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venerdì 21 aprile 2017

La Battaglia di Custoza XIII


(1)  Esercito Italiano
Riuscire a capire quale fosse il piano di campagna dell’Esercito Italiano è impresa assai ardua in quanto il piano doveva essere presentato in una conferenza che si tenne a Bologna il 17 giugno 1866 tra La Marmora e Cialdini. Di quel colloqui non esistono documenti che attestino le decisioni che furono adottate. Nessuno era presente a quell’incontro, ma dall’analisi dei fatti dei giorni successivi si può arguire che i due generali si siano lasciati con la convinzione che l'uno avesse aderito alle idee dell'altro. E invece ognuno era rimasto fedele al proprio piano: il Cialdini, pensava che sul Po si dovesse sviluppare l'operazione principale, mentre sul Mincio si doveva condurre un’operazione diversiva. Al contrario, La Marmora credeva che l’operazione principale doveva essere svolta sul Mincio e di diversione quella del Po. Non a caso La Marmora poco tempo dopo disse: “la nostra azione rispettiva era troppo evidente perché fosse d’uopo di prendere accordi speciali. Ciascuno dalla parte sua avrebbe agito secondo le occorrenze colla massima energia per modo di battere o paralizzare il nemico attraendolo ora da una parte, ora dall’altra[i]. Da queste parole si evince chiaramente che l’Italia non aveva un piano, ma due diversi modi di vedere e di intraprendere le operazioni. A queste posizioni corrispondeva anche una diversa visione strategica a livello politico. Una, che faceva capo proprio al Generale Enrico Cialdini, che l’aveva elaborata e vedeva anche i favori degli alleati prussiani, su tutti del Generale von Moltke, prevedeva Bologna come base delle operazioni, l’invasione del Veneto dal basso Po, con attraversamento del fiume a monte di Ferrara, e l’avanzata su Rovigo. Per favorire l’operazione occorrevano alcune azioni diversive e di disturbo sul Mincio che avrebbero impegnato il grosso dell’Armata imperiale all’interno del Quadrilatero. Una volta raggiunto Rovigo e passato l’Adige, l’Armata del Po avrebbe avuto la strada spianata verso Padova, Vicenza e Venezia, puntando sulle più vitali comunicazioni del Veneto fin dentro il cuore dell’impero. Tale visione, inoltre, rendeva possibile anche un contributo della flotta italiana nell’Adriatico e l’infiltrazione  di un corpo di volontari in Dalmazia e in Ungheria con il compito di innescare una rivolta popolare in grado di minare la solidità dell’Impero. Questa linea di azione aveva il vantaggio di evitare “di rimanere invischiati in lunghe e faticose operazioni all’interno del Quadrilatero, con poche possibilità di successo”[ii] come era accaduto nel 1848.
L’altra visione, completamente opposta, elaborata da La Marmora e altri generali dell’ex esercito piemontese, prevedeva, invece, Piacenza e Cremona come basi di operazione, eseguire delle operazioni dimostrative sul basso Po, e di colpire direttamente il Quadrilatero da Ovest: attraversare il fiume Mincio tra Peschiera e Mantova e forzare le fortezze nel più breve tempo possibile grazie alla superiorità di forze disponibili o, in alternativa, ingaggiare battaglia all’interno dello stesso.
Alla vigilia della guerra, l’Italia pensava ad un teatro di operazioni in cui avrebbero agito due armate: una sul Mincio, Comandata dal Generale La Marmora, e una sul Po, comandata dal Generale Cialdini. La prima, “più sotto la mano del comando in capo dell’Esercito[iii], avrebbe ricevuto ordini e diposizioni direttamente, la seconda, da considerare più come un distaccamento, avrebbe agito secondo le indicazioni ritenute più idonee ed opportune da parte del comandante[iv] che aveva l’unico obbligo di tenere informato il Comando Supremo.  L’operazione che l’esercito italiano si accingeva a condurre era guidata da un piano che rappresentava soltanto il giusto compromesso fra due soluzioni alternative volte a soddisfare Cialdini e La Marmora per di più viziato da un’incomprensione di fondo: il Generale La Marmora si aspettava una dimostrazione sul basso Po e il Generale Cialdini si aspettava una dimostrazione sul Mincio. Non a caso, allorquando nel mattino del 24 giugno 1866, il Generale Cialdini ricevette dal Re Vittorio Emanuele il telegramma con cui gli si comunicava l’inizio delle ostilità, rispondeva di “essere desolato notizia che Vostra Maestà mi dà. Generale La Marmora mi aveva promesso di limitarsi a semplice dimostrazione. Voglio sperare non infausto esito giornata, ecc.”[v]. L’unica questione su cui si era fermamente concordi era il ruolo del Corpo di Volontari comandato da Garibaldi: non sbarcare in Dalmazia, per essere infiltrato in Ungheria, ma, attraverso azioni dimostrative verso il Tirolo, coprire l’estrema sinistra del dispositivo sul Mincio e la Lombardia.




[i]  Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 29.
[ii]  Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 104.
[iii] Pollio A., Ibidem.
[iv] Idem
[v]  Pollio A., Op. Cit., p. 31

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