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mercoledì 20 novembre 2019

ARMIR Fronte Russo Operazione Piccolo Saturno 20 novembre -21 dicembre 1042

I BELLIGERANTI LE ORIGINI DEL CONFLITTO 5

La dottrina sovietica  considerava la battaglia difensiva solo come una forma di combattimento a cui si poteva ricorrere per economizzare forze a favore di operazioni offensive su un altro settore del fronte e per guadagnare tempo al fine di concentrare le forze necessarie all’offensiva. In ogni caso, la dottrina prescriveva di passare, appena possibile, alla controffensiva.
Erano previste due forme di difesa:
-     rigida, col fine di mantenere terreno con una tenace resistenza accompagnata sempre da contrattacchi;
-     mobile, col fine di guadagnare tempo, indebolire il nemico, preservare le proprie forze anche perdendo terreno.
Le riserve previste dalla dottrina erano di tre tipi:
-     strategiche, nelle mani del Comando Supremo, dei Comandi di Gruppo di Armata e di Armata;
-     operative, a disposizione dei Comandi di Corpo d’Armata;
-     tattiche, per i Comandi di Divisione e unità minori.
Le condizioni necessarie[1]affinché un attacco fosse possibile erano considerate le seguenti:
-     accurata ricognizione della difesa nemica;
-     accurata preparazione dei reparti;
-     coordinazione fra le Armi;
-     continuità nell’azione di comando;
-     continuità del flusso logistico.
La preparazione si articolava nelle seguenti attività:
-     scelta della direttrice principale;
-     concentrazione di forze e mezzi in corrispondenza di essa;
-     trasferimento delle truppe sulle basi di partenza, al coperto dell’osservazione avversaria al fine di perseguire la sorpresa.
Per tutta la durata della fase andava curata la cooperazione tra fanteria, artiglieria, carri, aviazione e reparti speciali; inoltre andavano pianificati il fuoco di artiglieria e il sistema di fuoco della fanteria in modo continuo e massiccio; infine, doveva essere organizzata attentamente la difesa c/a e c/c.
Il successo dell’azione dell’artiglieria era possibile se la fanteria e i carri attaccavano a loro volta insieme all’artiglieria.
Siccome si presupponeva che i contrattacchi del nemico fossero appoggiati da carri armati, bisognava dotare i dispositivi in attacco su una consistente aliquota di mezzi c/c; inoltre, si riteneva che in conseguenza dell’attacco, il nemico avrebbe impiegato la sua aviazione e quindi bisognava organizzare attentamente la difesa c/a.
L’attacco si svolgeva con i primi scaglioni che dovevano essere distaccati dei gruppi di ricognizione, col compito di infiltrarsi all’interno delle difese nemiche al fine di raccogliere informazioni sul sistema difensivo in profondità del nemico.
Sui fianchi scoperti dovevano essere distaccate delle pattuglie di ricognizione, col compito di individuare l’afflusso delle riserve nemiche.
L’artiglieria e gli aerei da ricognizione dovevano controllare continuamente il campo di battaglia, monitorando lo spostamento di mezzi di fuoco, artiglierie, carri e afflusso delle riserve nemiche.
Alla base del successo dell’attacco vi era la sorpresa.
Per quanto riguarda l’impiego della fanteria, in caso di fortificazioni permanenti presenti nella difesa nemica, era previsto l’impiego di 1-2 squadre d’assalto per ogni battaglione fucilieri attaccante in primo scaglione.
La fanteria doveva impiegare il fuoco a massa diretto sui centri di fuoco pericolosi per i successivi movimenti, nonostante l’impiego coordinato e massiccio dell’artiglieria.
I carri armati venivano impiegati in massa ed in stretto coordinamento con la fanteria. A premessa dell’attacco con i carri era necessaria la ricognizione degli itinerari adducenti al margine anteriore e il controllo che non vi fossero ostacoli c/c; nella ricognizione del terreno e della percorribilità andavano impiegati carri leggeri T-60 e T-26; per la ricognizione in profondità mirata al controllo della presenza di artiglieria c/c nemica, dovevano essere impiegati carri T-34 e KV.
L’attacco corazzato doveva essere improvviso e massiccio. I carri andavano utilizzati sulla direttrice principale. Prima dell’avvio dell’attacco, doveva essere neutralizzata la difesa c/c del nemico.
L’attacco carrista doveva essere accompagnato in tutta la sua profondità dall’aviazione e dall’artiglieria.
Il dispositivo dei carri in attacco era scaglionato in profondità nel modo seguente:
-     primo scaglione, costituito da carri pesanti, il cui compito principale era di neutralizzare la difesa c/c rimasta e di sconvolgere il sistema di fuoco nemico;
-     secondo scaglione, costituito da carri medi, il cui compito era di attaccare direttamente dietro il primo scaglione, di completare la neutralizzazione e l’annientamento della difesa c/c e di eliminare i centri di fuoco e la fanteria nemica;
-     terzo scaglione, costituito da carri leggeri, che seguiva il secondo scaglione e aveva dietro di sé la fanteria, proseguendo l’azione di neutralizzazione ed annientamento;
-     riserva corazzata, nelle mani del comandante che organizzava l’attacco sulla direttrice principale.
Il primo scaglione di carri attaccava il margine anteriore quando la fanteria era pronta per l’attacco, mentre l’artiglieria trasportava per l’ultima volta il fuoco dal margine anteriore sulle difese più arretrate. Nel caso in cui il margine anteriore si trovasse a tergo di ostacoli c/c insormontabili e grandi ostacoli naturali, i carri avrebbero attaccato dopo che la fanteria, in cooperazione con l’artiglieria e l’aviazione, avesse forzato il margine anteriore permettendo ai carri il superamento dell’ostacolo c/c.
L’artiglieria, dopo la neutralizzazione degli obiettivi sul margine anteriore e sulle posizioni subito retrostanti, su segnale del comandante di divisione effettuava alcuni falsi trasporti di tiro verso il tergo. Al momento dell’ultimo ritorno di fuoco dal tergo sul margine anteriore il primo scaglione carri iniziava il movimento dalle posizioni di partenza.
Il definitivo allungamento del tiro doveva coincidere con il raggiungimento del margine anteriore da parte del primo scaglione carri.
Il secondo scaglione carri oltrepassava i dispositivi d’attacco dei battaglioni di fanteria retrostanti. La fanteria cominciava il movimento per l’attacco dietro il secondo scaglione carri.
Il terzo scaglione carri superava la fanteria davanti al margine anteriore della difesa nemica.
I primi scaglioni dei reggimenti fucilieri, senza sostare sul margine anteriore, continuavano il movimento in avanti mentre i secondi scaglioni dovevano muoversi verso il margine anteriore: questi entravano in combattimento solo nel caso di esaurimento dell’azione degli scaglioni antistanti, di irrigidimento della resistenza del nemico e per lo sfruttamento del successo sui fianchi, infine per sgominare il contrattacco nemico.
La dottrina sovietica prevedeva che il nemico organizzasse il contrattacco in conseguenza dei primi successi delle truppe attaccanti e per tale motivo considerava decisivo il consolidamento del successo da ottenere attraverso un’organizzazione difensiva sugli obiettivi conquistati.
Non appena la ricognizione avesse accertato la minaccia di contrattacco, l’artiglieria e i mortai avrebbero effettuato massicci interventi di fuoco sulle truppe contrattaccanti. I genieri avrebbero creato ostacoli a/u e c/c. La fanteria, incaricata di respingere il contrattacco, avrebbe occupato la posizione più vicina e favorevole e sarebbe intervenuta con il fuoco a massa di tutte le armi.
Si privilegiava il fuoco concentrato, attraverso l’impiego di lanciarazzi multipli.
Se quella Russa era come delineato una dottrina di tipo offensivo, i criteri per l’azione difensiva, oggetto della dottrina italiana nel periodo considerato, prevedevano un’azione elastica e manovrata. Il ricorso all’azione difensiva, che presupponeva inferiorità di forza, era considerato un mezzo per economizzare le forze a favore dell’offensiva per “sbarrare il passo al nemico mantenendo il possesso del terreno necessaria ed utile ai fini complessivi delle operazioni, per guadagnare tempo, onde superare una crisi e consentire la ripresa delle offensiva. La manovra difensiva doveva essere in grado di assestare l’attacco nemico per il tempo necessario ed indispensabile ad effettuare la manovra ed il contrattacco, il mantenimento di un complesso di forze scaglionate in profondità pronte a parare e reagire”.
L’organizzazione, dalla fronte alle retrovie, comprendeva elementi di osservazione e sicurezza, schierati in “zona di sicurezza”, davanti alla linea dei capisaldi a distanza tale da essere protetti e con il compito di evitare la sorpresa e logorare il nemico.
I capisaldi presidiati da unità organiche dovevano resistere ad oltranza. Dietro i capi saldi si trovava una scacchiera di centri di fuoco distribuiti in profondità ed aventi lo scopo di logorare il nemico convogliato fra i capi saldi e per appoggiare il contrattacco.
Il fuoco doveva essere contemporaneamente impiegato alla distanze ottimali.
Le artiglierie erano scaglionate in profondità per sorprendere il nemico e colpirlo nelle basi di partenza, appoggiare il contrattacco e colpire prioritariamente la fanteria nemica.
Rincalzi e riserve dovevano immediatamente contrattaccare ogni penetrazione nemica.
Doveva, infine, essere organizzata un’ulteriore posizione difensiva arretrata tale da far presidiare agli scaglioni arretrati.
La divisione era la pedina fondamentale, era la grande unità organica pluriarma inscindibile ed unitaria, capace di svolgere da sola uno o più atti del combattimento. Già prima e durante la guerra 1914-’18, la formazione meglio rispondente a tale concetto d’impiego era stata giudicata dai maggiori eserciti europei la ternaria (3 reggimenti di fanteria, 1 reggimento di artiglieria), mentre l’esercito italiano aveva conservato sempre la formazione quaternaria (1) (4 reggimenti di fanteria, 1 reggimento di artiglieria) e solo nel 1926 –anche se nell’ordinamento Diaz del 1923 era insito il compromesso della divisione quaternaria in pace e ternaria in guerra – lo Stato Maggiore dell’esercito optò per la formazione ternaria in pace ed in guerra migliorando anche il rapporto tra fanteria (9 battaglioni) ed artiglieria (4 gruppi su 12 batterie in totale).
Lo schieramento poteva essere suddiviso fra 2/3 scaglioni nel senso della profondità in cui operavano i Battaglioni.
In difensiva le divisioni, non impegnate in prima schiera, fanno parte della riserva di armata che può assegnarle ai Corpi d’Armata o impiegarle direttamente. Il Corpo d’Armata è, di norma, costituito da 3 divisioni.
Tutta la dottrina ha la grossa pecca di non sviluppare compiutamente l’impiego dei corazzati e dell’arma aerea. In particolare, gli aerei vengono citati per impieghi di ricognizione ed osservazione mentre i corazzati trovano spazio in alcune scarne e laconiche frasi, del tipo: “reparti celeri, carri veloci o d’assalto, lanciati contro elementi nemici che premono più da vicino, sono particolarmente adatti allo scopo”.[2]
La sostituzione della formazione ternaria con quella binaria, alla fine degli anni ’30, non trovò il benché minimo appiglio giustificativo nella dottrina tattica fin qui esaminata, anzi questo nuovo ordinamento indebolì notevolmente la capacità di combattimento di queste unità.
L’ampiezza della fronte divisionale in postura difensiva era, orientativamente, tra i 3 ed i 5 km che potevano essere aumentati fino a 10-14 in presenza di ostacoli difensivi, quali fiumi.
La manovra del Corpo d’Armata veniva considerata una serie di “colpi” di divisione, ciò, in realtà, con le divisioni binarie risultò un’ utopia. Con questi mezzi e queste dottrine si arriva infine a quello che sarà il secondo conflitto mondiale, accingiamoci dunque ad esaminare le ragioni che lo determinarono, pur sempre nei limiti della trattazione in oggetto.

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