a. Le forze in campo
(1) Entità e qualità: funzionalità e costituzione,
capacità interforze, caratteristiche tattico-operative, armamento e mobilità
(a) Esercito Italiano
Il
contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato come di
seguito riportato:
- Armata del
Mincio, organizzato in tre Corpi d’Armata, da quattro divisioni ciascuno:
· I Corpo d’Armata
comandato dal Generale Giovanni Durando;
· II Corpo
d’Armata comandato dal Generale Domenico Cucchiari;
· III Corpo
d’Armata comandato dal Generale Enrico Morozzo Della Rocca.
- Armata del Po
comandata dal Generale Cialdini organizzata invece su otto divisioni.
Tanto
nella prima quanto nella seconda armata, c’erano in organico divisioni e
brigate di cavalleria alle dirette dipendenze del Comando di Armata, gruppi di
artiglieria, unità del genio pontieri e servizi occorrenti.
In
particolare, il Gen. Cialdini alla vigilia della guerra con l’Austria si
trovava al comando di un Corpo d’Armata che costava di otto divisioni,
moltissimi comandi subordinati, un immenso traino di materiali di ogni specie.
In altre parole, un vero e proprio esercito, molto difficile da muovere e
manovrare soprattutto in un terreno che era notoriamente complicatissimo e
intricatissimo. L’Esercito messo a disposizione per le operazioni consta,
dunque, di ben 20 divisioni, i cui comandanti furono scelti direttamente dal
Ministro della Guerra, Ignazio de Genova di Pettinengo, e dal Generale La Marmora.
Completava il dispositivo italiano, il Corpo di Volontari Italiani, istituito
con un Regio Decreto quale strumento militare che, in caso di guerra, avrebbe
contribuito alla difesa del paese. Il Comando di tale Corpo venne affidato a
Garibaldi. Il 22 giugno 1866 la forza complessiva
del Corpo dei Volontari Italiani avrebbe dovuto contare 38.041 uomini, 873
cavalli, 24 cannoni e due cannoniere a vapore.
L’unità tattica era la brigata che operava all’interno
delle divisioni. Ciò permetteva di disporre di unità più piccole e più
manovrabili. Per contro le compagnie di fanteria, così come gli squadroni di
cavalleria, erano sottodimensionate,
a causa dei tagli di bilancio che c’erano stati da poco e non avevano permesso
di adeguare gli organici.
Tutto il personale era equipaggiato con fucile mod.
1860, cal. 17,4 mm, ad anima rigata, con una gittata utile di circa 400 m,
disponibile in versione per fanteria e per il personale a cavallo. La
cavalleria leggera, inoltre, era equipaggiata
anche con sciabola. L’artiglieria era del tipo da campagna da 90 mm.
Il Regno di Italia era nato nel 1861 e da allora
l’esercito aveva subito successivi interventi di ristrutturazione a partire da
quello fondamentale dal Generale Manfredo Fanti che permise di integrare perfettamente
nell’armata piemontese gli eserciti della Toscana e dell’Emilia a cui si
aggiunse, non senza dibattiti e dissidi, anche quello borbonico. Il significato
di parole come patria, unità e libertà era vago e incerto. Inoltre,
l’imposizione della leva obbligatoria aveva creato forti dissensi che si
manifestavano attraverso fenomeni di renitenza di massa, coperti e sostenuti
dalle comunità di origine. Comunque, sia, alla vigilia della guerra con
l’Austria, l’Italia possedeva un esercito numeroso, ben equipaggiato,
addirittura superiore a quello del nemico. L’impianto dello strumento militare
italiano era stata un’idea di La Marmora che era riuscito ad imporre la sua
visione di dotarsi di un esercito moderno, al passo con le minacce e i rischi
del tempo e in grado di salvaguardare la monarchia e la pace in tutto il regno[i].
In merito, è bene ricordare che all’epoca esistevano due teorie dominanti in
Europa: quella dell’esercito di quantità, sul modello prussiano, e quella
dell’esercito di qualità, modello francese. La prima prevedeva la costituzione
di un piccolo core di ufficiali e
sottufficiali di professione, in servizio permanente, che veniva integrato
dalla leva richiamata in caso di mobilitazione. Tutti erano obbligati ad un
periodo di addestramento, distribuito in due/tre anni, al termine del quale
venivano posti in congedo. Il modello francese, o di qualità, prevedeva,
invece, un esercito a lunga ferma, cinque/otto anni. In caso di guerra i suoi
organici venivano integrati con poche unità provenienti dalla coscrizione
obbligatoria. La differenza tra i due modelli risiedeva nel fatto che mentre il
modello prussiano si basava sul principio del cittadino-soldato, quello
francese faceva gravare l’onere del sistema sulle classi più povere. La Marmora
aveva optato per il modello francese che aveva introdotto nell’esercito
piemontese sin dal 1854.[ii]
Dopo l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859),
Manfredo Fanti venne incaricato della riorganizzazione delle nuove
divisioni formate dalle Lega dell'Italia Centrale (comprendente Granducato di
Toscana, Ducato di Parma, Ducato di Modena, Legazioni) e, nel giro di pochi
mesi, seppe trasformarle in un funzionante corpo di 45.000 uomini. Per dare
manifestazione visibile al nuovo stato di cose, diede avvio alla nuova Scuola
Militare di Fanteria di Modena, ospitata nel palazzo del deposto duca.
Certo è che, dopo cinque anni, l’Esercito Italiano
non aveva ancora la coesione necessaria per sostenere una guerra contro un
solido esercito come era quello austriaco: la leadership era costituita da ufficiali che si erano ottimamente
distinti come generali nel piccolo esercito piemontese, nell’esercito
garibaldino e nell’esercito napoletano, ma che erano ben lontani dall’essere
ottimi generali. In quell’epoca “pochi
generali sapevano e i grandissimi insegnamenti delle guerre napoleoniche erano
stati lasciati nel più completo oblio, tranne che da alcuni generali prussiani
della scuola di Clausewitz”[iii].
Più in particolare, i generali italiani avevano una competenza tecnica ed
un’esperienza decisamente inferiore rispetto a quella degli ufficiali austriaci
e prussiani.
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