UN'ILLUSIONE
SVANITA[1]
La storia della "Garibaldi", subito prima e dopo il rimpatrio, si
arricchì di un episodio inedito, che rievoca, almeno nelle intenzioni,
l'impresa di Fiume.
A
smuovere le speranze per una operazione su Trieste, tanto audace quanto
improponibile, furono proprio i Sovietici, all'epoca già in rotta di collisione
con Tito e, di conseguenza, contrari alle sue mire espansionistiche sui
territori della Venezia Giulia.
L'episodio
riportato dal generale Ravnich, sulla scorta di gelosi ricordi personali, che
si riferiscono ad un periodo in cui, dopo l'eroica esperienza balcanica, solo
alla "Garibaldi" ed al suo comandante era concesso di osare o di
sognare. Sentiamolo: "Verso la fine del febbraio 1945", racconta il
generale Ravnich, «per noi della "Garibaldi" arrivò l'ordine di
rientrare in Patria». Mentre a Ragusa attende che le sue brigate, sparpagliate
per tutta la Jugoslavia scendano sulla costa dalmata per imbarcarsi, Ravnich un
giorno viene avvicinato da Kovaljenko, che lo invita a cena. Accompagnano
Ravnich a villa Sherazade, tra gli altri il Capitano Luigi Ferraris, capo
dell’ufficio matricola, il capitano medico Gustavo Silvani, il maggiore Roberto
Reno, suo capo di Stato Maggiore, ex ufficiale della “Venezia” che ha fatto adottare
anche ai combattenti non alpini della “Garibaldi” il cappello con la penna come
segno distintivo nazionale e “patriottico” della divisione nel contesto
ideologizzato di quella guerra partigiana.
Nel
corso del “simposio”, con un giro di mano che evita Risto Valetié invitato a
“copertura” dallo stesso Kovaljenko, il capitano russo fa arrivare al generale
Ravnich un plico. Quando lo apre, con grande sorpresa Ravnich constata che
contiene copia dell’ordine di operazione dell’esercito di Tito per lo sbalzo
finale dal fronte dello Srem verso Nord, e per l’invasione della Venezia Giulia
e di Triste, “Naturalmente”, soggiunse Ravnich, “trafugato non so come dai
sovietici”, A rendere ancora più grande la sorpresa dell’ufficiale istriano,
Kovaljenko accompagna il “regalo” con una dichiarazione che Ravnich non si
sarebbe mai aspettato. A quattr’occhi gli dice: “il mio governo gradirebbe
incontrarsi con gli italiani, anziché con gli jugoslavi, sul vecchio confine
italo-jugoslavo. L’esecuzione di questo ordine operativo è prevista per la metà
di aprile. C’è tutto il tempo per noi e per voi di arrivare al confine del
Regno d’Italia”.
Per
Ravnich questo discorso suona come un invito più o meno esplicito a organizzare
una spedizione “garibaldina” in Istria onde costruire un fatto militare, anche
minimo che possa trasformarsi in un fatto compiuto politico tale da facilitare
a Stalin il contenimento dell’espansionismo militare di Tito verso Trieste.
“Questo
è quanto rilevato dai segni e dalle parole”, continua Ravnich. “Mi si invitava
evidentemente a prendere l’iniziativa. Dovevo arrivare in zona magari con una
sola barca di pochi uomini”. L’invito di Kovaljenko trova l’ufficiale italiano,
più che disposto a tentare il colpo.
Pochi
giorni dopo essere rientrato dalla Jugoslavia, Ravnich entra in contatto con
ufficiali di rilievo della nostra marina, e ottiene qualche piccolo risultato
che gli dà speranza. A Taranto, in casa dell’ammiraglio Parona, una cena ha
luogo. Presenti diverse personalità militari (“tutti ufficiali di grado
superiore al mio”), e un politico, il ministro del lavoro Gasparotto, senza che
si parli apertamente di uno sbarco a Fiume o in una zona prossima di dove
muovere verso l’interno dell’Istria e bloccare la strada per Trieste, vengono
concordati alcuni particolari di valore preliminare.
“Cominciammo
col dire che i miei soldati avrebbero avuto libero accesso sulle navi alla
fonda a Taranto”, ricorda Ravnich. Il giorno dopo gli alpini della “Garibaldi”,
i soli cui viene concessa questa possibilità, si recano in massa a visitare la
Giulio Cesare prima e la Garibaldi che la accosta poi. L’accoglienza che i
marinai delle due unità riservano ai fanti è entusiastica. Immediata è anche la
simpatia tra Ravnich e il comandante della Giulio Cesare. Nel Regno del Sud, i
combattenti balcanici della “Garibaldi” godono di buona fama. Costituiscono
un’unità agguerrita, fatta di combattenti che anche nei momenti di più
drammatico isolamento dopo l’8 settembre e per diciotto mesi hanno sempre
tenuta alta la bandiera italiana di fronte all’ex alleato tedesco e al nuovo
alleato comunista jugoslavo.
Insomma,
alcune premesse sembrano esserci, di ordine “psicologico”, e di ordine politico
in relazione a “complicità” che avrebbero favorito la spedizione.
“Quelle
visite costituivano una specie di prova generale per l’imbarco, un modo per
compiere un imbarco mascherato?”.
“Nelle
mie intenzioni si”, risponde Ravnich. “Ma solo nelle mie intenzioni, e nelle
intenzioni di qualcuno che poteva più di me”, aggiunge il generale, che per ora
non intende fare uscire dall’anonimato questa personalità. “Navi a Taranto ce
n’erano moltissime, c’era tutta la flotta tutta la nostra flotta. Ma la mia
delusione fu enorme quando constatai che quei poveri marinai non avevano la
nafta non solo per muovere le navi, ma nemmeno per cuocere il rancio”. Deciso
però a non mollare, a praticare tutte le vie possibili per realizzare il
progetto, il 21 Marzo Ravnich e a Roma dal generale Messe. Il capo di Stato
Maggiore immediatamente lo manda dal colonnello Agrifoglio, con cui ha un
colloquio confidenziale. Al comandante del Servizio Informazioni Militare
Ravnich consegna il documento, e riferisce dettagliatamente dell’invito
sovietico, insieme alla sua disponibilità ad assumere l’iniziativa. Agrifoglio,
nonostante gli italiani abbiano “le mani legate” opera per metterlo in contatto
con persone che, afferma “avrebbero potuto contribuire a una sia pur modesta
impresa nel senso desiderato dal governo russo”. Inizia così per Ravnich una
intensa ricerca di alleanze e di aiuti, fatta però senza che nulla traspaia.
Importante, soprattutto, è muoversi con prudenza nei confronti degli Alleati,
degli inglesi in particolare che più degli americani fanno la politica dello
scacchiere balcanico e sono i principali sostenitori di Tito.
A
casa dei principi Colonna, nel corso di una cena appositamente organizzata
dalla principessa Adelina, vedova dell’ex governatore dell’Urbe Don Pietro,
Ravnich può incontrare un ufficiale di collegamento inglese, e chiedergli
l’immissione della “Garibaldi” nei Gruppi di Combattimento italiani.
Motiva
la richiesta con una ragione militare e patriottica il cui significato ultimo
non dovrebbe sfuggire all’interlocutore anglosassone. Desiderio dei
“garibaldini”, egli spiega, è quello “di continuare la lotta sino a raggiungere
i nostri vecchi confini per via di terra dopo aver percorso la Jugoslavia in
lungo e in largo”. Senza nulla
promettere, il maggiore Baumag riferisce.
Il
giorno dopo il generale Ravnich è messo in grado di prelevare dai magazzini
alleati 3800 serie di corredo complete, altrettante armi, delle carrette
cingolate, 36 autocarri e tutto il necessario per costituire un reggimento a
formazioni di gruppi di combattimento. La “Garibaldi”, che al suo rientro in
Italia si era addirittura tentato di disarmare di quelle poche armi che aveva
portato con sé dalla Jugoslavia, e che gli alpini avevano rifiutato con
decisione di consegnare, era riarmata, e senza che nulla fosse rivelato della
manovra russa agli inglesi. Irrisolto rimaneva il problema di come muoversi.
Con l’Italia ancora tagliata in due dalla Linea Gotica, e la presenza
partigiana comunista nelle terre orientali, era molto difficile pensare di
“anticipare” l’esercito jugoslavo via terra sui vecchi confini.
Priva
l’aviazione italiana di aerei a sufficiente autonomia con i quali volare d’un
balzo in Istria, come Ravnich aveva potuto constatare durante una visita a
Lecce, l’idea originaria di una spedizione per mare rimaneva la sola pensabile,
l’ultima speranza. Ma nemmeno a Roma Ravnich poté trovare la strada per
arrivare ad aver la nafta necessaria a far muovere quelle potenti navi ancora
di Taranto. «Sulle navi c'era di tutto», ripete Ravnich ricordando ancora una volta la sua
«ispezione». «Le Santebarbare erano piene di proiettili, i nostri marinai le
tenevano in efficienza, ma la flotta era ugualmente prigioniera, perché non
camminava, non era possibile fare nulla». La voluta ingenuità, o la indiretta
complicità che a Roma aveva reso possibile con tanta prontezza il riarmo della
«Garibaldi», a Taranto si scontrava con una difficoltà insormontabile. Altri
avevano in mano le chiavi della volontà di quegli uomini, di Ravnich, dei suoi
garibaldini, e di chi era dietro a Ravnich, abbastanza importante per potere
fare parecchio, ma non tanto da poter risolvere tutto. La storia della
“Garibaldi” non avrebbe preso le strade del Nord né le rotte dell'Adriatico. «E
così che il progetto naufragò». E dicendo questo Ravnich guarda fuori dalla
finestra, lontano dove sente il mare di Bordighera, «meno azzurro di quello
dell’Istria”.
Fu
così che la spedizione per l'Istria e per Trieste non ci fu.
[1]
Stralcio dell'intervista
rilasciata dal generale Ravnich al giornalista Antonio Pitamitz e pubblicata su
"Storia Illustrata" n.284 del luglio 1981 con il titolo “I sovietici
dissero agli italiani: marciate su Trieste". Per gentile concessione.
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