, a causa dei tagli di bilancio che c’erano stati da poco e non avevano permesso di adeguare gli organici.
Tutto il personale era equipaggiato con fucile mod. 1860, cal. 17,4 mm, ad anima rigata, con una gittata utile di circa 400 m, disponibile in versione per fanteria e per il personale a cavallo. La cavalleria leggera, inoltre, era equipaggiata anche con sciabola. L’artiglieria era del tipo da campagna da 90 mm.
Il Regno di Italia era nato nel 1861 e da allora l’esercito aveva subito successivi interventi di ristrutturazione a partire da quello fondamentale dal Generale Manfredo Fanti che permise di integrare perfettamente nell’armata piemontese gli eserciti della Toscana e dell’Emilia a cui si aggiunse, non senza dibattiti e dissidi, anche quello borbonico. Il significato di parole come patria, unità e libertà era vago e incerto. Inoltre, l’imposizione della leva obbligatoria aveva creato forti dissensi che si manifestavano attraverso fenomeni di renitenza di massa, coperti e sostenuti dalle comunità di origine. Comunque, sia, alla vigilia della guerra con l’Austria, l’Italia possedeva un esercito numeroso, ben equipaggiato, addirittura superiore a quello del nemico. L’impianto dello strumento militare italiano era stata un’idea di La Marmora che era riuscito ad imporre la sua visione di dotarsi di un esercito moderno, al passo con le minacce e i rischi del tempo e in grado di salvaguardare la monarchia e la pace in tutto il regno[xiv]. In merito, è bene ricordare che all’epoca esistevano due teorie dominanti in Europa: quella dell’esercito di quantità, sul modello prussiano, e quella dell’esercito di qualità, modello francese. La prima prevedeva la costituzione di un piccolo core di ufficiali e sottufficiali di professione, in servizio permanente, che veniva integrato dalla leva richiamata in caso di mobilitazione. Tutti erano obbligati ad un periodo di addestramento, distribuito in due/tre anni, al termine del quale venivano posti in congedo. Il modello francese, o di qualità, prevedeva, invece, un esercito a lunga ferma, cinque/otto anni. In caso di guerra i suoi organici venivano integrati con poche unità provenienti dalla coscrizione obbligatoria. La differenza tra i due modelli risiedeva nel fatto che mentre il modello prussiano si basava sul principio del cittadino-soldato, quello francese faceva gravare l’onere del sistema sulle classi più povere. La Marmora aveva optato per il modello francese che aveva introdotto nell’esercito piemontese sin dal 1854.[xv]
Dopo l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859), Manfredo Fanti venne incaricato della riorganizzazione delle nuove divisioni formate dalle Lega dell'Italia Centrale (comprendente Granducato di Toscana, Ducato di Parma, Ducato di Modena, Legazioni) e, nel giro di pochi mesi, seppe trasformarle in un funzionante corpo di 45.000 uomini. Per dare manifestazione visibile al nuovo stato di cose, diede avvio alla nuova Scuola Militare di Fanteria di Modena, ospitata nel palazzo del deposto duca.
Certo è che, dopo cinque anni, l’Esercito Italiano non aveva ancora la coesione necessaria per sostenere una guerra contro un solido esercito come era quello austriaco: la leadership era costituita da ufficiali che si erano ottimamente distinti come generali nel piccolo esercito piemontese, nell’esercito garibaldino e nell’esercito napoletano, ma che erano ben lontani dall’essere ottimi generali. In quell’epoca “pochi generali sapevano e i grandissimi insegnamenti delle guerre napoleoniche erano stati lasciati nel più completo oblio, tranne che da alcuni generali prussiani della scuola di Clausewitz[xvi]. Più in particolare, i generali italiani avevano una competenza tecnica ed un’esperienza decisamente inferiore rispetto a quella degli ufficiali austriaci e prussiani.  
(b)       Esercito Imperiale
L’Armata del Sud era formata da tre Corpi d’Armata, il V, il VII e il IX, da una Divisione di fanteria di “riserva”, dai presidi delle fortezze e dalle milizie territoriali in Tirolo. A comandare i tre Corpi destinati alla fronte meridionale furono chiamati, rispettivamente, il principe Federico di Liechtenstein (V), sostituito poi, per motivi di salute, dal maggior generale Rodich, il Generale Möring (VII), il tenente maresciallo Hartung (IX). Il Comandante della Divisione di Riserva, dapprima assegnata al Maggior Generale Rodich, fu il Maggior Generale Rupprecht.
In totale l'Armata Imperiale del Sud disponeva di  143000 uomini, 15000 cavalli e 192 pezzi d'artiglieria. Escludendo le forze impegnate nei servizi di fortezza e nel controllo delle vie di comunicazioni, per le operazioni vere e proprie rimanevano circa 94500 uomini, 12500 cavali e 168 pezzi di artiglieria, di cui 19000 uomini e 24 cannoni impegnati nel Tirolo. Il Comandante in capo dell’Armata, Arciduca Alberto, adattò il piano di battaglia, solo dopo essere venuto a conoscenza della disposizione delle truppe italiane in due masse distinte. Sfruttando, infatti, la posizione centrale delle proprie truppe, l’Arciduca Alberto aveva la possibilità di operare per linee interne ed affrontare separatamente le due armate italiane.
L'unità tattica dell'Esercito imperiale era la Brigata. Ogni Corpo d'Armata, infatti, era composto di tre brigate di fanteria, da quattro squadroni di cavalleria, da tre batterie d’artiglieria. La brigata austriaca, così come era concepita, era molto pesante e in quanto tale molto difficile da manovrare, ma allo stesso tempo troppo piccola per operare con la stessa autonomia di una divisione (7000 unità). Non a caso, dopo la Guerra austro-prussiana del 1866, l’Austria decise di tornare alle divisioni.
Infine, l’Armata austriaca del sud, come del resto tutto l’Esercito Imperiale, era dotato di gavette-marmitta che permetteva di cucinare il rancio senza aspettare tutto l’apparato logistico di supporto.
L’Esercito Imperiale era tradizionalmente composto da soldati diversi per etnia, estrazione sociale, lingua e religione. Pur tuttavia, appariva come una delle istituzioni più solide e civili dell’epoca soprattutto per l’attenzione che veniva posta nell’amalgamare “tanti individui di diversa nazionalità, per il sistema di stanziamento e di trasferimento delle truppe [xvii] che contribuivano a sedare gli eccessi di persone che, comunque, erano docili e umili per natura. La forza di questo esercito era nella disciplina, nella fedeltà alla corona, nella devozione, nello spirito di sacrificio. Pur avendo conosciuto sonore sconfitte, soprattutto ad opera delle forze napoleoniche, l’Esercito Austriaco non si era mai sfaldato soprattutto all’orgoglio dei propri soldati, allo spirito di corpo e al cameratismo[xviii].
Da un punto di vista tattico, la fanteria austriaca era ben equipaggiata (Lorenz, cal. 13,9 mm) e ben addestrata, soprattutto nell’arte della difesa; la cavalleria era tradizionalmente buona, ben montata e addestrata. La cavalleria leggera, costituita da ussari e ulani[xix], era molto efficiente e tradizionalmente temuta da tutti gli eserciti europei. Tutta la cavalleria era equipaggiata con fucile Lorenz, cal. 13,9 mm, modificata per personale a cavallo.
L’artiglieria non era conosciuta per le sue gesta, pur essendo ben equipaggiata con pezzi da 8 e 4 libbre, nonché dotata di artiglierie di tipo shrapnel, cioè in grado di lanciare granate a frammentazione.
Anche il genio era ben addestrato e ben equipaggiato. Particolarmente conosciuto all’epoca dei fatti era il genio pontieri.
Il personale e l’organizzazione dello Stato Maggiore era il fiore all’occhiello dell’Esercito Imperiale che, comunque, presentava dei grossi difetti soprattutto per quanto riguardava la qualità dei comandanti e la scarsezza degli ufficiali, in proporzione alla truppa[xx].  
(2)  Dislocazione iniziale. La posizione sul terreno delle forze; 1° o 2° schiera. Dislocazione dell’organizzazione logistica
(a)       Esercito Italiano
Secondo quanto stabilito nella dichiarazione di guerra consegnata il 20 giugno 1866, le ostilità avrebbero dovuto iniziare tre giorni dopo la consegna della missiva avvenuta in pari data. A parte qualche isolato episodio, nulla aveva messo in discussione la calma con la quale il 23 giugno 1866 si stavano svolgendo le operazioni di attraverso del Mincio da parte dell’Armata sotto il comando del Re Vittorio Emanuele II e del Generale Alfonso La Marmora.
Sin dalla mattina del 23 giugno 1866, il comando supremo diede disposizioni affinché l’Armata del Mincio si assicurasse nel più breve tempo possibile i passaggi sul fiume a Mozambano, Borghetto e Goito. Il I e il III Corpo d’Armata dovevano passare il Mincio e spingere l’avanguardia sino all’Adige. Il II Corpo d’Armata, operando più a sud, avrebbe dovuto manovrare davanti a Mantova e Borgoforte. In particolare:
-      I Corpo d’Armata: passa il Mincio a Mozambano, Borghetto, Molini di Volta e Pozzolo e stanzia il Quartier Generale a Volta:
·       La 1^ Divisione (Gen. Cerale) passa il Mincio a Monzambano e occupa la riva sinistra del fiume, mentre l’avanguardia si trova in marcia tra Monte Sabbione, Monte Magrino e il Torrione.
·       La 2^ Divisione (Gen. Pianell) rimane sulla destra del Mincio a difesa di eventuali incursioni austriache provenienti dalla fortezza di Peschiera e a copertura di Pozzolengo.
·       La 3^ Divisione (Gen. Brignone) passa il Mincio, su ponte gettato dal genio militare, nei pressi di Volta e prende posizione a Pozzolo.
·       La 5^ Divisione (Gen. Sirtori) passa il Mincio a Borghetto e si rafforza su Valeggio, lasciando una Brigata sulla destra del Mincio.
-      II Corpo: stanzia il Quartier Generale a Castelluccio, marcia per occupare Curtatone e Montanara per poi essere pronto a muovere verso Goito e Villafranca:
·       La 4^ Divisione (Gen. Nunziante) marcia su Borgoforte con un’aliquota sulla sinistra e un’aliquota sulla destra del Po.
·       La 6^ Divisione (Gen. Cosenz) marcia per l’occupazione di Curtatone e Montanara e il controllo della strada Mantova-Borgoforte.
·       La 10^ Divisione (Gen. Angioletti) si muove a cavallo della strada Gazzuolo-Mantova per il controllo della stessa, attestata all’altezza di Gabbiana.
·       La 19^ Divisione (Gen. Longoni) stanzia tra Ospitaletto e Carobbio.
-      III Corpo d’Armata: l’intera unità passa il Mincio a Goito, sotto la protezione della Divisione di Cavalleria, stanzia il proprio Quartier Generale a Goito e si dirige verso Belvedere, Roverbella e Villabona. In particolare:
·       La 7^ Divisione (Gen. Bixio) passa il fiume Mincio a Goito, seguita dalla Divisione di Cavalleria di linea (Gen. De Sonnaz), ricerca il collegamento a sinistra con la 3^ Divisione del I Corpo e si dirige verso Villafranca lungo le rotabili Massimbona-Villafranca e Roverbella-Villafranca.
·       La 8^ Divisione (Gen. Cugia) passa il Mincio, su un ponte gettato dal genio militare, a nord di Goito e prende posizione nei pressi di Pozzolo nei pressi di località Case alla Pace.
·       La 9^ Divisione (Gen. Govone) passa il Mincio a Goito e si mette in marcia lungo la strada Goito-Mantova.
·       La 16^ Divisione (Principe Umberto) passa il Mincio a Goito e, procedendo verso Villafranca, si schiera a destra della 7^ Divisione.
·       La Brigata di Cavalleria Leggera (Gen. Pralormo) in esplorazione fra Marengo e Massimbona, si attesta nell’area intorno a Casa Aldegatti.
-      IV Corpo d’Armata (detto Armata del Po), rimanendo sulla destra del Po, la sera del 23 giugno 1866 non era ancora in grado di passare il fiume, nonostante tutte le misure fossero state adottate. Il piano adottato dal Gen. Cialdini, d’altronde, prevedeva alcune attività dimostrative e diversive per il giorno 24 giugno per richiamare l’attenzione del nemico a sud e sud-est di Rovigo, a premessa delle vere operazioni di attraversamento del Po, tra Roversello e Ravalle, del grosso del Corpo d’Armata previste per il giorno 25 giugno dopo che il genio avrà gettato tre ponti sul fiume. L’obiettivo era quello di raggiungere la sponda dell’Adige a circa venti chilometri dal Po, entro il giorno 26 giugno. Il piano poteva andare a buon fine se l’Armata del Gen. La Marmora avesse condotto adeguatamente le operazioni dimostrative sul Mincio in modo da attirare il grosso delle forze austriache da quella parte.
In sintesi, il giorno 23 giugno, data di inizio delle ostilità, l’Armata del Mincio  era disseminata su una fronte di circa 35 chilometri (Mozambano-San. Silvestro) con un forte sbilanciamento verso sud-ovest tale per cui sulla linea del Mincio l’esercito italiano veniva a perdere la superiorità numerica che tanto era stata lodata all’inizio della guerra.
Inoltre, tutte le unità che si trovano sulla sinistra del Mincio, ad eccezione di quella del Gen. Brignone (3^ Divisione), hanno al seguito tutti i carriaggi necessari al sostegno logistico delle unità.
(b)       Esercito Imperiale
Alla data di inizio delle ostilità il dispositivo militare imperiale ha eseguito perfettamente gli ordini impartiti dall’Arciduca Alberto tesi ad ammassare le forze sulla destra dell’Adige, occupare il terreno ad est di Peschiera, pronte ad attaccare il nemico sul fianco sinistro. In particolare:
-      la Divisione di Riserva, dopo essersi ammassata attorno a Pastrengo, avanza con una brigata al fine di occupare Castelnovo.
-      Il V Corpo d’Armata, dopo essersi organizzata nella zona di Chievo, muove per raggiungere Santa Giustina.
-      Il VII Corpo d’Armata è disposto vicino a San Massimo.
-      Il IX Corpo d’Armata, dopo aver passato l’Adige, è ubicata nei pressi di Santa Lucia.
-      le Brigate di cavalleria Pulz e Bujanovics in attività di esplorazione verso Sommacampagna e Villafranca.
Ad eccezione di un battaglione e quattro squadroni di cavalleria, lasciati a guardia del Po, tutte le forze austriache sono concentrate in un fazzoletto di terreno ad ovest di Verona pronti a muovere contro l’esercito italiano.
Inoltre, tutti i bagagli di tutte le unità e i carriaggi vengono lasciati sulla sinistra dell’Adige, mentre il Quartier Generale dell’Armata del sud veniva ubicato a San Massimo.



[i] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 3
[ii] Gioannini M. e Massobrio G., Custoza 1866 – La via italiana alla sconfitta,  Rizzoli, Milano, 2003, p. 102
[iii]    Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 94, pp. 89-94.
[iv]    Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 89.
[v]  Pollio A., Op. Cit., p. 91.
[vi] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 115.
[vii]    Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 29.
[viii]   Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 104.
[ix] Pollio A., Ibidem.
[x]  Idem
[xi] Pollio A., Op. Cit., p. 31
[xii]    Per linee interne, quando una massa centrale interposta fra due o più masse nemiche opera in modo da impegnare battaglia separatamente con ciascuna di esse.
[xiii]   Pollio A., Op. Cit., p. 37.
[xiv]   Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 29
[xv]    Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 35
[xvi]   Pollio A., Op. Cit., p. 4.
[xvii]  Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 144.
[xviii]  Idem
[xix]   I primi, di origine ungherese, e i secondi, di origine tartara e polacca, vantavano una secolare tradizione nella cavalleria leggera con compiti di esplorazione e di offensiva.
[xx]    Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., pp. 145-147.