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lunedì 22 gennaio 2018

Conferenza alla Società Tarquinense di Arte e Storia. 20 gennaio 2017

Caporetto, la battaglia d'arresto e la promessa del Re
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La questione agraria. Una storia italiana

 Massimo Coltrinari
socio STAS


La spedizione dei Mille rappresenta la matrice per comprendere oltre cento anni di storia italiana in chiave politico-economico-sociale: la spedizione, come noto, fu promossa dai progressisti contro il parere dei moderati, Cavour era contrario e fece il possibile per farla naufragare, per una soluzione come quella di Pisacane, finita in tragedia tre anni prima, nel 1857. Garibaldi, con la protezione dell’Inghilterra, approfittando anche delle difficoltà e del malgoverno del Regno delle due Sicilie riuscì a far crollare lo Stato Borbonico promettendo la terra ai contadini, ponendo quindi in essere la questione agraria. Qualcuno andò più in là nel credere alle promesse garibaldine, ed alcuni contadini già si impossessarono della terra uccidendo i loro padroni. E’ l’episodio di Bronte, che vide protagonista Nino Bixio. Mazzini a Napoli voleva la Repubblica, uno stato meridionale distinto dalla Monarchia Sabauda. Per non alterare l’equilibrio europeo e il predominio francese che si andava sostituendo con quello austriaco in Italia, Cavour fu “consigliato” a scendere a sud ed incanalare le conquiste garibaldine nel solco moderato. E questo avvenne, aprendo così la predetta questione agraria, ovvero i padroni, come sotto i Borboni, rimanevano padroni ed i contadini, come sotto i Borboni, dovevano continuare a lavorare la terra peri i loro padroni. Cambiava solo il regime che da assoluto diveniva costituzionale in un contesto di liberalismo più o meno accentuato.

Nel meridione per i primi dieci anni dall’unificazione si sviluppò una sorta di guerriglia contro lo stato nazionale, definita “brigantaggio”, sostenuta dai santuari nello Stato Pontificio volta a ripristinare un potere borbonico sostenuto solo dai nostalgici. Contemporaneamente di apriva la questione meridionale per il giovane Stato nazionale, che con la occupazione di Roma, vedeva aprirsi anche la questione romana, con la Chiesa Cattolica. L’unità dello stato era minata, oltre che da fattori esterni anche dalle rivolte interne, e dalle problematiche sociali tutte aventi origine nella inaccettabile condizione sociale delle classi più povere. In Romagna rende piede l’attività di Andrea Costa, e si sviluppa quel confronto con il padronato che renderà la vita sociale tesa e ribollente fino ad arrivare al 1896 quando le rivolte devono essere represse con i cannoni dell’Esercito, il cui generale incaricato, Bava Beccaris, riceverà la Medaglia d’Oro per il suo operato, a seguito del fallimento delle soluzioni coloniali. In colonia si voleva andare per trovare terra da coltivare ed andammo in Eritrea ed Etiopia ed in Somalia, ma non riuscimmo in nessuno degli scopi previsti. L’inizio del secolo trova aggravata la questione agraria, a cui si aggiunge, per quel poco di industrializzazione che si è realizzato anche la agitazione operaia nelle città. Non vi è pane per tutti, e quel poco di ricchezza che si riesce a produrre è a disposizione di pochi.

Nel 1914 la settimana rossa, condotta da uomini che saranno poi protagonisti della Storia d’Italia, Pietro Nenni, Benito Mussolini, nelle Marche e nelle Romagne, cercano di attuare un socialismo che faccia saltare i vincoli padrone-contadina. Nelle città sindacalisti rivoluzionari come Filippo Corridini o scialisti come Cesare Battisti nei loro discorsi insistono per una riforma agraria che risolva il problema della fame. Nel 1913 oltre 4,5 milioni di italiani emigrano nelle americhe, in quanto se rimasti in Italia sarebbero morti di inedia. E’ una delle conseguenze della mancata riforma agraria proposta a fine secolo e soppressa dai cannoni di Bava Beccaris.

La situazione, con la guerra europea che divampa ovunque, e prerivoluzionaria. Scoppia il dissidio tra interventisti e neutralisti, se entrare in guerra oppure no. Tra gli interventisti vi sono  quelle frange di sinistra che vedono nella guerra la soluzione per scardinare, dopo la vittoria, il rapporto Esercito-Monarchia e quindi proporre riforme socialiste in senso stretto. Sono gli interventisti alla Filippo Corridoni, alla Benito Mussolini, che si affiancano agli interventisti di tradizione repubblicana e ad una destra, che si riconosce lelle parole di D’Annunzio intrisa di nazionalismo e sciovinismo, contro il nemico ereditario. Dal 1915 al 1917 si combattono battaglie in cui tutti sono convinti che l’unica soluzione è la vittoria, poi si potrà parlare di temi socio-economico. Vengono chiamati a combattere per i padroni le masse di contadini (oltre il 53% dell’esercito combattente) e gli operai, mentre le donne che rimangono a casa li devono sostituire nelle fabbriche e nei campi. Lo sforzo è continuo e sempre più oneroso, ma ognuno compie il suo dovere, anche per la ferrea disciplina che Cadorna impone all’Esercito combattente.
Arriva il 24 ottobre 1917, con il nemico, che sperimenta contro di noi, dopo averlo fatto Riga il 1 settembre 1917, una nuova tattica, derivata dallo studio della battaglia di Canne del 216 a.C. Lineamenti e principi che sono già stati enunciati nel piano tedesco del 1906, elaborato dal von Schlieffen, ed attuato, in modo incompleto dal von Moltke il giovane nel 1914 durante i primi mesi di guerra. Tattica che ribaltava tutti i principi napoleonici elaborati dal von Clausevitz, con l’attacco in un sol punto e non su tutta la linea. La XII Battaglia dell’Isonzo è una sorpresa strategica che fa crollare tutto il fronte. E’ la ritirata dall’Isonzo al Piave.

Si profila un disastro nazionale. In molti in Europa credono che l’Italia esca dalla guerra, sconfitta e menomata; altri pensano che sia arrivato il momento in cui occorre, come in Russia, innescare processi rivoluzionari volti a spazzare via la monarchia, ormai senza più il puntello dell’Esercito. La Chiesa di Benedetto XV intravede, a questione romana ancora aperta, la possibilità di chiudere questa questione da posizioni di forza. Tutte quelle forze neutraliste che non volevano la guerra, ora premono per realizzare i loro obiettivi.

In questo clima di tragenda, il Re compie quel passo che ne Vittorio Emanuele II ne Umberto I, ucciso questo Re si da un anarchico, ma anche perché aveva permesso l’impiego dell’Esercito contro gli Italiani, affrontare la riforma agraria. Dopo il convegno di Peschiera, in cui tiene testa agli Alleati, si rivolge a tutti gli Italiani, al popolo italiano e li chiama a difendere la propria “terra”.
Un messaggio tanto chiaro quanto incisivo: si affronta alla fine la riforma agraria che ha travagliato i primi cinquant’anni di esistenza unitaria. A guerra finita, a vittoria conseguita si affronterà la questione agraria. In pratica, il messaggio è chiaro: difendente la vostra “terra” che, se si sconfigge il nemico, domani sarà vostra. La promessa è chiara. Il ragionamento del soldato è ancora più semplice: se sopravvivo avrò la terra e non dovrò emigrare per me e per la mia famiglia; se muoio, la terra passera ai miei figli, che avranno in ogni caso un futuro assicurato. La guerra diviene di interesse di tutti, una consa concreta, non un obiettivo astratto.

Proclama di SM il Re alla Nazione dopo il convegno di Peschiera dell’8 novembre 1917

Italiani !
Il nemico, favorito da uno straordinario concorso di circostanze, ha potuto concentrare contro di noi tutto il suo sforzo. All'esercito austriaco, che in 30 mesi di lotta eroica il nostro Esercito aveva tante volte affrontato e tante volte battuto, è giunto adesso l'aiuto, lungamente invocato ed atteso, di truppe tedesche numerose ed agguerrite. La nostra difesa ha dovuto piegare; ed oggi il nemico invade e calpesta quella fiera e gloriosa terra veneta da cui lo avevano ricacciato la indomita virtù dei nostri padri e l'incoercibile diritto dell'Italia.
Italiani !
Da quando proclamò la sua unità e la sua indipendenza, la Nazione non ebbe mai ad affrontare più difficile prova. Ma come non mai né la mia Casa né il mio Popolo, fusi in uno spirito solo, hanno vacillato dinanzi al pericolo, così anche ora noi guardiamo in faccia all'avversità con virile animo impavido.
Dalla stessa necessità trarremo noi la virtù di eguagliare gli spiriti alla grandezza degli eventi. I cittadini, cui la Patria aveva già tanto chiesto di rinunzie, di privazioni, di dolori risponderanno al nuovo e decisivo appello con un impeto ancora più fervido di fede e di sacrificio. I soldati, che già in tante battaglie si misurarono con l'odierno invasore e ne espugnarono i baluardi e lo fugarono dalle città col loro sangue redente, riporteranno di nuovo avanti le lacere bandiere gloriose, al fianco dei nostri alleati fraternamente solidali.
Italiani, cittadini e soldati !
Siate un Esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede incrollabile nei destini d'Italia suoni così nelle trincee come in ogni più remoto lembo della Patria; e sia il grido del popolo che combatte e del popolo che lavora. Al nemico, che ancor più che sulla vittoria militare conta sul dissolvimento dei nostri spiriti e della nostra compagine, si risponda con una sola coscienza, con una voce sola: tutti siamo pronti a dar tutto, per la vittoria e per l'onore d'Italia!
Dato dal Quartier Generale il 10 Novembre 1917.
Vittorio Emanuele

Il cambio al vertice dell’Esercito tra Cadorna e Diaz, è una continuità nell’azione del Comando Supremo, non una contrapposizione. Diaz è stato per anni alle  Capo delle Operazioni del Comando Supremo, ovvero traduceva in ordini quello che Cadorna decideva. Apprende immediatamente la lezione di Caporetto, cambia sul tamburo i lineamenti ed i procedimenti di impiego, e vince il 27 novembre 1917 la Battaglia di Arresto, tra la sorpresa generale, sia Italiana che Europea.

Il messaggio fatto giungere alle truppe è chiaro: soldati difendete la vostra “terra”, è domani sarà vostra. Non è una semplice enunciazione. Viene ribadito in chiare lettere ad ogni occasione, ma soprattutto attraverso la proliferazione dei cosiddetti “giornali di trincea” che sono ampiamente pieni di disegni per far comprendere il messaggio anche a chi non sa leggere, a condizioni di vita nelle trincee più accettabili, turni di licenza certi, ripartizioni dei sacrifici più equa interpretati come segni che si sta cambiando mentalità da parte delle classi dirigenti. La promessa del Re, in quei dodici mesi di guerra viene suffragata da reali prove concrete. Ed i risultati non possono non venire. La disciplina si rinsalda, l’Esercito serra e file, il fronte interno si stringe attorno alle autorità, i contrari alla guerra attenuano la loro azione, per tema di essere definiti  “traditori”. Il 1918 è sotto gli occhi di tutti per comprendere che la promessa del Re, è il collante che unisce la Nazione, con le classi superiori che, con Caporetto, hanno intravisto il pericolo di perdere ogni cosa e avere prospettive negative, sotto il tallone austriaco e germanico. Allineate dietro al Re ed alla sua promessa, le classi superiori speravano che quelle inferiori accettassero questa promessa e non scegliessero la soluzione bolscevica che stava spazzando via lo Zar e le classi superiori russe.

Il 1918 è l’anno della unione che non è sacra come in Francia, ma che trova le classi italiane unite nel perseguire la vittoria. Con l’intelligente strategia di Diaz, cresciuto alla scuola di Cadorna, ma con la capacità di migliorarne alcuni aspetti cadorniani invisi a molti, prima ci si difende e con la battaglia del Solstizio si annulla ogni azione austriaca adottando le contromisure che se fossero state messe in atto a Caporetto, il fronte non sarebbe crollato e poi, passata l’state a preparare la battaglia finale, attuarla attuando il piano elaborato dal generale Caviglia che annienta le forze austro-ungariche sul campo. L’Austria è sconfitta in campo aperto, non ha più esercito, come stato è stato “debellato” e crolla scomparendo dalla carta geografica europea  al contrario della Germania, che riporta nelle sue frontiere l’Esercito e non ritenendosi assolutamente vinta e chiede un armistizio ed una pace che tantissimi pensano sia un vero e propri tradimento. Inizia il travagliato dopo guerra tedesco con le conseguenze che tutti conosciamo.

In Italia arriva il momento consequenziale di dare corso al conseguimento della vittoria. Chi innesca il processo è Giulio Douhet, il grande pensatore strategico che ha inventato la dottrina aeronautica famoso in tutto il mondi. Nel proporre la celebrazione della vittoria, elabora un modo che si inserisce nella Promessa fatta dal Re durante i giorni di Caporetto.

Secondo la tradizione, soprattutto quella romana, il Capo, il Dux che aveva conseguito vittorie sui nemici di Roma, rientrava nell’Urbe per celebrare il suo Trionfo. Fra folla applaudente arriva al foro, con il corteo dei suoi soldati vincitori, del bottino e trascinando i prigionieri nemici in catene e saliva la Via Sacra per recarsi in Capidoglio, al tempio di Giove, e rendere omaggio ed onore al Re degli Idei. Roma riconosceva in lui il Condottiero, il Vincitore e gli serbava onri ricchezze e gloria.
Secondo questa tradizione, Vittorio Emanuele III, che era partito per il “campo, il 27 maggio 1915 ed aveva passato tutta la guerra al fronte tanto da essere definito il Re Soldato con accanto Armando Diaz doveva ritornare a Roma con relativa sfilata delle truppe vittoriose. Nulla di tutto questo

Giulio Douhet propone ed è accettato, nel solco appunto della promessa fatta dal Re, che si adotti un altro modo di festeggiare la vittoria. Propone, nella considerazione che l’Esercito italiano ha combattuto in 11 campi di battaglia, di scegliere la salma di un soldato ignoto morto in questi 11 campi di battaglia. Le salme degli 11 soldati sono radunati e raccolte ad Aquileja, prima capitale d’Italia, ed allineate nella Navata centrale della Basilica. Qui viene chiamata una Madre che ha perso il figlio in guerra, e viene scelta una Triestina, significando questo che si è combattuto per liberare Trento e Trieste. La Madre vien condotta, in gramaglie, ad Aquileja e, durante una solenne cerimonia, si svolge il rito della scelta della bara, del soldato ignoto che dovrà essere portata a Roma. La Madre sceglie la Bara, che viene caricata su un treno, composto da poche carrozze, adorno di fiori. Il giorno dopo il Treno parte da Aquileja a Roma, e si ferma, per pochi minuti, in tutte le stazioni che si trovano lungo il percorso. In ogni stazione riceve, in silenzio, l’omaggio di tutti gli italiani, di tutte le classi sociali, di tutte le associazioni, i partiti e le tendenze possibili. Le bandire rosse comuniste, nere anarchiche, bianche cattoliche,  tricolori nazionaliste si abbassano e sono tutte abbrunate. Un momento di concordia nazionale che fa da sugello alla Grande Guerra come IV Guerra di indipendenza, conclusione del nostro risorgimento nazionale iniziato nel 1849.

E’ il figlio che ritorna: I Padri e le Madri accompagnavano all’inizio e durante la guerra i figli alla stazione per raggiungere le Caserme per arrivare al fronte, a fare il loro dovere e combattere per l’Italia. Chi Cadde trova in questo viaggio il simbolo del ritorno del figlio a casa, a dovere compiuto e a vittoria conseguita. Un momento di partecipazione nazionale intenso e significativo.

L’arrivo a Roma è un tripudio di folla. Accolto dal Re e da tutti gli Italiani il 3 novembre 1921, è deposto a Santa Maria degli Angeli, e la bara con il Soldato Ignoto è vegliata per tutta la notte. La mattina del 4 novembre 1921, secondo anniversario della Vittoria, con un corteo immenso, come quello che i romani organizzavano per il Dux vittorioso, su un affusto di cannone che oggi è conservato al Museo Centrale del Risorgimento, la bara con il Soldato Ignoto è portata all’Altare della Patria, altra simbologia voluta da Douhet, per essere sepolta ai piedi del Padre della Patria, Vittorio Emanuele II. Il sacello del Milite Ignoto rappresenta la saldatura tra chi ha avviato e voluto il risorgimento nazionale e chi, con il sacrificio lo ha concluso. Nella simbologia nazionale il Padre ed il figlio sono onorati da tutti gli Italiani, che appunto dal 1921 il monumento a Roma non è chiamato più Vittoriano, ovvero monumento a Vittorio Emanuele II, ma Altare della Patria, a significare la avvenuta costruzione definitiva della nazione e dello Stato Italiano.

Che cosa ha voluto significare tutto questo. Nel solco della promessa fatta dal Re nei giorni di Caporetto, e tenuta a base come collante tra tutte le componenti della società italiana ( non sarà cosi venti anni dopo quando Gentile il 23 giugno 1943 chiama a raccolta il popolo italiano per resistere e rimanere unito rievocando i giorni di Caporetto per conseguire la vittoria durante la guerra in corso: il popolo non ha dimenticato ed abbandona al loro destino le classi dirigenti, monarchia e fascismo) la traslazione di un Ignoto Soldato da Acquileja a Roma significa una cosa sola: durante la guerra i sacrifici sono stati ripartiti tra tutti, ora i frutti della vittoria dovevano essere ripartiti tra tutti.

In parole più concrete il Re e il Governo doveva procedere a mantenere la sua promessa: avviare la riforma agraria e dare la terra ai contadini, oltre alla riforma sociale per gli operai e il piccolo ceto borghese. La cerimonia del Milite Ignoto è stata l’arrivo di un percorso iniziato nei giorni bui e tristi di Caporetto.

Le classi superiori, gli industriali, gli agrari e ogni altro componente del capitalismo italiano, spaventato da quanto era successo in Russia, con una Chiesa cattolica ancora più spaventata, sempre più su posizioni retrograde e conservative, ripresisi dallo spavento di Caporetto, al riparo ormai da ogni pericolo, non ha il coraggio di fare il grande salto. Via via si attesta su posizioni sempre più
 Conservatrici, sempre più egoiste, sempre più orientate a conservare  le proprie ricchezze. Tra di lor la componente più conservatrice viene definita “Approfittatori di Guerra”, i famosi “pescicani” che si sono arricchiti con la guerra stessa e che adesso non vogliono assolutamente sentire di spartire i loro profitti con chichessia.

Dal 4 novembre 1921 al 22 ottobre 1922 si susseguono mesi in cui va in frantumi la concordia nazionale; gli agrari assoldano squadre di azione che impongo i loro punti vi vista con la violenza, chi era uscito dalla trincee, sia a destra che a sinistra non conosce altro linguaggio che la violenza. L’Italia ritorna ad essere un paese diviso politicamente e socialmente. Il Re non prende posizione, rimane in attesa, ma questa sua neutralità favorisce l’estremismo di destra e di sinistra. Il grande scontro si risolve con la Marcia su Roma, nota a tutti, che porta il fascismo, la destra conservatrice, al potere.
Non si parlerà più di riforma agraria né di altro, altri due anni ed arriveranno le leggi fascistissime del 3 gennaio 1925, a termine dei sei mesi “quartarellisti”, iniziati con l’uccisione di Giacomo Matteotti, che porranno fine al regime liberale–parlamentare. Il fascismo si pone come garante delle classi superiori, mantiene tutti i privilegi. Il Re avalla tutto questo, dimentico dei giorni di Caporetto.

Il 23 giugno 1943, sul Campidoglio, come detto, Gentile lancia un accorato appello agli Italiani. Monarchia e Fascismo stanno vivendo giorni difficili e se né aspettano altrettanti ancora più difficili, ma cade nel vuoto. Poi viene l’estate del 43, la calda estate del 1943, ove la Monarchia liquida il Fascismo incapace di gestire la situazione, abbandonato dal popolo, e cerca di uscire dalla guerra con meno danni possibili. E’ la crisi armistiziale del 1943, l’Italia divisa in due, il popolo italiano è lasciato solo. Ognuno è solo e deve scegliere da che parte sta, mentre l’Italia è trasformata in un campo di battaglia di eserciti stranieri. Iniziano due anni difficilissimi, che si concludono con la fine della guerra sul territorio nazionale nel maggio del 1945 e politicamente il 10 febbraio 1947 con la firma del Trattato di Pace, dopo la scelta istituzionale tra Monarchia e Repubblica. E’ la resa dei conti, di tutte le scelte del 195, del 1917, del 1922, del 1940. L’Italia è di nuovo Sovrana. I Governi usciti da questa esperienza avviano subito la riforma agraria che è attuata in poco tempo. Con la ricostruzione, l’Italia risolve il suo problema secolare e in dieci anni realizza quel boom economico che la traghetta da stato pre industriale a stato industriale e moderno, con la lira che nel 1962 è una delle monete più forti del mondo.


Un percorso quello descritto sopra che offre lo spazio per tanti apprfondimenti per comprendere situazioni e scelte della nostra Storia recente.  

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