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mercoledì 16 settembre 2015

Ercole Ercoli Medaglia d'dOro. Una Nota di Franz Roseler


 Su "Sport Illustrato e la Guerra" Franco Scarioni raccontò mirabilmente l'eroica avventura del capitano del 5° reggimento fanteria Ercole Ercole di Torre Annunziata (Napoli) che fu considerata l'impresa più avventurosa della nostra guerra aerea
 (vedere La Stampa del 3/11/1916 a pag. 4  ultima colonna a destra in alto http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,1/articleid,1183_01_1916_0306_0001_17587930/ )


Per questa azione di guerra in Albania al Capitano Ercole fu conferita il 26 ottobre 1916 la Medaglia d’Oro al valor militare con questa motivazione: “Pilota di un apparecchio, attaccato a circa 3000 metri di altezza da un velivolo da caccia nemico, visti nel combattimento aereo colpiti a morte i suoi compagni e forati i serbatoi della benzina, con sangue freddo eccezionale, mentre l‘apparecchio precipitava, lasciata la mitragliatrice che in quel momento manovrava, benché ferito al braccio sinistro, riusciva ad afferrare il volante e a raddrizzare il velivolo a meno di 300 metri da terra e, planando, atterrava presso Zarnec a circa 50 chilometri dalle nostre linee. Dato subito fuoco all’apparecchio distruttolo, benche esausto dalla perdita di sangue, riusciva a sfuggire alla cattura. Assalito da un indigeno, si liberava uccidendolo, e, dopo sette giorni di tensione di spirito, di grandi sofferenze e di privazioni, dando prova di energia e forza d’animo straordinarie, riusciva a traversare le linee nemiche ed a presentarsi ai nostri avamposti sulla Vojussa. Cielo di Zarnec, 13 ottobre 1916.”

Questo il testo integrale dell’articolo di Franco Scarioni:

“L'eroica avventura di Ercole”

"Ercole Ercole da Torre Annunziata {Napoli), capitano fant. batt. aviatori. - Pilota di un
apparecchio, attaccato a circa 3000 metri di altezza da un velivolo da caccia nemico, visti nel
combattimento aereo colpiti a morte i suoi compagni e forati i serbatoi della benzina, con sangue freddo eccezionale, mentre l'apparecchio precipitava, lasciata la mitragliatrice che in quel momento manovrava, benché ferito al braccio sinistro, riusciva ad afferrare il volante e a raddrizzare il velivolo a meno di 300 metri da terra, e, planando, atterrava presso Xarnec a circa 50 chilometri dalle nostre linee. Dato subito fuoco all'apparecchio e distruttolo, benché esausto dalla perdita del sangue, riusciva a sfuggire alla cattura. Assalito da un indigeno,si liberava uccidendolo, e, dopo sette giorni di tensione di spirito, di grandi sofferenze e di privazioni, dando prova di energia e forza d'animo straordinarie, riusciva a traversare le linee nemiche ed a presentarsi ai nostri avamposti sulla Vojussa. Cielo di Zarnec, 13 ottobre 1916 - Medaglia d'oro.

Il capitano Ercole si meritò, insieme al tenente Laureati,in occasione del raid su Lubiana, 18
febbraio 1916, la medaglia d'argento.

Viaggio calmo e regolare. Dinnanzi e quasi perduti nelle prime luci rosee dell'aurora, e già oltre la
Vojussa tra la sterminata piana acquitrinosa della palude di Licet Literbuf ed il lungo dorso
montano delle colline di Malizia,sono i quattro Savoia-Farman che corrono decisi alla loro meta,
volteggiano di già sui bersagli, osservano, colpiscono, si aggirano in ampie spirali sugli
attendamenti, sopra i parchi di carreggio, sul nodo stradale e si muovono in evoluzioni ritmiche,
quasi legati nello spazio immenso da un comando unico, come una squadriglia di cacciatorpediniere
che batta il mare.
Poi i Caproni che corrono per l'aria verso una meta più lontana. Ed ecco nella rapidissima corsa pel
cielo calmo e terso, per l'aria limpida e frizzante, la immensa palude, il tortuoso Semeni scintillante
sotto i primi raggi del sole, la piana folta di pinete di Divjaka e lo Scumbi maestoso nella sua foce
amplissima e giallastra, il massiccio di Kapo Laghi e finalmente,avanguardia di Durazzo, il piano
brullo infinito di Kavaja e le case numerose delle borgate disseminate su due file normali ad un
altro folto gruppo di caseggiati.
E qui le prime avvisaglie della guerra nel cielo. Gli hangars situati a sud del paese hanno di già
spalancato i loro battenti e quando il primo Caproni corre su di loro e gli altri bersagli celati nella
borgata, lasciando cadere grosse bombe che scoperchiano i tetti, sgretolano i muri, squarciano i
magazzeni, sollevano immani colonne di fumo e di terriccio, già scorge sotto di sé a quota bassa
due apparecchi nemici.
Ma di ciò nessuno si preoccupa. Il secondo Caproni s'indugia per qualche tempo nello spazio,
spiraleggia sopra i bersagli, attende che il diradarsi del fumo e della terra sospesi nello spazio, gli
permetta di osservare i risultati del tiro e di scegliere nuovi obbiettivi da colpire. Poi, mentre i due
velivoli nemici, tardi nei movimenti e pigri nell'ascesa, tentano di portarsi di fianco o sopra il nostro
apparecchio, questi inizia la sua opera di distruzione. La pioggia di bombe è ancora più intensa, il
fuoco ancor più micidiale. I grossi calibri raggiungono tutti i bersagli ed i piccoli battono le
contrade, la campagna immediatamente a ridosso dei caseggiati e sulla quale fuggono terrorizzati
soldati ed indigeni. Di sotto è per qualche minuto un inferno. Si sfasciano alti caseggiati, volano per
l'aria nuove macerie ed il paese è tutto preso, tutto gravato sotto un nuvolone giallastro.
Un nuovo più ampio giro sulla posizione efficacemente battuta, poi ecco drizzata la carlinga verso
l'Adriatico, verso l'isola di Saseno lontana ma distinta, mentre dal paese che si perde nella
lontananza si drizzano al cielo densi pennacchi di fumo ed i due velivoli austriaci ansano in una
vana rincorsa.
E' sulla via del ritorno, così come dopo ogni impresa: da Lubiana, da Trieste, da Fiume e da
Durazzo stessa, che si ingaggia la decisiva lotta nel cielo.
Gli apparecchi nemici da caccia si erano elevati nel cielo da Divjaka, dove operavano i Savoia-
Farman e ad una quarantina di chilometri a sud dal luogo dove i Caproni stavano
contemporaneamente operando. L'allarme s'era propagato con qualche lentezza, nel mattino che
aveva forse trovato pigre ed incerte le vedette: ma non giungeva tardi. Erano troppo addentro nel
territorio nemico i grossi apparecchi italiani perchè potessero sottrarsi all'attacco. E poi non
l'avrebbero mai rifiutato il combattimento. Lo sapevano gli austriaci e su ciò confidavano e
temevano. Non s'era forse svolto poco più di un mese prima un serrato e furioso duello aereo fra
otto apparecchi, proprio sulla baia di Durazzo, nel cuore del territorio nemico a quasi novanta
chilometri dalle linee italiane? Non s'era di proposito gettato contro un Fokker in uno dei più
appassionanti duelli aerei, l'eroico capitano Pesci che immolava la sua vita nel gesto ardito, nella
sfida audace? Si sarebbe dunque svolto nel cielo il secondo epilogo della rinnovata audacia italiana.

LO SCONTRO AEREO

Un primo Fokker drizzatosi fulmineo mentre le prime bombe lanciate dai Savoia-Farman
devastavano gli accampamenti di Divjaka, s'era buttato come un falco sui quattro apparecchi
italiani. D'ogni lato portava l'attacco: inabissandosi dall'alto, portandosi improvvisamente sui
fianchi, tentando di aprirsi un varco fra la squadriglia che ancora tutta spiegata in linea di battaglia,
ben collegata ed unita, stava riprendendo la via del ritorno. Ma ogni attacco s'era spuntato contro
questa alata barriera che lanciava dalle sue mitragliere ventate di fuoco e s'andava spostando
sull'Adriatico per svolgere su di un campo meno sfavorevole la sua azione controffensiva. Infine il
Fokker, scoraggiato, abbandonava la lotta per raggiungere verso il nord il compagno che come un
piccolo punto si delineava nello spazio verso Kavaja. Segno glorioso della breve, serrata ed
incruenta lotta : la carlinga di un Savoia-Farman crivellata nella sua aguzza prora da una piccola
rosa di buchi. I proiettili perforanti austriaci erano sgusciati fra le gambe di due degli audaci
navigatori dell'aria.
Ma non era che una tregua. La lotta veniva spostata al nord. Sulla via del ritorno i due Caproni si
seguono in linea ad una distanza di circa 800 metri e poiché non è conveniente attaccare il primo
che potrebbe ricevere immediato aiuto dall'altro, si tenta la sorpresa sull'ultimo. Infatti quel punto
ch'era segnato appena sul cielo di Kavaja, ha seguito in una fulminea discesa il volo del secondo
Caproni e l'attacco è seguito improvviso e decisivo. I nostri navigatori hanno appena il tempo di
avvertire la minaccia e di gettarsi ai loro posti di combattimento.
Il primo a scorgere il Fokker è il capitano Corbelli che sta alla mitragliatrice posteriore. Una toccata
di spalla al capitano Ercole e questi cede i comandi al brigadiere Mocellin e si porta alla
mitragliatrice anteriore. Da qualunque parte si presenti l'attacco, il nemico avrà degna risposta.
Intanto il capitano Ercole tenta di richiamare l'attenzione del primo apparecchio sparando qualche
colpo in alto. Ma gli altri non se ne accorgono che troppo tardi.
La manovra del Fokker è rapida e facile. Si trova a 3200 metri d'altezza, 500 circa sopra il nostro
apparecchio e scende gradini con piccoli planés e con brevi richiami in linea di volo. La distanza
diminuisce rapidamente. Il capitano Corbelli imperturbabile corregge il puntamento della
mitragliera ed attende. Un'ultima picchiata del Fokker, ed eccolo nella sua inclinazione massima,
apparecchio e mitragliera puntati su tutto il fusellage del Caproni.
Sembra lo debba investire violentemente di coda. Le due mitragliere nemiche aprono il fuoco nello
stesso tempo. Per pochi decimi di secondi il crepitar secco dei colpi domina l'ansar dei motori. Ma è
un'ondata terribile quella che investe dall'alto in basso la carlinga del Caproni. Il capitano Corbelli
colpito al petto, abbandona la impugnatura della mitragliera, alza le mani e s'abbatte di schianto
nell'angusta passerella. Le altre pallottole perforanti crivellano i grossi serbatoi di rame, li
trapassano ed investono tutta la prora della carlinga.
Il brigadiere Mocellin ha un sussulto, lascia le leve di comando e si abbatte su di un fianco mentre
due rivoli rossi di sangue gli solcano dalla fronte tutto il viso. Il capitano Ercole non può muovere il
braccio sinistro. Quasi nello stesso istante il Fokker sfiorando tutto il Caproni scende
vorticosamente a picco nello spazio.
Lanciati nel vuoto
Ma v'è ancora un'anima viva sull'apparecchio di morte che abbandonato a sé si inabissa, quasi per
seguire il tragico destino dei suoi piloti. Il capitano Ercole, più che vista ha intuito la fulminea e
tragica azione, e quando il Caproni sta iniziando la paurosa caduta egli è già in piedi aggrappato ai
bordi della carlinga per raggiungere il seggiolino di guida.
E qui comincia l'odissea del suo eroismo fra i morti; sulla morta aeronave, nella visione d'una fine
spaventosa egli non lascia prevalere l'Istinto della conservazione, ma su tutto impone la calma, la
sicura scienza del guidatore. Non giuoca il tutto per il tutto, contende, nella manovra, la sua vita alla
morte.
Raggiunge il seggiolino, s'aggrappa ai comandi, gira il volante solo di quanto è necessario per non
mutare in schianto la catastrofe che già sembra inevitabile. Sotto le sue mani (una è contratta nello
spasimo della ferita che ha al braccio sinistro) egli calcola lo sforzo che può, che deve subire
l'apparecchio per rimettersi in linea di volo. Ed è un calcolo freddo, pacato, un richiamo progressivo
e quasi dolce dei timoni nel precipizio, fra la violenza dell'aria che turbina d'attorno, mozzando il
respiro, nella visione netta, fatale della terra che si avvicina rapidamente tutta irta di mille ostacoli e
sembra allarghi mostruose braccia per accogliere il naviglio dell'aria in un ultimo amplesso.
Bisogna pensare a questo immane sforzo di volontà: bisogna figurarsi la tragica visione di un
convoglio di morti lanciato perdutamente nello spazio e conteso all'ultima ruina da un moribondo:
bisogna portarsi accanto a questo purissimo eroe e vederlo così minuscolo com'è, così perduto nella
vastità della carlinga intrisa di sangue e cosparsa di benzina, la testa di un compagno ucciso
poggiata sulla spalla ferita e dolorante, lottare senza disperazione contro la morte più disperata. Ed
allora soltanto si sente, si comprende la maestosa e terribile grandezza del gesto!
A 300 metri dal suolo il generoso velivolo dolcemente si rimette in linea di volo, mentre il motore
di destra, chissà mai per quale miracolo, riprende a funzionare. Di sotto il terreno è ampio e brullo.
L'ultimo piane è compiuto con precisione ed in breve l'apparecchio è fermo sul campo, addossato ad
un'alta siepe.
Per qualche tempo rimane silenzioso, il gigantesco aereoplano. Non clamore d'intorno, non una
voce, non un allarme. Silenzio nel cielo e sulla terra. Una pace strana sulla pace dei morti! Ercole è
ancora colle mani aggrappate al volante. Non può muoversi, non osa: è come prostrato da una
immane stanchezza, preso da un irresistibile bisogno di riposo, di pace. Poi è la stessa quiete sinistra
che lo circonda, quella che lo richiama alla realtà. La testa del povero Mocellin gli grava sulla
spalla, quasi sulla ferita. La scosta e dolcemente la scuote, tenta deviare i due lenti rigagnoli di
sangue che imbrattano il viso, lo chiama per nome, gli alza un braccio che scivola, nella rigidità e
nel peso grave della morte, su di un serbatoio.
Allora si leva e come vede dietro a sé tutto steso il capitano Corbelli, si china su di lui, gli tocca la
fronte ghiaccia, gli accarezza il bel viso freddo, cereo, composto nella calma e dolce serenità che
aveva nei bei giorni della vita, gli apre la giubba e quando scorge sul petto glorioso una piccola e
spessa rosa di buchi, s'inginocchia e piange. Ma il martirio non ha ancora fine!
La sommessa prece pei morti che Ercole dice nel suo pianto doloroso è interrotta bruscamente,
stornata, da urli o da imprecazioni. Un energumeno albanese gira forsennatamente attorno
all'apparecchio e sfoga la sua rabbia a colpi di tridente nei fianchi della carlinga, sulle ali inferiori.
Ercole è come stupito. Si leva, guazza nel miscuglio di sangue e di benzina, arriva alla prora della
carlinga e con tranquillità, col polso fermo, così come se dovesse compiere un'altra manovra, leva
da una custodia la Mauser. Spara, ed il malcapitato indigeno cade sotto l'apparecchio.
Un pericolo s'è però improvvisamente drizzato. Qualcuno ha dunque visto ed è accorso. Altri
accorreranno ed avranno a guida la secca detonazione della pistola. Bisogna compiere il sacrificio:
distruggere, distruggere subito e ad ogni costo. Ma come? Come, se i due morti compagni giacciono
ai loro posti di combattimento, sereni, composti e quasi sembrano implorare che nessuno li tocchi,
che nessuno violi quello che fu l'orgoglio loro in vita, ed ora la tomba? Come levarli dall'alta
carlinga, deporli sul terreno e comporli lontano dall'apparecchio? Come? Come, con un braccio
spezzato, con le forze prostrate dalla lotta contro gli elementi? Ed il tempo passa veloce, il pericolo
incalza. Da lontano si profilano figure d'armati. Su nel cielo alto si delinea un punto.

Il rogo sacro

Una sorda angoscia stringe l'animo del capitano Ercole. Egli gira smarrito attorno al velivolo
intatto. S'allontana di qualche passo. Ritorna. S'aggrappa ai pedalini della carlinga. Li lascia. Si
getta a terra scorato, piangente, rannicchiandosi sotto il suo apparecchio, sotto la tomba dei suoi
morti, mentre la rossa rugiada che stilla dalla navicella imperla dolcemente la terra e lascia goccie
di rubini sui robusti sky del carrello.
Poi d'un colpo, come animato da una forza e da volontà sovrumana, sale freneticamente alla
carlinga, la scavalca, s'abbatte ginocchioni fra i due morti, e grida nel pianto: "Perdonatemi! fatemi
pietà dell'ultimo oltraggio! Non mi rimprovererai Corbelli? E tu mio buono, mio fedele Mocellin
non mi porterai rancore? Perdonatemi! non sono io! E’ il dovere! E’ la Patria! Chiedo perdono a voi
pei vostri cari che piangeranno lagrime amare, che cercheranno con ansia le vostre tombe per
bagnarle del loro pianto, che mi chiederanno ragione dell'ultimo vostro sacrificio! Perdonatemi! E'
il dovere! E’ Dio stesso che lo comanda!"
E con la mano sana che sembra abbia voluto raccogliere nella sua palma, nelle sue dita, tutta
l'ultima energia d'un corpo e d'una volontà, strappa i rubinetti, contorce. Poi scende, mentre la
benzina invade e si sparge copiosa sulle ali, ed appicca il fuoco. S'allontana barcollando per un
centinaio di metri, e s'abbatte di schianto nel piu folto d'una siepe: tutte le energie l’hanno
abbandonato. Dietro arde il rogo immenso. Una densa colonna di fumo nero ed acre s'alza in molli
spirali verso il cielo ed un crepitio secco di fucileria picchietta nell'aria. Le munizioni di bordo
esplodono.
Quando lo spasimo acuto della ferita lo richiama alla realtà delle cose, attorno alle fumanti rovine
del Caproni è raccolta una piccola folla, che commenta impaurita e sorpresa. Un prete ortodosso, un
gruppetto di bambini, delle donne, qualche indigeno armato. Più lontano e fermo, un grosso Aviatik
che s'è appena posato sul terreno. Due aviatori austriaci scendono, si dirigono verso il Caproni,
s'avvicinano ai monconi fumiganti, scrutano, toccano, scrollano il capo, ritornano al loro velivolo e
ripartono.
Il dramma è finito per gli avversari nostri. Anche la folla dirada e presto scompare.
Il capitano Ercole è sempre appiattato nella siepe, colla ferita che gli sanguina, le labbra arse da una
sete insaziabile, la fronte in fiamme, l'animo in tumulto. Un gemito, lo stormir di una fronda
potrebbe tradirlo, farlo consegnare vivo in mano agli odiati nemici, concedere loro l'ultima
soddisfazione.
Bisogna resistere ancora, vincersi e vincere ad ogni costo. E qui si compie l'ultimo e più fulgido atto
di questa breve epopea. Due pensieri, due desiderii, due amori campeggiano dominano nell'anima
dell'invitto dominatore dell'aria: "libertà e patria". Conseguire la prima per potersi ancor e sempre
dedicare all'altra.

L'avventurosa fuga

E tutto quel che verrà poi: l'affanno della lunga e dolorante fuga per le sterminate pianure, su per le
selvose valli, per i nudi ed aspri dorsi montani, entro le fetide ed immense paludi; i tormenti della
fame: le angoscie dei momenti decisivi: gli spasimi della disperazione: gli impeti folli delle
decisioni estreme: piccoli epiloghi d'un atto decisivo.
Bisogna affermarsi in un'idea precisa, in una volontà ferma ed incrollabile: pronunciare il voto,
giurare di compierlo al prezzo di indicibili sofferenze fìsiche e morali.
Il capitano Ercole si trascina carponi sull'orlo di uno stagno, leva a stento la giacca, strappa la
manica della maglia e della camicia, mette a nudo la ferita, quasi a consultare l'oroscopo della sua
libertà. Si disseta dell'acqua melmosa, in quella lava la piaga ... Ma non si smarrisce ancora. Non si
chiede ansioso se il braccio resisterà alla cancrena, se le forze lo abbandoneranno presto, se la morte
lo coglierà prima che egli possa raggiungere e varcare le nostre linee tanto, troppo lontane. Non
pensa e non teme le mille insidie che lo attendono. Scavalcherà ogni linea intricata di difesa,
sguscierà fra le scolte notturne, resisterà agli spasimi della sete, ai morsi della fame, a tutte le pene
dell'anima e del corpo. A tutto egli opporrà la sua ferma, la sua incrollabile, la sua imbattibile fede
nella libertà.
Un attimo solo di dubbio gli sfiora l'animo. Ed è preso da uno di quei ritorni infantili che
s'affacciano qualche volta sulla soglia delle situazioni più tragiche. Vuol chiedere alla sorte una
conferma, una nuova affermazione, quasi una spinta al suo volere. E' superstizioso: è napoletano.
Si fruga nelle tasche. Ma non ha una moneta sola sulla faccia o sul rovescio della quale leggere il
responso. Enumera allora gli occhielli dei lacci delle scarpe ... Se pari, s'arrenderà, rimarrà, si darà
vinto al destino..., se impari, partirà.... "Pari!" risponde ironica la innocua e strana sibilla.
“No! no! non mi arrendo! vivo no! non mi avranno! mai, mai!..." E l'animo ed il corpo sussultano
sotto questo spasimo di libertà, sotto questa fiamma purissima d'amor patrio.
Ed il minuscolo eroe, camuffato a mala pena da indigeno, col braccio dolorante, le labbra arse dalla
febbre della ferita e l'anima invasa da quella del desiderio, senza un aiuto, senza un soldo, vivrà
miracolosamente per sette lunghi giorni, camminerà per sette notti e prostrato ma non vinto
giungerà solo in un altro radioso mattino davanti alle linee nostre sulla sponda nemica della
Vojussa. E dopo che avrà gridato in un soffio alla scolta italiana il suo nome, appena giunto sulla
nuova terra d'Italia cadrà ginocchioni per piangere le più dolci, le più care, le più consolatrici
lagrime.

FRANCO SCARIONI

Capitano osservatore


(Dallo "Sport Illustrato e la Guerra").

lunedì 7 settembre 2015

FRANCO SCARIONI Un giornalista caduto nella Grande Guerra

Si accludono 2 reportages del giornalista Franco SCARIONI, Caduto nella Grande Guerra:

A) "LA TROPPO DURA SCONFITTA SUBITA DALLA JUVENTUS A GENOVA".

"Genoa batte Juventus 4 - 0.

da “La Gazzetta dello Sport” dell’11 Gennaio 1915"

"Genova, 10. La sconfitta subita in campo genoano dall’ undici juventino, sceso nella superba con
qualche velleità di conquista non proprio recondita, e grave e certamente sproporzionata, nell’esito
numerico, alla differenza che distingue l’undici vittorioso del Genoa dal plotone torinese.
Nonostante ciò si può sicuramente affermare che il match odierno superò ogni migliore attesa e se
la sfortuna si fosse un po’ meno accanita nel primo tempo contro gli striscioni torinesi, certo la gara
– che aveva già per natura sua i massimi caratteri della velocità, della spigliatezza di assieme e della
combattività vivace e tecnica – sarebbe assurto a dignità di una grande contesa e, impegnando più a
fondo il Genoa, avrebbe dato modo di stabilire un più preciso raffronto fra i due teams combattenti
e di dedurre più sicure previsioni per la lotta futura che involgerà anche i campioni d’Italia. Se
mancò il grande scontro, vi fu però un match che soddisfece ad usura le esigenze del folto pubblico
genoano, ormai specializzato in fatto di foot-ball.

UNA JUVENTUS NUOVO STILE. La Juventus nuovo stile è senza dubbio una bella e salda unità.
Oggi le facevano particolare difetto la mancanza di Dalmazzo, che valse da sola a slegare e
sconnettere tutto l’assetto rendendolo nullo proprio nel culminar delle azioni decisive iniziate di
lontano e portate con un giuoco deciso, veloce e scapigliato sin sulla porta difesa da Rolla, e la
cattiva giornata di Varalda: l’insufficienza dell’ half juventino lascio via libera da un lato al
pronunziarsi e al concretarsi del serrato e forte attacco genoano. In formazione compatta e in
giornata più felice, la Juventus avrebbe innalzato dinnanzi al Genoa una barriera non tanto
facilmente sormontabile e la vittoria non dubbia del genovesi – data la netta e sensibile supremazia
nel severo ordine tecnico – sarebbe stata assai più limitata. Un rapido esame della squadra vinta
trova buona la difesa, ben inquadrata sul trio Baldi-Bigatto-Faroppa. Il portiere, il bravo “Pony”
ebbe poi modo di prodigarsi in parate veramente classiche toccando ancora una volta quella fama di
virtuoso difensore della porta che venne sciupata una volta e purtroppo con conseguenze
indistruttibili in un disgraziato incontro internazionale disputato a Torino. Della coppia dei terzini il
migliore per correttezza e precisione di giuoco fu l’ex novarese. Bigatto e ancora troppo sbandato e
un po’ falloso nelle melèe. La linea mediana rimase in campo, nella sua reale formazione, soltanto
nel primo tempo, poiché nella ripresa l’ottimo Bona vista ormai perduta la partita corse a
rinfrancare l’attacco. Noi crediamo che se la mossa del tarchiato juventino non fosse stata ritardata
di tanto, un esito un po’ diverso avrebbe avuto la partita stessa. La presenza in prima linea di Bona
diede coesione e maggiore forza di penetrazione a tutto l’attacco e spinse incursioni rapide e decise
fino alla rete di Rolla, sciupandole purtroppo di poi in tiri imprecisi che fecero mancare sicuri goals
persino a porta indifesa. Ma, chiusa la breve parentesi, dei tre uomini della linea di sostegno il
migliore fu Boglietti II. Infaticabile, pronto e preciso, in un giuoco largo di distribuzione del pallone
e nel sostenere quasi da solo tutto il furioso contrattacco avversario; Bona a lato gli fu buon
compagno. Varalda dall’ altro manco completamente al compito suo. L’attacco svolgente fino
all’esasperazione una trama unica di assalto basato sulle incursioni velocissime e travolgenti,
manco, come gia accennammo al risultato, soprattutto per l’assenza di un uomo che potesse
raccogliere e coordinare le azioni dei due binomi di destra e di sinistra. In ogni modo agli avanti
torinesi non difetta la sicurezza nel palleggio e la rapidità di azione.

IL GENOA PARI ALLA SUA FAMA. Il Genoa fu senza alcun dubbio in una giornata ottima.
Vorremmo dire eccezionale, facendo una lodevolissima eccezione per quello che tocca da vicino il
punto ordinariamente più debole di tutto lo squadrone rosso-bleu. Anche la linea mediana, il
lamentato tallone d’Achille della equipe curata da mister Garbutt fu sul terreno soffice ed asciutto
sicurissima e fiera della riconquistata efficienza sua. Sentendosi fin dai primi approcci dell’
impetuoso scontro ben salda e unita, si prodigo fino all’ esaurimento in un gioco brillante nel quale
tutti emersero: il tarchiato Magni con un giuoco di testa preciso e con rimandi forti, sicuri e ben
calcolati nel quale cercava di curare, più che gli fosse possibile e che gli consentisse il suo giuoco
ordinariamente sbandato, la distribuzione del pallone agli avanti. Il minuscolo Pella al quale difetta
solo la statura per essere un ottimo half; il modesto e valente Leale che cela come ape laboriosa
l’indefesso suo lavoro sotto le apparenze di un giuoco per lui facile e piano. E, trovato buono cio
che ordinariamente non lo è, il resto della squadra rese quanto ordinariamente dà. Dunque,
pressoché insormontabile l’estrema difesa, ora chiusa meraviglia anche sull’ estremo vertice con un
portierino agilissimo, energico e sicuro nella presa; buona nell’ attacco, nel quale permane ancora –
e permarrà finché qualcuno che in effetto ingombra o slega le azioni più piane e facili non ne sarà
tolto – un piccolo enigma: una risultante cioè minima, povera, intisichita di forze, magnificamente
chiusa in un quintetto di uomini rotti a tutte le malizie del giuoco ed in effetto tra i migliori
forwards nostri e che dovrebbero combinare attacchi assolutamente insostenibili per le più chiuse ed
agguerrite difese.

IL GIUOCO. L’ouverture dell’ incontro e fatta su di una impetuosa discesa dei genoani che serrano di un fitto assedio la rete di Faroppa. E Baldi, nell’ assillo della difesa, arresta, con uno di quei falli infantili che non trovano difensori neppure in chi li commette, la palla con la mano. De Vecchi non manca il penalty e così al 2.o minuto il Genoa è subito in vantaggio. La Juventus si scuote ed argina contrattaccando audacemente la continua minaccia rosso-bleu. Al 35.o minuto, dopo che “Pony” ha di già infranto con un plongeon ardito un fine e pericoloso lavoro di dribbling intessuto da Sardi e Santamaria portato fin presso la rete, Benvenuto, raccogliendo il debole rimando, infila di sorpresa la rete torinese. Nella ripresa vi e un maggiore equilibrio di forze. Gli juventini sono un po’ demoralizzati dal duplice insuccesso e giuocano senza troppa convinzione. Si rianimano quando vedono piu facile la via di accesso all’ estrema area avversaria. Allora attaccano con foga ma mancano in facili occasioni; mentre Sardi al 7.o minuto non sciupa un preciso traversone di Mariani e Magni segna per la quarta e ultima volta otto minuti appresso riprendendo una palla, sgusciata da una melèe provocata da un corner, e infilandola dritta dritta nella porta di Faroppa. Verso il finish il Genoa torna ad un netto sopravvento e allora l’estrema difesa torinese argina di forza, provocando qualche grido ostile della folla. Pedroni che si lasciò sfuggire con qualche offside anche qualche fallo abbastanza grave – disse lui per non guastare la continuità del giuoco – fischiò però poco dopo il termine della brillante e movimentatissima gara. Fu però arbitro energico e coscienzioso ed il risultato dell’ incontro, per quanto riesca un po’ ostile agli sfortunati juventini; non ha di certo subito alcuna influenza d’ordine … arbitrale.

Franco Scarioni.

Gazzetta dello Sport – 11 Gennaio 1915, Milano"