I Pericoli del dogmatismo
Sarà dedicato un volume dedicato alla dirigenza militare italiana della grande guerra nei suoi
aspetti ordinamentali, con l'intento di attirare l’attenzione per una riflessione più
dettagliata su uno degli aspetti più dibattuti della Grande Guerra: l’azione
dei vertici militari nella condotta della guerra, e quindi nella condotta delle
truppe e nell’impiego dei materiali. Oggi vi è la tendenza a considerarlo non
solo improprio, ma anche insensato. Vite umane gettate via (al pari oggi dei
migranti in mare respinti e lasciati al loro destino) senza nessuna considerazione
per l’uomo, i suoi sentimenti, la sua voglia di vivere, il suo futuro, la sua
famiglia; i materiali sperperati per niente, impoverendo ancor più una economia
già povera per se stessa. La critica è alla guerra di logoramento in quanto
soluzione adottata dai tecnici, i generali, rispetto ad altro tipo di guerra
(di manovra, ecc.) considerata dispendiosa oltre ogni limite. Rimane fermo che
la guerra, a prescindere da come viene condotta non è decisa dai militari, ma
dalla classe politica, su cui ricade “in toto” la responsabilità di questa
soluzione dei problemi politici internazionali. La condanna di questa classe
dirigente, i generali della Prima guerra mondiale, è quasi unanime, senza
appello; In Italia particolarmente ha permeato l’opinione pubblica in modo
molto profondo, agevolato questo processo anche dalle vicende della seconda
guerra mondiale. In cui una dittatura in divisa ha portato le forze armate
italiane a raccogliere solo sconfitte nel dileggio dell’alleato del tempo, mascherate
poi dal Valore militare a titolo assolutorio, concludendo questa parabola con
una fine ingloriosa senza che nessuno dei suoi 42 milioni di iscritti si
prendesse la briga di difenderla o almeno abbozzare una qualsiasi tipo di
opposizione. Chi sostituì il fascismo, sempre in divisa, fece ancora peggio
arrivando a quella crisi armistiziale del settembre 1943 che ancora oggi è una
ferita non rimarginata, aprendo le porte ad eserciti stranieri che trasformarono
l’Italia in un campo di battaglia. Due anni di tragedie, lutti e disperazione, in cui gli Italiani, meno i
soliti opportunisti, combatterono quella guerra di liberazione, così fu
chiamata, per liberarsi da chi aveva generato tante disgrazie. Nacque la Repubblica
attuale che ha dato pace, benessere e sicurezza per oltre 75 anni, in cui la
dirigenza militare ha dato prove su prove ampie e riconosciute in Italia e all’estero,
le cosiddette “missioni di pace” che di pace hanno solo il nome, di equilibrio,
efficienza, dedizione, tolleranza e senso di appartenenza. In apparenza
apprezzato tutto questo da tutti, ma in
realtà non sufficiente per ribaltare il profondo disprezzo che gli italiani, con
una parte che ostenta adesione e consenso ma che è solamente militarismo di
bassa lega, hanno per i loro militari.
Rancore, invidia, odio abilmente alimentato a fini di parte per una classe che
trova via via sempre più adesioni fino all’attuale governo che, ignaro di tutti
i trattati esistenti (ennesimo giro di valzer spensierato di una classe politica
di basso profilo) che propongono, in nome di questioni finanziarie e soprattutto
sulla utilità o meno di questo strumento, la trasformazione delle Forze Armate,
infarcite da quell’ibrido equivoco, che
solo l’Italia ha, militarpoliziesco rappresentato dall’Arma dei Carabinieri,
in una ONG (Organizzazione non
Governativa) di non ben definite funzioni. Espressione di questo le chiare
espressioni di disistima di esponenti di vertice del Governo verso i generali,
i tagli agli investimenti ( che peraltro sono tagli di posti di lavoro) di
accuse di sprechi, di dileggio verso usi e tradizioni, di tagli ai trattamenti
di quiescenza acquisiti peraltro in base a leggi, indicati alla pubblica
opinione come azione di moralità pubblica, che ha il “recto” di presentare il “generali”
come una categoria di persone poco perbene ed approfittatori. Espressioni
queste che trovano il plauso nella pubblica opinione. Se prendiamo in esame il
metodo storico vediamo che tutti questi approcci adottati verso le scelte per
le Forze Armate oggi in Italia hanno portato a tragedie, disastri e lutti, con
la scia poi di giustificazioni postume, senza che nessuno risponda mai del
proprio operato, come sta a dimostrare il fatto che, mentre in Germania una
classe politico-militare è stata chiamata a rispondere delle sue scelte con il
Processo di Norimberga, in Giappone lo stesso con il processo di Tokyo, in
Italia nulla. Approcci quindi che trovano la loro radice molto lontano, fino ad
arrivare alla dirigenza militare della Prima Guerra mondiale. Perché questi
approcci vengono suggeriti dal metodo storico errati. E perché hanno portato a
disastri. Oltre alla facile ed ovvia ipotesi che stiamo andando incontro a
simili situazioni, occorre trovare elementi per poter poi intervenire e cercare
di portare correzioni.
Il
punto di partenza che proponiamo per comprendere i comportamenti della classe
militare italiana nella Grande Guerra parte da quanto il Clausewitz sintetizza:
ogni strategia deve ricorre all’esperienza e rivolgere la propria attenzione
alle combinazioni che la storia della guerra già può offrire. Quindi il metodo
storico applicato ci permette di capire gli errori del passato, che dovrebbe
poi portare a non commettere errori nel presente. Questo non deve essere un
assioma incontestato. Insistere nel considerare la frase di Mahan che “ la sconfitta grida ad alta voce perché pretende
spiegazioni” può portare ad altri errori. Per la Prima guerra mondiale,
basta constatare quante pagine sono state scritte su Vittorio Veneto, la
brillante vittoria strategica italiana, e quante sono state scritte su
Caporetto, la pesante sconfitta tattica italiana. Il bilancio è fortemente a
favore di Caporetto. I pericoli in una fede cieca sul metodo storico, che ci
permette di evitare approcci che ci portano all’errore, e riduce “per difetto”
il numero delle opzioni tra cui scegliere sono evidenti prendendo in esame le
conclusioni di vari storici, tutti osservanti di tale metodo, che per uno
stesso evento militare giungono a valutazioni divergenti tra loro. Per questo
si può dire che per uno stesso evento le valutazioni possono essere diverse.
Tutto questo porta a dire del più grande pericolo del metodo storico. L’amore
viscerale e completo per il precedente porta ad una eccessiva fiducia in questo
aspetto che fatalmente porta ad dogmatismo, che è assolutamente da evitare. “Si
è fatto sempre così” è la frase che rileva tutto questo. Nella strategia quello
che è fondamentale è fare quello che l’avversario non si aspetta, non quello
che è considerato giusto. Da qui la prima critica ai generali della Grande
guerra che ha permesso a Clemanceau di pronunciare la sua famosa frase su di
loro, su generali che si preparano a vincere le guerre del passato, che deriva
appunto da una applicazione del metodo storico, della valutazione del passato,
in modo dogmatico.
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