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sabato 31 dicembre 2022

La Prigionia in URSS. 1941- 1954. Il retaggio

 



La prigionia in mano alla U.R.S.S. è quella che ha inciso più a fondo nel retaggio  del sistema socio-politico del dopoguerra. Prima che scoppiasse la guerra fredda, nella metà del 1946, già si avvertivano i sintomi di quelle che saranno le polemiche spesso roventi del dopoguerra. Il 20 agosto 1946, dopo un anno di attesa e di aspettative sempre più crescenti, quando tutti gli altri Paesi belligeranti avevano restituito in grandissima parte i prigionieri in loro mani, un comunicato del Governo di Mosca molto sobrio ed asciutto fa presente che tutti i prigioneri italiani in mano alla URSS erano stati restituiti, tranne un esiguo numero, circa 27, tra ufficiali e soldati, considerati criminali di guerra ed in attesa di giudizio. Tra questi anche un cappellano militare, Padre Brevi, considerato dai sovietici una spia del Vaticano.

In Italia le aspettative erano altre. Si aspettava il rientro di circa 70/80 mila prigionieri dalla Russia. A tutto il 1946 erano stati restituiti 21.000 soldati, di cui circa 11.000 appartenenti all’ARMIR i restanti liberati dall’Armata Rossa dai campi di concentramento tedeschi nella sua avanzata verso occidente.

La polemica divampò violentissima, e si manifestò in modo particolare nello scontro politico tra i partiti di sinistra, in particolare il PCI e i partiti del centro, in particolare la Democrazia Cristiana. L’accusa principale era che la URSS tratteneva i prigionieri italiani come schiavi, per ragioni ideologiche.

La realtà, emersa negli anni novanta all’indomani del crollo della URSS e alla parziale apertura degli archivi sovietici, era ben diversa da quella ipotizzata in Italia. La URSS aveva ragione nel sostenere che aveva restituito tutti i prigionieri italiani in suo possesso. Infatti è stato documentato[1] che l’Armata Rossa, nella sua avanzata verso occidente catturava circa 11.000/11.500 soldati dell’ARMIR e li avviò ai campi di smistamento ( le cosiddette marce del Davai). Nei campi di smistamento entrarono quelli che poi vennero restituì, tranne una percentuale dell’1% che morì per malattie o cause naturali.[2]

La vicenda dei prigionieri in mano alla URSS continuò in temi sempre aspri fino al 1954 quando, dopo la morte di Stalin, furono restituiti gli ultimi prigioneri, circa 10, trattenuti con pretesti e motivi vari.

 Il retaggio di questo particolare segmento del V fronte della Guerra di Liberazione è estremamente pesante. L’Italia inviò prima un Corpo di Spedizione, poi una Arma che raggiunse circa i 200.000. Nel corso delle offensive sovietiche del novembre-dicembre 1942 – gennaio febbraio 1943, che si conclusero con la caduta di Stalingrado, che determinarono la svolta della guerra in Oriente, le forze italiane furono annientate. Circa 100.000 uomini riuscirono a salvarsi tramite una ritirata, la celeberrima ritirata di Russia, ma altrettanti rimasero sul campo. Non per le vicende della guerra, ma in virtù della insipienza dei Comandati italiani sul campo, delle imposizioni tedesche e di un male interpretato senso dell’onore militare. Composte tutte da forze di fanteria, senza mezzi corazzati e meccanizzati, il compito era quello di resistere fino allo stremo sulle posizioni del Don. Una volta che la battaglia avrebbe rilevato le direttrici di attacco in profondità dell’attaccante sovietico, avrebbero dovuto intervenire le forze mobili tedesche, per chiudere le falle. Il compito delle forze Italia quindi fu assolto. L’errore fu il non aver dato di arrendersi sul posto. Sarebbe stata la salvezza di oltre 80.000 soldati italiani. Al contrario, messisi in marcia verso occidente, quanto contemporaneamente i sovietici provvedevano a distruggere tutta l’organizzazione logistica di retrovia con puntate di forze mobili, la speranza di sopravvivere nella steppa d’inverno erano presso che nulle. Infatti i comandi sovietici locali non inseguirono i soldati italiani in marcia, conviti e sicuri che la steppa, il cosidetto generale Inverno, li avrebbe uccisi. Come in realtà accadde. Il prezioso retaggio di questo segmento del V fronte è quello che occorre avere sempre autonomia decisionale quando si partecipa in una coalizione fi forze internazionali ed occorre sempre, in lealtà con gli alleati, preservare l’interesse nazionale. Un retaggio che permeò nel dopoguerra la partecipazione delle forze nazionali alle cosiddette Missioni di Pace, coalizioni internazionali sotto egida id organizzazioni sovranazionali.



[1] UNIRR, Rapporto UNIRR, 1995. In Italia la cifra dei presunti prigionieri era stata fissata in circa 84.000. Dei 201.0000 militari italiani presenti al fronte ai primi di dicembre, come attestano i documenti della Direzione di Commissariato dell’ARMIR sulla forza vettovagliata, ne erano rientrati in Italia 101.000. Pertanto considerate le perdite, a larghe spanne, la cifra dei prigioneri doveva essere circa 84.000 considerate le perdite. In realtà dei 101.000 soldati mancati, 90.000 erano Caduti nella ritirata e circa 11.000 raccolti come prigioneri dai sovietici, che in effetti restituirono. Vds. Coltrinari M., Le Vicende dei Militari Italiani in URSS, Roma, Archepares, 2021.

[2] Il tasso di mortalità nella prigionia in URSS è più o meno quello delle altre prigionie in mano della Gran Bretagna, Francia e Stati uniti.

martedì 20 dicembre 2022

Divisione Partigiana "Italia" Rimpatrio dalla Jugoslavia, Giugno 1945


 

 

Dalla Jugoslavia rientrano in Italia due unità combattenti, che sono assunte quasi a simbolo della Resistenza dei militari italiani all’estero: La Divisione “Italia” e la Divisione “Garibaldi”

 

La Divisione Italia, terminò la guerra operando nel nord della Jugoslavia e stava per essere coinvolta indirettamente nella vicenda della occupazione di Trieste da parte Jugoslavia nel maggio del 1945. Certamente dal punto di vista politici la presenza di unità combattenti italiane a Trieste, ovvero la Divisione “Italia” e quella, solo ipotizzata, della Divisione “Garibaldi” che stava per essere imbarcata a Ragusa con destinazione che poteva essere il territorio metropolitano ma anche l’Istria se non Trieste, avrebbe assunto un significato estremamente importante. Sia gli Alleati, ma soprattutto i dirigenti jugoslavi, pur apprezzando l’operato delle due divisioni, non erano propensi a vedere italiani in armi, nelle loro fila, in Istria e soprattutto a Trieste.

 

La questione fu risolta con il rimpatrio nel territorio metropolitano italiano, la Divisione “Italia” con destinazione il Friuli, la Divisione “Garibaldi” con destinazione le Puglie.

 

Le operazioni di rientro si possono fa risalire, per la Brigata “Italia” già il 18 giugno 1945 quando la Brigata versa alla II Armata jugoslava il materiale e i mezzi esuberanti (carri, cavalli, munizioni, armi pesanti, e materiale vario) le necessità del rimpatrio. Si risolvono le questioni relative a militari italiani che liberamente hanno scelto di rimanere in Jugoslavia. Il 24 giugno 1945 al cimitero di Mirogj il 24 giugno 1945 viene inaugurato un monumento dedicato ai Caduti della Divisione Partigiana “G. Garibaldi” alla presenza del Comandante la Divisione, Marras, e di Ufficiali e Truppa, della Autorità del Governo Croato e della Città di Zagabria. Fu indetto un concorso per la frase di incidere nella Lapide. Ne furono presentate quattro e non trovandosi l’accordo su quella da scegliere furono incise tutte e quattro.[1]

Il 27 giugno 1945 fu inviato al comando della Divisione l’ordine di rientro in Italia. Il rimpatrio doveva avvenire per ferrovia. Furono necessari due treni. Per tutto il pomeriggio del 27 giugno il personale fu impegnato a predisporre il caricamento dei treni.

Per accordi tra le Autorità superiori e per valorizzare il contributo dei militari dell”Italia“ “questa alla vigilia del rimpatrio venne elevata al ragno ordinativo di Divisione”. Di conseguenza la Brigata “Italia” si trasforma in “Divisione” ed i quattro battaglioni e rispettive compagnie in Brigate e Battaglioni.[2] La partenza è data alle ore 9 in punto del 28 giugno 1945 con direzione il territorio italiano. Tutti mancano dall’Italia da circa tre anni e in quel giugno 1945 giurava come presidente del Governo Italiano Maurizio Parri, che aveva partecipato alla guerra di liberazione con il nome di “Maurizio”. Il convoglio giunse a Sezana, a ridosso della linea di demarcazione italo-jugoslava, il 29 giugno 1945, ove si ferma in attesa di ulteriori disposizioni sia da parte alleata che da parte italiana. Tutto il personale è concorde che il rientro in territorio nazionale deve essere degno di nota e non si accettano soluzioni volte a sminuire il significato del rientro e il portato delle azioni della divisione. Questo comporta lungaggini burocratiche che si risolvono con interventi anche da Roma. Il 2 luglio 1945 la Divisone varca la linea di demarcazione e finalmente arriva in Italia, a Torre di Zuino, sede di uno stabilimento della Snia Viscosa che molti reduci ricordano come Torre Viscosa.

La cerimonia ufficiale di rientro si svolgerà a Udine il 7 luglio 1945. La Divisione si schiera alla presenza dell’On. Mario Palermo, sottosegretario alla Guerra, del gen. Howard del Comando della VIII Armata Britannica, competente per territorio, del Sindaco di Udine, Cosattini, di Mons. Nogara, Arcivescovo di Udine di rappresentati del Governo jugoslavo e del Comando de C.V.L. Comando Corpo Volontari della Liberta e di Rappresentati Militari dell’Esercito, tra cui il gen. Armellini, già comandante della divisone “Bergamo” in Jugoslavia. Subito dopo la cerimonia inizia la consegna delle armi.

Non si è ritenuto inquadrare il personale della Divisione “Italia” reduce dalla Jugoslavia in quanto il Regio Esercito era ancora sotto il mandato della Commissione di Controllo Alleata. La divisione fu considerata alla stregua di tutte le formazioni partigiane: al momento dell’arrivo delle forze alleate o dopo la fine della guerra in Italia, il 2 maggio 1945, tutte le formazioni dovevano consegnare le armi e le munizioni.

L’11 luglio il personale assiste ad una messa in Suffragio di tutti i caduti della Divisione: è l’ultima cerimonia ufficiale. Dal giorno dopo inizia l’invio in licenza di tutto il personale: è il sospirato ritorno alle proprie case.  Il Diario Storico della Divisione si chiude il 31 luglio 1945, mentre un Ufficio stralcio, composto degli Ufficiali Parmeggiani, già vicecomandante e capo di SM. Minati e Gardini, si reca a Roma a consegnare tutta la documentazione esistente ( vi arriva proprio il 25 luglio 1945, data estremamente significativa, e continua il lavoro fino al novembre 1945.



[1] Le frasi sono  1)“Compagno! Quando vedrai mia madre dirle di non piangere. Non sono solo. Giace con me un compagno Jugoslavo.” 2) Che nessuno ardisca gettare del fango sul sangue versato nella lotta in comune” 3) Trovammo qui fede-madre-pane-fucile.I morti lo sanno, i vivi non lo dimenticheranno”. 4) Fiume di sangue divisero due popoli. Li unisce oggi il sacrificio dei compagni jugoslavi”. Vds Bistarelli A., La Resistenza dei Militari Italiani all’Estero. Jugoslavia Centro Settentrionale, Roma, Commissione per lo Studio della Resistenza dei Militari Italiani all’estero, COREMITE, Rivista Militare, 1996, pag. 460

[2] La Divisione d’Assalto “Italia rientro in patria con questo Organico:

. Comando Divisionale.

  .. Comandante Giuseppe Marras

  .. Commissario Politico, Carlo Cutolo

  .. Vice Comandante e Capo di SM, Aldo Primeggiani

  .. Vice Commissario Politico, Alberto Mario Ceccarelli

  .. Capo Servizio Stampa, Cultura e Propaganda, Innocente Cozzolino

  .. Commissario di collegamento, Mario Tindari Gatan

. I Brigata “Garibaldi”

  .. I Battaglione “Ulisse Nannizzi”

  .. II Battaglione “Antonio Mercenario”

  … III Battaglione “Poljiana”

. II Brigata “Matteotti”

  .. I Battaglione “Crni Vrhi”

  .. II Battaglione “Francesco Bertuccelli”

  … III Battaglione “Saverio Failla”

.III Brigata “Mameli”

  .. I Battaglione “Novi Grabovac”

  .. II Battaglione “Cosimo Di Maggio”

  … III Battaglione “Ettore Ramires”

. IV Brigata “Fratelli Bandiera”

  .. I Battaglione “Antonio Longo”

  .. II Battaglione “Brezovac”

  … III Battaglione “Msrcello Piantanida”

. Battaglione Armi di Accompagnamento “Sarengraf”

.Compagnia Comando Divisionale

Compagnia Genio Divisionale

Reparto Sanità Divisonale

Centro Stampa e Propaganda

Cfr. Bistarelli A., La Resistenza dei Militari Italiani all’Estero. Jugoslavia Centro Settentrionale,  cit. pag. 466

sabato 10 dicembre 2022

Quadro di Battaglia del regio Esercito Italiano 10 giugno 1940


 Su www.storiainlaboratorio.blogspot.com post nei mesi di luglio ed agosto 2022 della genesi del manoscritto del volume "Il Quadro di Battaglia del Regio Esercito 10 giugno 1040. Tomo I - Gli Istituti e la Fanteria Tomo II La Cavaleria, l'ARtiglieria, Il Genio, La Guardia alla frontiera, I Servizi, Le Truppe Coloniali

mercoledì 30 novembre 2022

Divisione Partigiana "D'Assalto" Italia. Decorazioni Italiane. Maggio 1945



 Le concessioni italiane collettive e personali della Divsione "Italia" si possono individuare in 9 trasferimenti in spe o promozioni per merito di guerra, a Felice Mabor, Luigi Tinto, Cesare Giancola, Carlo de Carolis, Primo Ciocioni, Giovanni Giannandrea, Gino Tirapelle, Francesco Vendetti ed Adriano Host. Per le concessioni al Valore Militare, 2 medaglie d’oro alla memoria, 1 a vivente, 2 Ordini Militari di Savoia, poi Ordine Militare d’Italia, 21 Medaglie d’argento alla memoria, 13 medaglie d’argento a viventi, 31 medaglie di bronzo alla memoria, 5 medaglie di bronzo a viventi, 4 croce di guerra alla memoria e 3 croci di guerra a viventi

domenica 20 novembre 2022

Divisione Partigiana d'Assalto "Italia". Decorazioni Jugoslave Collettive ed Individuali. Maggio 1945

 

 Al momento del Rimpatrio al Personale  della Divisione "Italia" fu riconosciuto il valore militare.

Per quanto riguarda i riconoscimenti ai Ufficiali e militari della Divisione un quadro abbastanza esaustivo può essere costruito specificando che i partigiani appartenenti alla brigata “Italia vennero nominati ufficiali della Armata Popolare di Liberazione 32 come Alfieri (Zastavnik), 18 come sottotenente, 10 come tenente, 3 come capitano, 1 come maggiore, mentre per i sottufficiali, 167 sergente, 87 sergente maggiore, 80 maresciallo.

Per le decorazioni collettive, alla bandiera furono concesse una Medaglia di I Grado dell’Unità e Fratellanza ed una dell’Ordine dei Meriti per il Popolo e 317 concessioni individuali, così ripartite. 167 Medaglie al valore, 135 Ordine al Valore, 12 Ordine dei Meriti del Popolo, 3 Ordine della Stella Partigiana.


lunedì 31 ottobre 2022

Udine nel 1917

 

Maria Luisa Suprani Querzoli

 

27 agosto 1917

Lo scoppio della polveriera di Sant’Osvaldo: coincidenze inquietanti

 

Il 27 agosto 1917 la Battaglia della Bainsizza (capace di risultati notevoli, seppur decisamente inferiori alle proiezioni del Comandante la II Armata) accenna a volgere al termine quando uno scoppio violentissimo getta nel panico l’intera città di Udine, sede del Comando Supremo:

 

[…] alle 11,19, mentre sto per entrare [al Comando Supremo], avviene una esplosione formidabile, che scuote tutte le case, rompe tutti i vetri, spacca tutti i tramezzi. […] La gente si getta fuori delle case, scarmigliata. La scena è impressionante. Le detonazioni si seguono con violenza e frequenza sempre maggiori. Sembra di essere fra un violentissimo bombardamento. […] Circolano le prime voci, che hanno qualche certezza: è scoppiata la polveriera di Sant’Osvaldo. Ci sono là 100.000 bombe, polveri, 40.000 quintali di fieno, i depositi di benzina di tutta la 2ª armata. È una cosa spaventevole.[1]

 

Il panico toccò il punto massimo all’idea (dimostratasi in seguito non veritiera) che anche i gas venefici presenti nei proiettili a liquidi speciali aleggiassero nell’aria.

Per numero di vittime e perdita di materiali la stima del danno appare subito grave.

 

Circola la voce che lo scoppio sia doloso. Gabriele D’Annunzio dice che a Roma è scoppiata l’altro ieri sera la polveriera di forte Appio, con un centinaio di morti. Ad Alessandria è successo suppergiù lo stesso.[2]

 

Il giornalista Rino Alessi, a differenza del colonnello Gatti, si interroga senza perifrasi: «[c]hi o che cosa ha fatto saltare la polveriera? Ecco il tragico interrogativo a cui forse nessuno risponderà lasciando nell’aria i più atroci dubbi. Altre polveriere sono saltate, come Lei forse sa, in altre parti della Penisola. Chi o che cosa le ha fatte saltare?»[3].

Il dubbio circa il dolo  assunse particolare consistenza ma – dato il frangente critico – non si ritenne opportuno far luce per evitare la ricaduta che l’emergere di verità destabilizzanti avrebbe potuto avere sul morale già incrinato dell’Esercito (e della Nazione).

In seguito si giunse alla conferma[4] dei sospetti che fin da subito circolarono.

Un incidente analogo (seppure di portata ben minore) si era già verificato in zona di guerra, circa dieci giorni prima.

L’XI Battaglia dell’Isonzo ancora non aveva avuto inizio quando, nell’area del XXVII Corpo d’Armata[5], lo scoppio di una bombarda[6] compromise la sorpresa con cui il Comandante d’Armata intendeva fiaccare il nemico in un tratto della fronte il cui presidio appariva rarefatto: l’intento principe che muoveva Capello tanto da fargli distorcere, nella sostanza, gli ordini ricevuti era costituito dalla soppressione del pericolo incombente da Tolmino, affidata appunto al XXVII Corpo.

Lo scoppio che si verificò in quel settore compromise quindi un elemento essenziale del piano lungimirante, lasciando indirettamente in vita i presupposti che avrebbero portato alla sconfitta dell’ottobre successivo.

La possente vittoria della Bainsizza mise a tacere tutto e sulle difficoltà incontrate dal XXVII Corpo d’Armata non si ritornò più di tanto, attribuendole esclusivamente (ed erroneamente[7]) al mancato impulso del generale Vanzo.

Esposte le premesse ci si può chiedere se anche l’incidente che interessò l’area del XXVII Corpo d’Armata (da valutarsi soprattutto nella portata delle sue conseguenze, capaci di decapitare l’intento di Capello e, indirettamente, di dare origine ai presupposti della sconfitta) era di matrice dolosa.

Il dubbio appare ragionevole.

Il computo delle responsabilità circa l’esito della XXII Battaglia dell’Isonzo  (computo a suo tempo teso più a trovare capri espiatori per tacitare gli animi che a far luce sulla verità storica[8]) non sarà completo se non quando, seppur a distanza di oltre un secolo, si risalirà ai mandanti di tali scoppi, la cui serrata successione appare tutt’altro che accidentale.



[1] A. Gatti, Caporetto. Dal diario di guerra inedito (maggio – dicembre 1917) (a cura di A. Monticone), Bologna: Il Mulino, 1964, pp. 194 – 195.

[2] Ivi, p. 196.

[3] R. Alessi, Lo scoppio della polveriera di Sant’Osvaldo, 27 agosto 1917, in Dall’Isonzo al Piave, Milano: Mondadori, 1966, p. 103.

[4] Cica le conferme inerenti al dolo cfr. G. Del Bianco, La guerra ed il Friuli, vol. 2 (Sull’Isonzo e in Carnia. Gorizia. Disfattismo), Udine: Del Bianco Editore, 2001.

[5] Il XXVII Corpo era allora comandato dal generale Augusto Vanzo, prima di essere sollevato dall’incarico (e sostituito con il generale Pietro Badoglio, comandante il II Corpo).

[6] Cfr. L. Capello, Note di Guerra, vol. II, Milano: Fratelli Treves Editori, 1921, p. 109.

[7] Anche sotto il comando di Badoglio il XXVII Corpo d’Armata continuò a confrontarsi con obiettive difficoltà (cfr. ibidem)  capaci di interferire negativamente  con gli obiettivi auspicati dal Comandante d’Armata (cfr. ivi, p. 113).

[8] Il riferimento è alla Relazione che concluse i lavori della Commissione d’Inchiesta istituita dal R.D. 12 gennaio 1918 n. 35.

lunedì 10 ottobre 2022

La Questione di Trieste, 1945. L'ipotesi di impiego della Divisione Partigiana "G Garibaldi"

 


UN'ILLUSIONE SVANITA[1] La storia della "Garibaldi", subito prima e dopo il rimpatrio, si arricchì di un episodio inedito, che rievoca, almeno nelle intenzioni, l'impresa di Fiume.

A smuovere le speranze per una operazione su Trieste, tanto audace quanto improponibile, furono proprio i Sovietici, all'epoca già in rotta di collisione con Tito e, di conseguenza, contrari alle sue mire espansionistiche sui territori della Venezia Giulia.

L'episodio riportato dal generale Ravnich, sulla scorta di gelosi ricordi personali, che si riferiscono ad un periodo in cui, dopo l'eroica esperienza balcanica, solo alla "Garibaldi" ed al suo comandante era concesso di osare o di sognare. Sentiamolo: "Verso la fine del febbraio 1945", racconta il generale Ravnich, «per noi della "Garibaldi" arrivò l'ordine di rientrare in Patria». Mentre a Ragusa attende che le sue brigate, sparpagliate per tutta la Jugoslavia scendano sulla costa dalmata per imbarcarsi, Ravnich un giorno viene avvicinato da Kovaljenko, che lo invita a cena. Accompagnano Ravnich a villa Sherazade, tra gli altri il Capitano Luigi Ferraris, capo dell’ufficio matricola, il capitano medico Gustavo Silvani, il maggiore Roberto Reno, suo capo di Stato Maggiore, ex ufficiale della “Venezia” che ha fatto adottare anche ai combattenti non alpini della “Garibaldi” il cappello con la penna come segno distintivo nazionale e “patriottico” della divisione nel contesto ideologizzato di quella guerra partigiana.

Nel corso del “simposio”, con un giro di mano che evita Risto Valetié invitato a “copertura” dallo stesso Kovaljenko, il capitano russo fa arrivare al generale Ravnich un plico. Quando lo apre, con grande sorpresa Ravnich constata che contiene copia dell’ordine di operazione dell’esercito di Tito per lo sbalzo finale dal fronte dello Srem verso Nord, e per l’invasione della Venezia Giulia e di Triste, “Naturalmente”, soggiunse Ravnich, “trafugato non so come dai sovietici”, A rendere ancora più grande la sorpresa dell’ufficiale istriano, Kovaljenko accompagna il “regalo” con una dichiarazione che Ravnich non si sarebbe mai aspettato. A quattr’occhi gli dice: “il mio governo gradirebbe incontrarsi con gli italiani, anziché con gli jugoslavi, sul vecchio confine italo-jugoslavo. L’esecuzione di questo ordine operativo è prevista per la metà di aprile. C’è tutto il tempo per noi e per voi di arrivare al confine del Regno d’Italia”.

Per Ravnich questo discorso suona come un invito più o meno esplicito a organizzare una spedizione “garibaldina” in Istria onde costruire un fatto militare, anche minimo che possa trasformarsi in un fatto compiuto politico tale da facilitare a Stalin il contenimento dell’espansionismo militare di Tito verso Trieste.

“Questo è quanto rilevato dai segni e dalle parole”, continua Ravnich. “Mi si invitava evidentemente a prendere l’iniziativa. Dovevo arrivare in zona magari con una sola barca di pochi uomini”. L’invito di Kovaljenko trova l’ufficiale italiano, più che disposto a tentare il colpo.

Pochi giorni dopo essere rientrato dalla Jugoslavia, Ravnich entra in contatto con ufficiali di rilievo della nostra marina, e ottiene qualche piccolo risultato che gli dà speranza. A Taranto, in casa dell’ammiraglio Parona, una cena ha luogo. Presenti diverse personalità militari (“tutti ufficiali di grado superiore al mio”), e un politico, il ministro del lavoro Gasparotto, senza che si parli apertamente di uno sbarco a Fiume o in una zona prossima di dove muovere verso l’interno dell’Istria e bloccare la strada per Trieste, vengono concordati alcuni particolari di valore preliminare.

“Cominciammo col dire che i miei soldati avrebbero avuto libero accesso sulle navi alla fonda a Taranto”, ricorda Ravnich. Il giorno dopo gli alpini della “Garibaldi”, i soli cui viene concessa questa possibilità, si recano in massa a visitare la Giulio Cesare prima e la Garibaldi che la accosta poi. L’accoglienza che i marinai delle due unità riservano ai fanti è entusiastica. Immediata è anche la simpatia tra Ravnich e il comandante della Giulio Cesare. Nel Regno del Sud, i combattenti balcanici della “Garibaldi” godono di buona fama. Costituiscono un’unità agguerrita, fatta di combattenti che anche nei momenti di più drammatico isolamento dopo l’8 settembre e per diciotto mesi hanno sempre tenuta alta la bandiera italiana di fronte all’ex alleato tedesco e al nuovo alleato comunista jugoslavo.

Insomma, alcune premesse sembrano esserci, di ordine “psicologico”, e di ordine politico in relazione a “complicità” che avrebbero favorito la spedizione.

“Quelle visite costituivano una specie di prova generale per l’imbarco, un modo per compiere un imbarco mascherato?”.

“Nelle mie intenzioni si”, risponde Ravnich. “Ma solo nelle mie intenzioni, e nelle intenzioni di qualcuno che poteva più di me”, aggiunge il generale, che per ora non intende fare uscire dall’anonimato questa personalità. “Navi a Taranto ce n’erano moltissime, c’era tutta la flotta tutta la nostra flotta. Ma la mia delusione fu enorme quando constatai che quei poveri marinai non avevano la nafta non solo per muovere le navi, ma nemmeno per cuocere il rancio”. Deciso però a non mollare, a praticare tutte le vie possibili per realizzare il progetto, il 21 Marzo Ravnich e a Roma dal generale Messe. Il capo di Stato Maggiore immediatamente lo manda dal colonnello Agrifoglio, con cui ha un colloquio confidenziale. Al comandante del Servizio Informazioni Militare Ravnich consegna il documento, e riferisce dettagliatamente dell’invito sovietico, insieme alla sua disponibilità ad assumere l’iniziativa. Agrifoglio, nonostante gli italiani abbiano “le mani legate” opera per metterlo in contatto con persone che, afferma “avrebbero potuto contribuire a una sia pur modesta impresa nel senso desiderato dal governo russo”. Inizia così per Ravnich una intensa ricerca di alleanze e di aiuti, fatta però senza che nulla traspaia. Importante, soprattutto, è muoversi con prudenza nei confronti degli Alleati, degli inglesi in particolare che più degli americani fanno la politica dello scacchiere balcanico e sono i principali sostenitori di Tito.

A casa dei principi Colonna, nel corso di una cena appositamente organizzata dalla principessa Adelina, vedova dell’ex governatore dell’Urbe Don Pietro, Ravnich può incontrare un ufficiale di collegamento inglese, e chiedergli l’immissione della “Garibaldi” nei Gruppi di Combattimento italiani.

Motiva la richiesta con una ragione militare e patriottica il cui significato ultimo non dovrebbe sfuggire all’interlocutore anglosassone. Desiderio dei “garibaldini”, egli spiega, è quello “di continuare la lotta sino a raggiungere i nostri vecchi confini per via di terra dopo aver percorso la Jugoslavia in lungo e in largo”.  Senza nulla promettere, il maggiore Baumag riferisce.

Il giorno dopo il generale Ravnich è messo in grado di prelevare dai magazzini alleati 3800 serie di corredo complete, altrettante armi, delle carrette cingolate, 36 autocarri e tutto il necessario per costituire un reggimento a formazioni di gruppi di combattimento. La “Garibaldi”, che al suo rientro in Italia si era addirittura tentato di disarmare di quelle poche armi che aveva portato con sé dalla Jugoslavia, e che gli alpini avevano rifiutato con decisione di consegnare, era riarmata, e senza che nulla fosse rivelato della manovra russa agli inglesi. Irrisolto rimaneva il problema di come muoversi. Con l’Italia ancora tagliata in due dalla Linea Gotica, e la presenza partigiana comunista nelle terre orientali, era molto difficile pensare di “anticipare” l’esercito jugoslavo via terra sui vecchi confini.

Priva l’aviazione italiana di aerei a sufficiente autonomia con i quali volare d’un balzo in Istria, come Ravnich aveva potuto constatare durante una visita a Lecce, l’idea originaria di una spedizione per mare rimaneva la sola pensabile, l’ultima speranza. Ma nemmeno a Roma Ravnich poté trovare la strada per arrivare ad aver la nafta necessaria a far muovere quelle potenti navi ancora di Taranto. «Sulle navi c'era di tutto», ripete Ravnich   ricordando ancora una volta la sua «ispezione». «Le Santebarbare erano piene di proiettili, i nostri marinai le tenevano in efficienza, ma la flotta era ugualmente prigioniera, perché non camminava, non era possibile fare nulla». La voluta ingenuità, o la indiretta complicità che a Roma aveva reso possibile con tanta prontezza il riarmo della «Garibaldi», a Taranto si scontrava con una difficoltà insormontabile. Altri avevano in mano le chiavi della volontà di quegli uomini, di Ravnich, dei suoi garibaldini, e di chi era dietro a Ravnich, abbastanza importante per potere fare parecchio, ma non tanto da poter risolvere tutto. La storia della “Garibaldi” non avrebbe preso le strade del Nord né le rotte dell'Adriatico. «E così che il progetto naufragò». E dicendo questo Ravnich guarda fuori dalla finestra, lontano dove sente il mare di Bordighera, «meno azzurro di quello dell’Istria”.

Fu così che la spedizione per l'Istria e per Trieste non ci fu.



[1] Stralcio dell'intervista rilasciata dal generale Ravnich al giornalista Antonio Pitamitz e pubblicata su "Storia Illustrata" n.284 del luglio 1981 con il titolo “I sovietici dissero agli italiani: marciate su Trieste". Per gentile concessione.

martedì 20 settembre 2022

Divisione Partigiana d'Assalto "G Garibaldi" - Jugoslavia Giugno 1945

 


Il Rimpatrio della Divisione G

 

Tutti gli uomini che avevano combattuto nella Jugoslavia meridionale furono raccolti nella Divisione “Garibaldi”. Nella primavera del 1945 la Divisone fu concentrata a Ragusa, in attesa dell’imbarco.

Il 7 marzo 1945, il Comando della Divisione emise il foglio n. 376 che dettava le norme dell’imbarco. L’imbarco doveva avvenire per reparti omogenie, in modo disciplinato , senza manifestazione di alcuna specie, al fine di evitare incresciosi incidenti. Ogni comandante di compagnia doveva avere al seguito il ruolino degli uomini presenti e saranno riconosciuti al momento dell’imbarco stesso dal comandante di compagnia stesso; era previsto l’arresto immediato per chi avesse cercato di imbarcarsi clandestinamente; inoltre, una volta imbarcati, gli uomini non potevano più, per nessuna ragione, scendere a terra.

L’8 marzo 1945 partiva da Ragusa il I° Scaglione di Rimpatrio formato dalla VI Brigata “Garibaldi”, poi due battaglioni di complementi, per un totale complessivo di 42 ufficiali, 105 sottufficiali e 1777 militari di truppa. Questo scaglione era al comando del Capo di SM della “Garibaldi” capitano Roberto Berio. Subito dopo parti il 2à Scaglione di Rimpatrio che comprendeva la 1a e la 2° Brigata “Garibaldi” per un totale complessivo di 71 ufficiali, 140 sottufficiali e 1440 uomini di truppa, al comando dello Stesso Ravnich, comandante della Divisione.

Restavano in Jugoslavia, in particolare in Bosnia e in Montenegro molti militari sia sbandati che im servizio presso le unità di artiglieria dell’Esercito Jugoslavo. Questo formarono poi il 3° Scaglione di Rimpatrio che si imbarcò il 15 marzo 1945, composto da quasi tutti gli sbandati della zona, oltre a 8 ufficiali e 330 tutti artiglieri; inoltre si imbarcarono i restanti complementi dei reparti combattenti.

Alcuni giorni prima del rimpatrio della Divisione “Garibaldi” era stata costituita, su ordine del Ministro della Guerra, tramite lo Stato Maggiore dell’Esercito, una “base” italiana a Ragusa per raccogliere il maggior numero possibile di militari dispersi o ancora sbandati che si trovavano in zona. Il comando della base venne affidato al capitano Angelo Graziani; la base funzionò per circa un anno e fu chiusa il 22 febbraio 1946, per il sorgere di dissidi tra le autorità italiane e quelle jugoslave per la questione di Trieste. In questo arco di tempo furono raccolti e rimpatriati 5970 sbandati e dispersi fra cui 209 mogli e figli degli stessi.

La Divisione “Garibaldi” sbarcò a Taranto e fu raccolta al Campo di Sant’Andrea. Qui oltre 3000 militari optarono per combattere ancora nella fila del Regio Esercito. Di questi, circa 1164 residenti nelle regioni già liberate, ovvero a su della linea gotica, furono inviati in licenza in attesa di essere reimpiegati. “£6 militari delleclasse più anziane vennero congedati.

Il 16 marzo 1946 la Divisione “Garibaldi” fu passata in rassegna dal Luogotenente del Regno, Umberto di Savoia. Alla bandiera del Reggimento ”Garibaldi” per i reparti di fanteria della Divisione omonima, venne concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:

“Degni eredi delle tradizioni militari e del sublime eroismo della divisone “Taurinense” e “Venezia” duramente provate prima e dopo l’armistizio, i reparti di fanteria della divisione partigiana “Garibaldi” dai resti di quella unita derivati, si forgiavano in blocco granitico ed indomabile, animato da nobili energie e da fede nei destini della Patria.

In diciotto mesi di epici ed ininterrotti combattimenti, scarsamente riforniti di viveri, senza vestiario né medicinali, con gli effettivi minati da malattie tenevano alto, in terra straniera, il prestigio delle armi italiane, serbando intatta la compagine spirituale e materiale dei propri gregari che volontariamente preferivano la sanguinosa lotta della guerriglia ad una avvilente resa. Ultimata la guerra in Balcania e rientrati in Patria, ridotti ad un terzo, dopo i duri combattimenti sostenuti nelle aspre montagne del Montenegro, dell’Erzegovina, della Bosnia, e del Sangiaccato, chiedevano unanimi l’onore di difendere il suolo natale, emuli di quanti si immolarono in Italia e al dovere, tramandando ai posteri le leggendarie virtù guerriere della stirpe.”

 

La motivazione della Medaglia d’Oro riverbera in parte i tempi andati. Il presente era sempre difficile. La Divisione “Garibaldi” operò nella Jugoslavia centrale ed ebbe come base per il suo rimpatrio, come visto, Ragusa.

 

Una vicenda che merita di essere ricordata e che sottolinea la situazione estremamente difficile di quel periodo è quella in cui la Divisione composta da militari diventati combattenti per la libertà jugoslava stavano per essere inviati a Trieste, come forza d’intervento italiana. Ragusa, infatti era un ottima base per l’invio della divisone in Istria.

La ricostruzione di questa vicenda, rimasta al piano degli intendimenti ed estremamente significativa è stata ricostruita sotto il titolo “una illusione svanita”[1]  da parte dei protagonisti.


[1] Viazzi L., Taddia, L. La Resistenza dei militari italiani all’Estero. La Divisione “Garibaldi” in Montenegro, Sangiaccato, Bosnia, Erzegovina, Roma, C.O.M.R.M.I:T.E., Rivista Militare, 1994, pag. 809