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giovedì 4 giugno 2015

Ancona. Testo Conferenza: 24 maggio 1915: l'Italia entra in guerra

Nell'ambito delle celebrazioni pr il centenario della Grande Guerra, Il Magnifico rettore della Università Politecnica delle Marche ed il Comandante del Comando Militare Esercito Marche, d'intesa con il Prefetto di Ancona, 
hanno organizzato una conferenza
dal titolo: 
24 maggio 1915: l'Italia Entra in Guerra
 ordinata su due relazioni
 Una del Magg Gen Massimo Coltrinari, il cui testo è riportato sotto, l'altra dal prof. Roberto GUglianelli
il cui testo sarà pubblicato appena avuta l'autorizzazione.



Università Politecnica delle Marche
26 maggio 2015


Magg. Gen. (aus) Massimo Coltrinari
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24 maggio 1915: l’Italia entra in guerra
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(Testo Esteso. Riportato anche il riferimento al Power Point disponibile)


La dichiarazione di neutralità proclamata dall’Italia il 2 agosto 1914 faceva terminare in modo irreversibile gli effetti diplomatico-militari della Triplice Alleanza, alleanza con l’Austria e con l’Ungheria che durava da oltre trent’anni, dal 1882. Cadevano anche gli accordi delle convenzioni militari con Germania ed Austria, di cui la più recente convenzione era ancora fresca di inchiostro essendo stata stipulata nel marzo 1914.
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La dichiarazione di neutralità apre la grande stagione dell’interventismo che durerà in modo sempre più intenso per circa 10 mesi. Una stagione che vide attivi anche i neutralisti, ancora propugnatori della Triplice Alleanza, e fautori di richieste dell’Austria. In cambio della nostra neutralità o meglio della nostra non entrata in guerra chiedevano “compensi” che, via via erano sempre più consistenti, andando ad alimentare quell’accezione che l’Italia avrebbe ottenuto moltissimo senza la guerra, senza i sacrifici immani del primo conflitto mondiale. E’ il “parecchio” di giolittiana memoria, che in realtà era più che altro un tergiversare interessato dell’Austria, convintissima di poter vincere la guerra, insieme alla Germania, e covava la riserva mentale che al momento opportuno l’Italia avrebbe pagato ogni cosa.
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L’interventismo non faceva calcoli. Per primo si mossero i repubblicani e quanti si rifacevano al risorgimento nazionale; il volontariato garibaldino si mobilitò ed organizzò prima formazioni minori di volontari accorsi in Francia a combattere per la Francia, e poi formò la Legione Garibaldina che con la divisa della legione straniera combattè nelle Argonne dal dicembre  1914 al febbraio 1915. Il valore e l’eco delle gesta garibaldine in Francia (caddero tra gli altri Bruno e Costante Garibaldi, nipoti dell’Eroe dei due Mondi, e Lamberto Duranti, anconetano, il primo giornalista caduto nella Guerra Mondiale) rinforzò le fila interventiste.

Accanto ai futuristi, la corrente letteraria che vedeva tra gli altri Filippo Maria Marinetti e tanti altri esponenti di spicco del mondo dell’arte e della pittura e scultura italiana del tempo, agirono come interventisti uomini che incisero anche negli anni futuri nelle vicende italiane. Qui ad Ancona basti ricordare Filippo Corridoni, che poi cadde il 25 ottobre 1915 alla Trincea delle frasche, Medaglia d’Oro al Valor Militare e a cui è intitolata la sua città natale, Corridonia, Pietro Nenni, direttore di quel giornale che ancora oggi si stampa in Ancona, “Il Lucifero”, e Benito Mussolini, socialista, direttore dell”Avanti” che nel novembre 1914, proprio per aver aderito alle idee interventiste, fondò il “Popolo d’Italia”, a cui collaboro in modo fattivo e costante anche Cesare Battisti.

Sul piano strettamente militare, non si può comprendere a pieno le decisioni prese nel maggio 1915 se non si fa un brevissimo cenno a quelli che erano i due principali argomenti in discussione: la soluzione del problema strategico, dopo la dichiarazione di neutralità,  ed un ancor più breve cenno al problema tattico.
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 Il problema strategico era da anni allo studio dello Stato Maggiore Italiano.
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Qui non vi è lo spazio per approfondirlo.
Cadorna lo risolse con il famoso “sbalzo in avanti”
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 Il problema tattico Cadorna lo risolse con la emanazione del famoso Libretto Rosso che è all’origine di polemiche e discussioni da oltre cent’anni
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L’interventismo, quindi,  preparò l’opinione pubblica italiana alla guerra. Quindi l’azione politica e quella diplomatica si poterono esplicare in modo positivo e propositivo, in modo tale che fu superata la crisi governativa gravissima del 12-15 maggio 1915, in cui il Governo Salandra, firmatario del patto di Londra, rassegnò le dimissioni. Un patto di Londra che ha una genesi veramente sorprendente
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Dopo accordi preliminari ed in un contesto che merita un più approfondito studio per le conseguenze che puoi ebbe negli anni a venire, per comprendere come mai i nostri responsabili politici e diplomatici del tempo siano stati così superficiali, l’Italia firma con la Gran Bretagna e con la Francia ed i loro alleati, il noto “Patto di Londra”, il 24 aprile 1915. Tra le clausole, alcune accettate dai nostri rappresentanti con troppa leggerezza, vi era quella che l’Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese dalla firma del Patto. Altre clausole furono in seguito oggetto di controversie, tanto che quello che poi passò sotto il nome di “Vittoria Mutilata” ha l’origine in questi accordi poco chiari e poco meditati.

Sul piano militare il Patto di Londra prevedeva la stipula immediata di una convenzione militare.[1]
Tale convenzione fu firmata a Parigi il 2 maggio 1915; una convenzione, come fa rilevare Antonello Biagini, che poneva le basi non solo per la futura collaborazione fra gli alleati, ma dava anche una indicazione precisa circa lo sforzo russo contro l’Austria-Ungheria.[2] In modo appropriato Giorgio Rochat sottolinea come non avesse senso fissare, in termini militari in questa sede le cifre, mentre era importante indicare con chiarezza la necessità di uno sforzo comune italo-russo contro l’esercito austro-ungarico.[3] 

Con questa convenzione si delineava chiaramente che era necessario legare strettamente gli alleati tra loro e quindi ogni sforzo doveva essere armonizzato con quello degli altri; inoltre,  si mettevano condizioni e paletti ben precisi all’operato degli Stati firmatari, come ad esempio quello di impedire la firma di armistizi separati, di calibrare lo sforzo bellico, di creare le condizioni per la costituzione di un Comando Unico delle operazioni su tutte le fronti, cercare di armonizzare le aspirazioni, spesso contrastanti tra loro, dei francesi, inglesi, russi e degli italiani.

Questa convenzione non ebbe tanto fortuna. Il problema del Comando Unico, che vide accesi dibattiti in svariate sedi, non fu mai risolto; il coordinamento delle varie operazioni fu scarso, e quando si riuscì a realizzarlo ci fu solo attraverso le conferenze interalleate, che erano organi occasionali e temporanei.

Si avviò anche gli accordi per una convenzione militare con la Russia. Il 5 maggio 1915 il colonnello Edoardo Ropolo si presenta al Granduca Nicola, comandante in capo ed ebbe subito un colloquio con il Capo di Stato Maggiore Nicolay Januskevic. Entrambi convennero che occorreva coordinare gli sforzi: i Russi si trovavano sulla linea dei Carpazi ed avevano come obbiettivo di raggiungere la pianura ungherese battere l’esercito Austro-Ungarico con l’aiuto dell’Esercito italiano e serbo. Fu preparata la convenzione italo-russa che fu firmata il 21 maggio 2015 a Pietrogrado. Ma nonostante questo nello sbalzo iniziale l’influenza delle operazioni russe non ebbe alcun esito.

 Il Comando Supremo aveva provveduto, con lo scorrere dei mesi alla mobilitazione,
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 che fu autorizzata dal governo solo nella primavera del 1915, con colpevole ritardo.
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Il 4 maggio 1915 fu denunciato il Patto della Triplice Alleanza che convinse l’Austria che l’Italia ormai aveva deciso di intervenire; da qui si perse il vantaggio della sorpresa perchè l’Austria iniziò a predisporre le difese nel suo settore meridionale. Ebbe venti giorni di tempo per preparare la propria difesa contro cui si infransero gli attacchi italiani delle prime battaglie dell’Isonzo.

Il Comando Supremo, una volta messo al corrente degli impegni che si erano presi, coscio della realtà, comunicò al Governo che prima del 20 maggio non sarebbe stato possibile dichiarare la guerra.

Iniziarono quelle due settimane, le più difficili per l’Italia, che sono la testimonianza di come l’Italia giungesse impreparata al conflitto. Un maggio che fu definito radioso, ma che radioso non lo fu per niente.
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Lo scontro tra interventisti e nazionalisti divenne sempre più duro. Il 5 maggio, a Quarto, Gabriele d’Annunzio pronuncia il suo discorso in occasione del 50° anniversario della partenza dei Mille avendo una eco veramente notevole.

I Neutralisti, con Giolitti in testa, accanto al Vaticano, ai cattolici ed a una  parte dei socialisti concentrano i loro sforzi appoggiandosi alle iniziative dei rappresentanti tedeschi in Italia, sia
 della Germania sia dell’Austria. In questo contesto arrivano le ultime offerte dell’Austria in cambio della neutralità italiana. E’ il “famoso “parecchio” ma nella sostanza non soddisfa le esigenze italiane, ovvero non ci viene concessa Trieste, punto focale delle trattative.
Inizia una settima veramente terribile per l’Italia e per i suoi destini
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Il parlamento è dominato dai neutralisti.  Giolitti sa che un passaggio parlamentare farebbe cadere il Governo. In questa situazione Francia e Gran Bretagna temono che gli accordi presi con l’Italia possano cadere e quindi sono sempre più diffidenti. La situazione raggiunge il punto culminante quando Salandra, capo del Governo, constata che non ha l’appoggio di tutti i partiti politici e rimette
il mandato al Re. Le dimissioni del Governo e le susseguenti trattative, tra il 14 ed il 19 maggio, sono i giorni più  difficili.
 Il Re ha in quel momento in mano il destino del Paese.
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Si hanno imponenti manifestazioni interventiste in tutta Italia; il Corriere della Sera di Luigi Alberini, Anconetano (un suo monumento è a Piazza Cavour, a testimonianza del suo amore per Ancona)  è capofila della campagna interventista, che sommata alla debolezza ed alla passività delle forze neutraliste, che non osano rischiare una crisi politica in questi frangenti, orientarono sempre più il Re verso la guerra.
Dopo consultazioni con tutti i maggiori esponenti politici decide di respingere le dimissioni del Governo; che significava  la dichiarazione di guerra.
Le Camere sono convocate regolarmente per il 20 maggio, e in due tornate, il Governo ha i pieni poteri. Viene predisposta la dichiarazione di guerra all’Austria che viene inviata il 22 maggio al nostro Ambasciatore a Vienna che la consegna il 23 maggio: dal 24 maggio 1915 l’Italia si considera in guerra con l’Austria.
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Solo i socialisti continuarono a proclamarsi contrari alla guerra , senza però promuovere una reale opposizione  secondo al formula nota del “ne aderire ne sabotare”. I cattolici ed i giolittiani finirono invece per sodalizzare con il Governo Calandra. Questi, chiuso in una concezione angusta della guerra, rifiutò ogni collaborazione  sia dei cattolici, sia dei giolittiani sia degli interventisti democratici  in quanto non vedeva i vantaggi di una “Unione Sacra” per il superiore interesse della Patria, ma continuava a ragionare in termini di rivincita politica della destra tradizionale. E questa scelta, per l’Italia, fu foriera in futuro di guai a non finire.

Questo difficile passaggio parlamentare e politico ha riflessi molto gravi sul piano militare. La diffidenza di Francia e Gran Bretagna, rallentano l’invio di materiale e equipaggiamenti promessi; l’Austria si è preparata e quindi l’effetto sorpresa svanisce; lasciamo all’Austria stessa l’iniziativa operativa.
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Questa si esplica con l’azione navale di bombardamento contro le coste marchigiane e romagnole nelle prime ore del 24 maggio 1915: è un obiettivo strategico: quello di creare le condizioni per una rivolta delle popolazioni sulla scia della Settimana Rossa che in queste regioni si era svolta l’anno prima.
I danni materiali nelle varie località attaccate (Porto Corsini, Rimini, Pesaro, Senigallia, Ancona) sono notevoli dal punto di vista materiale.
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Ancona viene duramente colpita
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L’attacco austriaco fece delle vittime, anche  tra i militari. Alla Caserma Stamura, che oggi non esiste più, fu colpito e smantellato il fabbricato adibito a prigione militare, come fu colpito il fabbricato adibito ad alloggiamento dei soldati. Vi furono tra loro 11 morti e parecchi feriti. Qui a Villarey, ove i soldati dormivano anche nei cortili, si ebbero tre morti .
Parecchi colpi caddero nei dintorni della caserma, in Via Villarey provocando danni alle cose e qualche ferito.
Il comportamento delle popolazione e quello dei soldati fu esemplare: subito ci si mise a  soccorrere i feriti e aiutare coloro che avevano bisogno. Dalle prime ore subito emerse quel concorde sostegno tra popolazione civile e militari che è alla base del consenso che si ebbe nei successivi anni di guerra e che rappresentò il fallimento dell’attacco austriaco.
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L’azione di uomini politici come Nenni, che qui in Ancona dirigeva “Il Lucifero”, Filippo Corridoni, Benito Mussolini, che fu un protagonista della Settimana Rossa, Cesare Battisti, ed esempi dei garibaldini, primo fra tutti l’anconetano Lamberto Duranti, tutti interventisti, determinò una adesione alla guerra, nel solco risorgimentale, insospettabile solamente l’anno prima.
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La tradizione risorgimentale si affermo e si impone

Ecco perchè si può dire che la Prima Guerra Mondiale è la IV guerra d’indipendenza, in cui si esplicò quanto detto prima, ovvero fatta l’Italia nel risorgimento, occorreva  fare gli Italiani. Le Marche  ed Ancona in particolare, il primo giorno di guerra, dimostrarono che questo assunto era reale.

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 Dalle Marche partì la prima azione di guerra contro l’Austria-Ungheria della Regia Marina. Al dirigibile, “Città di Ferrara” , il cui aeroscalo era a Jesi, fu affidata la prima operazione offensiva della guerra: il bombardamento della piazza di Pola, mentre al dirigibile “Città di Jesi” che aveva come aeroscalo Ferrara, fu affidata identica missione, che per avverse condizioni meteorologiche non si sviluppò appieno. Mentre sorvolava la costa nemica sopravvennero anche alcune avarie ed il dirigbile fu costretto a rientrare, dopo quasi dieci ore di volo.

Così è descritta l’operazione  del “Città di Ferrara” nella Relazione Ufficiale della Marina:

 “Lasciato l’aeroscalo di Jesi alle ore 23,30 del 23 maggio  con cielo coperto e piovaschi, l’aeronave prese quota e diresse verso il mare. Per assicurare quanto era possibile l’esito di questa prima missione, quattro barche erano ancorate di 10 miglia in 10 miglia sulla congiungente Ancona-Pola perché servissero di controllo nella rotta. A mezzanotte il dirigbile aveva raggiunto la seconda barca: la velocità che risultava di 75 km ora faceva prevedere che la meta sarebbe stata raggiunta introno alle 1,45 se il vento non avesse mutato di direzione e di forza. Però, poco dopo un nutrito fuoco di cannoni antiaerei  diretto contro l’aeronave , che navigava a 600 metri di quota, rilevò la presenza di navi nemiche”
Il fuoco proveniva dell’incrociatore leggero “Saida”, al comando del C.V. Buchmayer e del’altro incrociatore Szigetevar, al comando del C.V.Schmidt, che precedevano il Gruppo “, composto dal grosso della flotta austriaca (I, III; IV Divisione), che faceva rotta verso Ancona. Apri il fuoco contro il “Città di Ferrara” anche il cacciatorpediniere “Velebit, comandante il C.C. Mauer, che seguiva gli esploratori.
Il “Città di Ferrara” , per sfuggire al fuoco nemico,  diresse verso --“ Nord ovest, aumentando contemporaneamente la quota a 900 metri. Compiuto un largo giro fu ripresa la rotta, ma non fu scoperto alcun segno di terra prima dell’alba. Forse il vento di levate, più fresco e più alto, aveva spinto il dirigibile verso il centro dell’Adriatico: qualunque ne fosse la causa, ormai era troppo tardi per raggiungere Pola. Invertita la rotta, l’aeronave ritornò sulla costa italiana atterrando sopra Riccione; scendendo poco a Su Est lungo la spiaggia, scoprì successivamente le navi austro-ungariche che avevano bombardato Rimini e quelle che ancora facevano fuco su Senigallia, e diresse per attaccarle.
Riferiamo colle stesse parole del Comandante del Città di Ferrara ( ten. di vascello Castruccio. Castracane) l’ultima parte della sua crociera: “ Si da la caccia mentre le navi si allontanano verso levante a grande velocità; causa il forte vento contrario s’impegna molto tempo a raggiungerle, ciò che avviene molto tempo prima che essi si uniscano al resto della squadra che, proveniente da Ancona, dirige a Nord Nord Est
La nave, che è del tipo Radestsky al momento in cui le si lanciano 3 bombe da 262 mm compie una rapida accostata a sinistra e le evita; si accosta seguendola e poco dopo altre 3 bombe da 262mm e 2 da 179 mm, ed una da 262 mm, sono state lanciate ed evitate ugualmente. Il resto della squadra, essendo ormai vicino, dirigo per l’hangar. Da notarsi il fatto che la nave sopra accennata non abbia fatto fuoco contro l’aeronave, ciò che fa supporre essa sia sprovvista di cannoni antiaerei. Entrando in hangar si procede ad una accurata visita ed alla rimessa a punto dei motori. Dalla visita all’involucro, ancora in corso, appaiono fori causati da colpi di fucile che vengono tappati- Non si è ancora riusciti a trovare i fori sul cielo del ballonet dannosi molto per l’inquinamento.”
Mentre il “Città di Ferrara” era in missione su Pola, tre aeroplani austriaci raggiunsero l’aeroscalo di Jesi e lasciarono cadere varie bombe, senza provocare danni di rilievo. Era però chiaro che il nemico aveva ben chiaro il concetto di contraviazione, andando bombardare le basi dei dirigibili nelle Marche. Ancor più chiaro aveva il concetto di bombardamento dei punti militari delle città nemiche, come dimostra il bombardamento di Venezia, in cui impiegò 2 velivoli che sganciarono 19 bombe.
Come appare evidente, non vi era stata alcuna preparazione a difesa di questa minaccia sia aere che navale. Ancona era praticamente una piattaforme smantellata ed indifesa, mentre non esisteva alcuna forma di organizzazione antiaerea. Questo argomento sarà oggetto della conferenza autunnale del CME Marche in programma ad ottobre, ovvero la difesa costiera e antiaerea. La difesa attiva era affidata al sommergibile “Argonauta”. Gli ordini erano chiare: all’imbrunire doveva prendere il pare, adagiarsi sul fondo, e prepararsi ad eventuali attacchi contro navi nemiche che si fossero presentate davanti al porto di Ancona. Proprio il 23 maggio, la barca-rimorchiatore che doveva avvertire “Argonauta” della presenza delle navi nemiche, fu impiegata per l’assistenza alle barche predisposte per la missione del dirigibile “Città di Ferrara” contro Pola. A fronte di questa circostanza, nella impossibilità di essere avvertito, il Comandante dell’”Argonauta” ritenne inopportuno lasciare il porto ed immergersi, quindi rimase in banchina. Quando si palesò la presenza nemica con l’inizio del bombardamento della città, l’”Argonauta” immediatamente usci dal porto; una manovra maldestra (una gomena nella concitazione, si impigliò nelle eliche)  lo bloccò all’uscita del porto; quindi la sua azione fu nulla e la flotta austriaca potè agire indisturbata.

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Siamo qui in questa caserma, intitolata al Cap. Villarey, medaglia d’Oro al Valor MIlitare nella guerra del 1866 e che era sede nel 1915, del Comando Brigata “Messina” e sede del 93° Reggimento di Fanteria “Messina”; un reggimento legato ad Ancona ed alle Marche da lunga data, ancorchè portante il nome della città di “Messina” e lo sarà anche nei decenni a venire, fino ai giorni delle operazioni in Grecia e a quelli tragici della crisi armistiziale del settembre 1943.
Il 93° Reggimento Fanteria aveva avuto come comandante in Libia l’allora colonnello Armando Diaz, che succederà al Gen. Cadorna nel novembre 1917 e che sarà l’artefice ed il protagonista dell’ultimo anno di guerra.
 La storia del reggimento è intessuta, come quelle degli altri reggimenti della fanteria italiana, di risvolti, iniziative ed  episodi tutti volti a creare amalgama, consenso, fratellanza fra gli uomini. Ovvero era in pieno svolgimento il portato risorgimentale ”Fatta l’Italia, occorre fare gli Italiani”.
Il 93° Reggimento fanteria proprio qui alla Caserma Villarey stava accogliendo nelle sue fila, i complementi in attesa di partire per il fronte, complementi che venivano da tutta Italia. La Mobilitazione “rossa”, così chiamata per il colore della carte su cui era stampata era in pieno svolgimento, ancorchè in gran parte occulta e stava predisponendo l’Esercito che avrebbe condotto le operazioni contro l’Austria.
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Sul piano più generale, la dichiarazione di Guerra fu prematura. L’Italia non era preparata ad una azione offensiva in profondità. Sarebbero occorsi altri mesi per preparare uomini e mezzi. L’Esercito, che fino al 1914 era incardinato su una Alleanza difensiva, in breve dovette passare ad una azione offensiva per cui non era preparato. Ne fa fede, tra i tanti esempi, l’atteggiamento del Comandante della 4a Armata schierata nelle Dolomiti, Gen. Nava, che ritardò di oltre un mese l’attacco a fondo alle posizioni austriache in Val di Landro e sul Falzarego; Cito questo perché erano in prima linea le Brigate “Marche” e “Ancona” nell’area della Tre Cime di Lavaredo-Monte Piana.
Oltre alle titubanze ed alla mentalità non aggressiva di Nava, gravissime erano le carenze in termini di artiglieria, di munizionamenti e materiali.
Si può dire che, anche se le truppe avessero conquistato di slancio le posizioni austriache sia sul fronte isontino che in Carnia che sul fronte dolomitico, o in uno solo di questi fronti, e si fossero spinte in avanti, l’azione si sarebbe certamente fermata per mancanza di alimentazione logistica per carenza di ogni sorta di materiale e mezzi.

La guerra riporta tutti alla realtà
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Lo constata con un po’ di amarezza anche Salandra ed il Governo, che, sull’onda del maggio radioso, aveva creduto che in breve si sarebbe giunti a Trieste e a Lubiana. La realtà si dimostrò in tutta la sua cruda verità: eravamo entrati in guerra troppo presto e impreparati.

 Gli austriaci ci fermano: sono le prime battaglie dell’Isonzo che fanno calare tutti i veli
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L’economia italiana non era stata preparata a questa esigenza: tutto si dovette inventare sul momento ed occorsero mesi prima che le nostre industrie riuscissero a fornire all’Esercito i mezzi per sostenere le offensive che Cadorna progettava.
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 Era necessario prevedere e predisporre tutti quegli atti volti a passare da una economia di pace ad una economia di guerra
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Basti solo pensare alla semplice alimentazione del soldato in linea e nelle retrovie. La Barilla iniziò la produzione su larga scala di pasta secca solo a guerra iniziata, mentre la produzione di carne in scatola, (nel corso della guerra ai soldati vennero distribuiti 230 milioni di scatolette) iniziò nella tarda estate del 1915.

Il sistema produttivo militare fu potenziato guerra durante, non prima, ( a pieno regime si ebbero 28 panifici, 12 molini, 3 galettifici, 2 stabilimenti per la produzione di scatolette di carne, 27 magazzini viveri). Lo stesso sistema delle requisizioni si mise in moto in ritardo., mentre le commissioni per gli acquisti all’estero, soprattutto quella negli Stati Uniti, si insiedarono a guerra iniziata.
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Sul paino strettamente personale, vi sono dei risvolti positivi in termini di alimentazione del soldato. Si è detto  che la Prima Guerra Mondiale è stata la IV Guerra di indipendenza in cui si formò, dopo aver fatta l’Italia, l’Italiano. Ebbene “nel rancio“ vi sono aspetti che vanno sottolineati.

La pasta, il pomodoro e l’olio d’oliva scandivano le consuetudini della alimentazione del soldato meridionale; la polenta, il riso, il latte ed il burro, quelle del soldato settentrionale. Ora i settentrionali avevano cominciato a consumare la pasta, il pomodoro, l’olio d’oliva; i soldati meridionali apprezzavano il riso, il burro, il latte, la polenta. Il mescolamento degli italiani fece si che  si avviò uno scambio di ricette locali che poi, terminata la guerra divennero patrimonio culinario nazionale. Ricette come le “Tagliatelle alla bolognese”, le “zeppole leccesi”, il baccala alla vicentina” e il “fricandò friulano”, e per citare le Marche, “ i svinciscgrassi” e “ lo stoccafisso all’anconetana”  superarono le dimensioni locali e divennero patrimonio nazionale. Anche questo contribuì, dopo fatta l’Italia, a fare gli Italiani.

Accanto ad aspetti positivi, però, rimaneva costante la carenza di tutto, frutto della prematura entrata in guerra

Si potrebbe portare altri esempi, soprattutto nel settore della produzione delle armi, delle munizioni, degli equipaggiamenti, ma la tendenza è la stessa: si era in ritardo; non si era adeguatamente preparati alla guerra che si era dichiarata.
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La stessa Ancona, città importante dal punto di vista militare come piazzaforte, era stata come tale smantellata a fine ottocento, ed era praticamente senza difesa al momento dell’attacco austriaco, come visto; così come tante altre piazzaforti adriatiche. Esempio significativo che fino alla primavera del 1915 noi consideravamo l’Adriatico un mare in cui non avremmo dovuto combattere.

Questa entrata in guerra nel 1915 fu, quindi, dal punto di vista della preparazione affrettata sotto molti punti di vista: operativo, tattico, logistico, che determinò la mancanza dello sfruttamento dell’iniziativa, la mancanza della sorpresa  che, in aggiunta al mancato coordinamento con l’azione dell’Esercito Serbo e con l’Esercito Russo, determinò il non conseguimento di importanti risultati nei primi mesi di guerra, quei risultati che tutti gli Italiani ed il Governo per primo, sperava di conseguire.
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In conclusione:
        L’intervento è il frutto di un processo decisionale che sancisce la crisi del regime liberale e le sue difficoltà nella gestione dei movimenti di massa.
        Dal punto di vista strategico accentua le difficoltà dell’Austria-Ungheria ma non avviene in un momento favorevole e non può essere decisivo, perché il tempo a disposizione per una adeguata preparazione non ci fu.
        Il conflitto è ormai una guerra di attrito che non lascia spazio alle ipotesi di manovra ed esalta la dimensione materiale, mentre sul piano tattico si cerca una soluzione che sblocchi lo stallo, ovvero è una guerra di tipo industriale che privilegia il sistema paese che mobilita tutte le sue forze e risorse per la vittoria.

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Le Marche furono in prima linea fin dal primo giorno di guerra  ed  Ancona, riprese il suo ruolo di piazzaforte offensiva nel medio ed alto adriatico ed assumendo una importanza fondamentale nei successivi tre anni di guerra     

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Ancona 22 maggio 2015

Massimo Coltrinari
(massimo.coltrinari@libero.it)



[1] Il testo dice: “Une convention militare sera immédiatement conclue entre les états majors généraux de la France, de la Grande Brétagne, de L’Italie et de la Russie; cette convention fixera le minimum des forces militaires que la Russie devra employer contre l’Autriche-Hongrie afin d’empeécher cette Puissance de concentrer tous ses efforts contre l’Italie, dans le cas où la Russie se déciderait de porter son principal effort contro l’Allemagne. La convention militaire réglera la question des armistices, qui relève essentiellment commandament en chef des armees.”
Toscano M., Il Patto di Londra. Storia Diplomatica dell’intervento italiano (1914-1915); Bologna, Zanichelli, 1934. In questo volume si trova il testo completo del memorandum o patto di Londra.
[2] Biagini F. A., In Russia Tra Guerra e Rivoluzione. La missione militare italiana 1915-1918, Roma, Edizone Nuova Cultura,  1910
[3][3] Rochat G., La convenzione militare di Parigi (2 maggio 1915), in “Il Risorgimento”, VIII (1961) n. 3, pagg. 127-156

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