La
presenza italiana ad Adalia
di
Giovanni Cecini
(*)
Introduzione
L’Italia era arrivata tardi
all’unificazione statale e ancora più tardi alla consapevolezza di dotarsi di
un dominio coloniale, necessario alla fine dell’Ottocento per imporre
all’interno e all’esterno del Paese il ruolo di grande potenza, ambizione
ritenuta a portata di mano dall’apparato politico, economico e militare
nazionale.
Dopo la drammatica esperienza in Africa
orientale nell’ultimo quarto del XIX secolo, all’inizio del Novecento il
Governo del Regno tornò a guardare con attivo interesse agli sviluppi
geo-strategici del Mare Nostrum, come
cortile di casa da poter curare ed ampliare. Roma – secondo l’occorrenza –
poteva imbracciare diversi atteggiamenti nei vari settori continentali europei
e quindi opzioni differenti in fatto d’alleanza, ma nel contesto mediterraneo
le linee guide sembravano dettate in modo rigido e condizionato. In fin dei
conti rispetto alle altre potenze, l’Italia non aveva altri sbocchi rivieraschi
e quindi gioco forza ritagliarsi uno spazio vitale ai margini dei propri
confini marittimi era da ritenersi essa stessa politica interna, prima che
politica estera o coloniale.
Perduta ormai l’occasione di impossessarsi
della Tunisia, caduta sotto l’influenza di Parigi a partire dal 1881, Roma
tentò varie strade pur di ritagliarsi sulla costa nordafricana anch’essa un
posto al sole, bacino per flussi migratori, rotte commerciali e uno scacchiere
determinante per i propri interessi politici e militari.
In questa corsa a occupare una poltrona in
prima fila, in competizione con la concorrenza francese, inglese e russa,
l’Italia guardava con profonda apprensione lo sviluppo di quello che all’epoca
veniva chiamato il Levante, ormai segnato dal declino incessante domestico ed
estero dell’Impero ottomano. Del resto l’apparato industriale nazionale,
ambizioso di inserirsi in scenari nuovi, cavalcando all’occorrenza l’ibridismo
degli istituti di credito del Paese, aveva molto a cuore la politica orientale
intrapresa dall’Italia.[1]
Per tutti questi motivi, sempre
all’interno dell’ambiguo schieramento della Triplice Alleanza, il Governo di
Roma si accordò con i diretti omologhi competitori anglo-francesi, pur di
partecipare alla spartizione – si badi bene come commensale cadetto – del
banchetto servito alla grande tavola diplomatica. In questo modo l’Italia
riuscì a spuntare almeno una seria ipoteca sul futuro della zona africana a
meridione della Sicilia, suddivisa nelle regioni della Tripolitania e della
Cirenaica, che allora era ancora a tutti gli effetti sotto l’autorità della
Sublime Porta.
Con tali presupposti diplomatici,
ostacolati invece dalle “strette” alleate Germania e Austria-Ungheria, perché
timorose di un incontrollabile collasso ottomano, per l’Italia era necessario
solo trovare il momento propizio per agire, senza però attendere troppo, visto
che il fluire veloce degli eventi internazionali avrebbe potuto far sfuggire il
possesso di quella regione verso altri contendenti stranieri, spregiudicati e
profittatori di possibili incertezze italiane.
L’Impero ottomano, protagonista indiscusso
per oltre quattro secoli del Mediterraneo orientale e dell’Europa danubiana,
aveva a partire dall’Ottocento visto incrinale il suo predominio sia nei
Balcani, sia nelle regioni rivierasche a mezza strada tra Europa, Asia e
Africa. Il sopraggiungere di interessi imperiali e coloniali delle potenze di
Pietroburgo, Londra e Parigi comportava per Costantinopoli una posizione
subordinata e altalenante tra passato e futuro, nella vorticosa ricerca di
sopravvivenza. Nel XIX secolo le numerose guerre, che videro implicata la
Sublime Porta, rappresentarono per il “Grande Gioco” diplomatico il ricorrente
tentativo di indebolire l’autorevolezza del Sultano, senza però creare quel
vuoto di potere nella zona, pericoloso per il mantenimento dell’equilibrio
internazionale, tanto a cuore ai piani geo-strategici degli inglesi. Ecco
quindi che all’inizio del Novecento “il malato d’Europa”, seppur malconcio e
tenuto in vita in modo quasi artificiale, manteneva un simulacro di potere in
quelle ampie regioni rivierasche, che sebbene nominalmente rientravano ancora
sotto il dominio ottomano.
E’ per questi motivi che nel bel mezzo
della seconda crisi marocchina, scoppiata nel 1911 tra la Francia e la
Germania, l’Italia colse come pretesto i propri interessi nazionali nel vilayet di Tripoli e in Cirenaica, per
inviare un duro ultimatum al governo
del Gran Vizir. Le motivazioni erano,
come è facile capire, intrise di malcelati e egoistici propositi economici e
commerciali, se gli eventi che portarono all’escalation videro proprio il premier
Giovanni Giolitti, che non era nel suo intimo né imperialista né nazionalista,
a capo del Governo, che alla fine dichiarò guerra alla Sublime Porta il 29
settembre 1911.
Nonostante gli inevitabili contraccolpi
strategici e diplomatici, che lo sforzo bellico comportò nell’intera politica
estera del Paese, la preparazione militare fu gestita in modo proporzionato, se
paragonata alla disastrosa impresa di circa quindici anni prima in Etiopia. Si
arrivò in poche settimane all’occupazione dei principali porti e delle maggiori
località costiere, tanto che lo Stato italiano, dopo poco più di un mese
dall’inizio delle ostilità, emanò un decreto d’annessione, il quale metteva le
due province ottomane della Tripolitania e della Cirenaica sotto la sovranità
italiana, assicurandosi così l’esclusione di qualsiasi concorrenza straniera su
quella striscia di terra da parte di altri soggetti diplomatici. L’atto di
annessione era un’azione unilaterale e interna, che tra l’altro non equiparava
i territori a quelli metropolitani, ma veniva a inserirsi in un sistema
internazionale di modus vivendi,
mentre ancora imperversava il feroce scontro bellico tra italiani e turchi.
Nel frattempo però la guerra di Libia,
programmata nella mente del comando italiano come un conflitto facile e rapido,
si stava rivelando difficile, soprattutto per l’aspro scenario fisico e per
quello etnico, ostile verso qualsiasi ingerenza straniera nelle distese
desertiche nord africane. Se le truppe regolari nemiche, limitate a poche
guarnigioni costiere, avevano offerto scarsa resistenza, furono le bande arabe
indigene, che impedirono la penetrazione interna, necessaria al possesso
effettivo del territorio. Per questi motivi la guerra dal deserto libico si
spostò in Egeo e negli stessi territori della Turchia continentale, dove Roma
riuscì a piegare diplomaticamente Costantinopoli. Se per l’Italia fosse
l’inizio del baratro o il presagio di grandi successi solo la Grande Guerra e l’intrigata
matassa internazionale, che ne seguì, lo avrebbero certificato.
L’attività
politico-militare
La presenza italiana ad Adalia trasse
origine dal generale interesse mostrato da Roma a partire dal 1912, durante le
ultime fasi della guerra italo-turca. L’impegno militare in Egeo e la
successiva occupazione di Rodi e del Dodecaneso portarono il Governo italiano a
ritenere opportuno un coinvolgimento nazionale anche nell’entroterra turco,
seppur solo in termini economici e commerciali. Era del resto un’idea
ricorrente quella di inserire il capitale industriale del Paese all’interno del
più grande disegno europeo nel Vicino Oriente, volto alla realizzazione della
cosiddetta ferrovia di Baghdad. In questo specifico progetto, Adalia rimaneva
ai margini, anche perché i rilievi geografici e le locali vie carovaniere
spesso impraticabili, che la circondavano, creavano numerosi ostacoli di ordine
pratico. Per di più il troncone principale della progettata ferrovia avrebbe
attraversato trasversalmente l’Anatolia e non andava ad investire direttamente
la sua costa meridionale. Tuttavia, il tentativo di poter creare un angolo di speculazione
in quella zona, sembrava ai magnati italiani un buon punto di partenza, sempre
in prospettiva di recuperare una posizione preminente nel Mediterraneo
orientale.
Dal 1890 l’Italia si era avvalsa ad Adalia
dell’agente consolare olandese Gustave Keun, sapiente faccendiere degli
interessi nazionali nella zona, nonostante questi come posizione ufficiale
fosse agente della Regia dei Tabacchi ottomana. Nell’aprile del 1913 però Roma
decise di gestire in proprio le relazioni diplomatiche in quello scacchiere: nel
mese di aprile quindi il ministero degli Affari Esteri creò ex novo un
vice-consolato in città, destinando ad Adalia il conte Agostino Ferrante,
dipendente per l’incarico dalla delegazione diplomatica italiana a Smirne.[2]
Nonostante la creazione in loco di strutture congeniali a questa base
d’influenza, oltre all’istallazione di alcune scuole dirette da religiosi
italiani e i fiumi d’inchiostro versati sulle grandi potenzialità rivolta
all’italica gente,[3] non
vi furono grandi azioni politiche. Il sospetto della Gran Bretagna in relazione
alla ferrovia per Baghdad aveva sì favorito un interessamento e una concessione
di tipo commerciale nella zona di Adalia, ma di fatto le scarse risorse degli
italiani e la condizione non industriale della regione rendevano i propositi
imperiali di Roma molto poco realizzabili. Era proprio quello che gli inglesi si
auguravano.
La situazione rimase di fatto immobile per
i successivi due anni, fino a quando, una volta che l’Italia entrò nel vortice
delle trattative su un suo futuro intervento nella Grande Guerra, si arrivò al
Patto di Londra, scommettendo sulla sconfitta degli Imperi centrali. Non erano
mancati certo dei contatti con lo stesso Governo ottomano, pur di far rimanere
l’Italia quanto meno neutrale, ma le vaghe promesse turche su Adalia non
convinsero gli italiani. Data la città costiera di fatto acquisita in ogni
caso, proprio in quei mesi Roma stava trattando con la Triplice Intesa per
ottenere altri compensi in Anatolia, sperando di arrivare almeno a Smirne oppure
a Konya. Nell’accordo, firmato nella capitale inglese il 26 aprile 1915 insieme
alle rappresentanze britannica, francese e russa, l’Italia spuntò tra l’altro
la prelazione sulle zone attigue alla provincia di Adalia, al momento del
collasso ottomano:
«Art.
9. In maniera generale, la Francia, la Gran Bretagna e la Russia riconoscono
che l’Italia è interessata al mantenimento dell’equilibrio nel Mediterraneo, e
che in caso di spartizione totale o parziale della Turchia asiatica essa dovrà
ottenerne una giusta parte nella regione mediterranea attigua alla provincia di
Adalia, ove l’Italia ha già acquisito diritti e interessi che hanno fatto
oggetto di una convenzione italo-britannica [del 19 maggio 1914]. La zona che sarà eventualmente attribuita all’Italia,
venuto il momento, sarà delimitata tenendo conto degli interessi già esistenti
di Francia e Gran Bretagna. Gli interessi italiani saranno parimenti tenuti
presenti nel caso in cui venga mantenuta l’integrità territoriale dell’Impero
Ottomano ed ove siano apportate delle modificazioni alle zone d’interessi delle
Potenze. Se la Francia, la Gran Bretagna o la Russia occuperanno dei territori
della Turchia asiatica durante la guerra, la regione mediterranea attigua ad
Adalia sarà riservata all’Italia, che avrà diritto di occuparla».
L’intesa non chiariva però in che modo
l’Italia potesse avvantaggiarsi all’atto pratico di questo diritto. La
diplomazia romana fu abbastanza timida nell’esprimere le proprie
rivendicazioni, mentre inglesi e francesi ebbero coraggio nel lasciare
indeterminati i territori turchi da assegnare all’Italia. Nonostante ciò il
Patto dell’aprile del 1915 venne integrato da altre decisioni, visto che
l’evolversi del conflitto mondiale stava creando numerosi equivoci e reciproche
recriminazioni tra gli stessi appartenenti alla coalizione della vecchia
Triplice Intesa. Anche tra gli stessi alleati vi erano accordi segreti e
l’Italia venne spesso tenuta all’oscuro delle trame tessute da Londra e Parigi.
Tale condizione non piaceva per nulla a Roma, che quindi chiese – a più riprese
e con una certa irritazione – conto di quanto nel suo diritto. Si arrivò dunque
all’incontro di San Giovanni di Moriana del 20 aprile 1917 in cui venne confermata
in favore dell’Italia una più certa cessione politica ed economica verso
Smirne, Konya e Adana. Adalia diveniva a quel punto il centro di un territorio
ampio e variegato.
Sembrava tutto sistemato, ma molte
variabili erano entrate a sostenere l’intricato equilibrio della guerra.
L’ingresso delle ostilità della Grecia e degli Stati Uniti, oltre alla
defezione della Russia (che non aveva quindi ratificato quanto deciso a San
Giovanni di Moriana), avevano messo in discussione molte certezze precedenti.
Una volta infatti che la guerra si concluse, all’indomani della sottoscrizione
ottomana dell’armistizio di Mudros, iniziò nella zona in questione un autentico
assalto alla diligenza. Cessate le ostilità, britannici, francesi e greci
tentarono ogni mossa pur di guadagnare posizioni vantaggiose nel Mediterraneo
orientale, trovando cavilli ai danni degli altri. L’Italia non fu da meno e
intuendo il rischio che altri soggetti potessero anticipare l’occupazione di
quanto ad essa assegnato, curò in ogni modo la salvaguardia proprio di Adalia,
considerata a quel punto il perno fondamentale delle proprie ambizioni
politiche orientali. Se Smirne sembrava di fatto assegnata ad Atene, la zona a
meridione del fiume Meandro (Büyük Menderes) doveva divenire italiana,
incontaminata da ogni altra presenza straniera. L’avamposto militare di Rodi,
divenuto da occupazione temporanea a territorio ormai (quasi) definitivo per
Roma, doveva fungere da trampolino per qualsiasi avventura politico-militare in
Anatolia.
Nel frattempo le autorità internazionali,
in esecuzione delle norme contenute nell’armistizio sottoscritto dall’Impero
ottomano, regolarono il normale andamento dei controlli commerciali delle coste
turche. L’Italia venne incaricata di verificare le linee di cabotaggio nella
zona tra Edremit ed Adalia. In base a tali decisioni, il 20 febbraio 1919 il
cacciatorpediniere Bersagliere giunse
proprio in questo ultimo porto, portando alcuni funzionari e agenti di
commercio italiani. Essi avrebbero dovuto istallare un posto di controllo,
oltre che ridare vita a tutti i progetti politici solo avviati nel 1913. Venne
riaperta anche una scuola, l’ambulatorio e la Missione archeologica. L’obiettivo
rimaneva quello di presidiare direttamente la costa e l’immediato entroterra,
per fare di Adalia un importante centro amministrativo e mercantile di
pertinenza nazionale. Fu dunque in quel periodo che a Roma prese avvio l’idea
di predisporre un Corpo militare di spedizione, destinato all’occupazione della
città portuale. Vennero organizzate delle aliquote di militari, sia tra quelli
presenti già a Rodi, sia tra altri da inviare direttamente dall’Italia.
In questi
ragionamenti la collocazione geografica di Adalia rappresentava una grande
opportunità, ma anche un problema. Infatti se il più generale interesse
italiano era rivolto alle località costiere dirimpetto al Dodecaneso, proprio
la posizione isolata di Adalia, rispetto a questi obiettivi comportava una
valutazione molto circostanziata. Si partiva essenzialmente dall’idea che il
porto cittadino non garantiva facili ancoraggi per un naviglio pesante, come
pure il fatto che i collegamenti con le zone circostanti erano limitati. Un
elemento positivo fu rintracciato nella connessione (lunga però circa 150
chilometri) con Burdur, località in cui passava una diramazione della ferrovia
anatolica, che opportunamente sviluppata avrebbe potuto ridare alla città
costiera quel primato commerciale dell’intera regione, che proprio la strada
ferrata le aveva sottratto negli ultimi decenni. Nei propositi italiani quindi
si comprese che partendo da Rodi, era necessario andare a presidiare con
opportuni avamposti militari non solo tutte le località costiere, ma anche
buona parte del difficile entroterra, che da Kuşadası arrivava ad Adalia, passando possibilmente per Konya. Per
Adalia venne individuato da principio un contingente formato da un battaglione
di fanteria, ma venne giudicato insufficiente, perché l’impressione suscitata
dai primi agenti italiani di commercio fu di grande preoccupazione. Si pensò
che per una città di circa 30 mila abitanti, con un entroterra non facilmente
collegato, era necessario destinare almeno un reggimento; il comando doveva
stabilirsi in città, potendo contare su almeno tre battaglioni mobili, da
utilizzare secondo le occorrenze in ogni località dell’antica Panfilia.[4]
Del resto gli emissari italiani riferirono
che, se l’accoglienza locale appariva buona e collaborativa, la situazione di
Adalia era molto precaria sotto l’aspetto politico-sociale. Il territorio
circostante era infestato di disertori armati e comuni malviventi. I villaggi e
le culture venivano abbandonati dai contadini, che per sfuggire agli attentati
scendevano in città. Anche ad Adalia la sicurezza pubblica era manchevole,
avendo le autorità ottomane perduto dopo l’armistizio ogni prestigio. Le forze
della Gendarmeria risultavano scarse, mal pagate e con compiti ingrati; un
nuovo reclutamento di tali agenti aveva dato risultati negativi. La popolazione
mussulmana mostrava sfiducia, sconforto e per questo era pronta a ogni novità,
pur di sortire da mal governo debole e incapace di Costantinopoli. Essa
appariva come disposta a ogni eccesso, pur di non cadere sotto l’eventuale
dominio ellenico. Al contrario avrebbe salutato con gioia l’intervento di
qualunque governo forte, che l’avesse appoggiata nell’ostacolare l’intervento
della Grecia. All’opposto l’elemento ortodosso, numericamente consistente,
aveva approfittato subito dell’indebolimento dell’autorità politica dopo
l’armistizio, per assumere un atteggiamento palesemente ellenofilo, soprattutto
dopo il propagandistico annuncio di un prossimo arrivo di navi greche per
l’occupazione del territorio. Non era infondato il timore che gli ellenici
locali potessero suscitare incidenti a beneficio dei loro connazionali. Per
cercare di supportare l’opera dei propri messi, le autorità militari italiane
di Rodi informarono dell’imminente invio di unità navali per il golfo di
Adalia, munite almeno di una stazione radiotelegrafica, capace di poter
comunicare con le isole occupate dagli italiani in Egeo. Le navi impiegate
sarebbero dovute essere di tonnellaggio non troppo grande, tale che potessero
in caso di cattivo tempo trovare sicuro rifugio nella vicina baia di Porto
Genovese. Arrivò nel frattempo pure qualche piroscafo, destinato ad avviare
piccoli commerci con merci italiane.
A metà marzo il
comandante Alessandro Ciano della Stazione navale del Dodecaneso riferì dello
spirito di amicizia e dell’entusiasmo dimostrato dalla popolazione di Adalia
per gli italiani, aggiungendo come i disordini fossero continui soprattutto tra
i detenuti delle carceri e la Gendarmeria, con l’aggiunta della minaccia
proveniente dai disertori. Per ragioni di sicurezza Ciano teneva sul posto
sempre alcune proprie navi militari, i cui equipaggi in caso di evenienza sarebbero
intervenuti con prontezza a terra. Il 24 marzo la nave Regina Elena attraccò al porto di Adalia. Ciano informò che
l’accoglienza rivolta ai suoi uomini fu molto positiva; la situazione locale
era calma ma instabile, a causa dell’assenza di mezzi adeguati forniti dal Governo
centrale. Il giorno 25 arrivò in citta il professor Biagio Pace, esponente
della Missione archeologica italiana, che a fronte dei suoi studi
politico-geografici e antropologici della regione, contribuì alla preparazione
delle azioni militari, che si stavano profilando all’orizzonte. Lo stesso
Ferrante lo incaricò «di collaborare a orientare lo spirito pubblico verso
manifestazioni formali del desiderio di un nostro intervento di salvaguardia».[5]
Tutti questi
interventi erano però sempre finalizzati a creare uno stato di fatto, che mettesse
in condizione l’Italia di occupare la zona, senza trovare ostruzione sia a
Costantinopoli, sia presso le delegazioni alleate riunite alla Conferenza della
pace di Parigi. Si attendeva dunque una circostanza favorevole ed essa arrivò.
Nella notte tra il 27 e il 28 marzo una bomba ad alto potenziale esplose nel
quartiere cristiano di Porta Nuova, vicino alla scuola femminile italiana,
gestita dalle suore salesiane. Ferrante giudicò i danni gravi, la situazione
molto critica per l’assenza delle minime garanzie di ordine pubblico della Gendarmeria
locale, con conseguenza di vivo allarme da parte della popolazione senza
distinzione di nazionalità, desiderosa di un clima disteso. Senza aspettare
altre direttive in proposito, alle ore 15 del giorno 29 il comandante Ciano seguì
le disposizioni già preparate in segreto
dal Governo italiano. Ordinò lo sbarco di due compagnie di marinai della nave Regina Elena, composte da quattro
plotoni ciascuna per un totale di circa 300 uomini e 4 mitragliatrici. Gli
italiani iniziarono così l’occupazione dalla periferia fino al centro della
città. Ferrante nel darne la notizia ufficiale precisò che l’azione era stata
eseguita al fine di tutelare l’ordine pubblico, gravemente compromesso dagli
ultimi avvenimenti. La popolazione, che avrebbe richiesto l’intervento, aveva
accolto i marinai con sollievo. Il professor Pace in questi frangenti fu molto
attivo, intuendo come le sue capacità di informatore militare potessero essere
più utili di quelle di archeologo. Fu lui a consigliare le postazioni da
occupare, su quali fasce della popolazione premere per guadagnare simpatia e su
come creare i presupposti, per mantenere un clima non ostile. Grazie alla sua
azione fu scoperto un deposito di esplosivo, un nascondiglio di armi e un
concentramento di uomini sospetti.
Lo sbarco e la
rapida occupazione delle principali postazione urbane creò però una certa
preoccupazione a Roma. Era necessario non solo giustificare a livello diplomatico
l’azione di forza, ma allo stesso tempo consolidare il presidio con il
contingente di fanteria in proposito ormai già preparato. La Marina aveva
compiuto il primo atto dell’intervento, ma la Regina Elena non poteva rimanere troppo a lungo in porto. Il tutto
avvenne con il massimo riserbo e nella piena segretezza, tanto che il ministero
degli Affari Esteri italiano progettò l’operazione, tenendone all’oscuro
persino il proprio capo del Governo. Anche i ministeri della Guerra e della
Marina non avevano informazioni sufficienti, per pianificare una strategia
complessiva. Il comandante Ciano in quei frangenti prendeva ordini direttamente
da Ferrante, come delegato politico dell’Alto commissario italiano a
Costantinopoli, il conte Carlo Sforza. Nonostante ciò, l’avvenimento non poteva
certo rimanere circoscritto e segreto a lungo. Il 2 aprile la rappresentanza
italiana presso la
Conferenza della pace ufficializzò lo sbarco, motivando
l’intervento come richiesta della popolazione locale, finalizzato a questioni
di ordine pubblico. Del resto la delegazione a Parigi cercò di sminuire
militarmente l’accaduto e motivare la mossa come in linea con i dettami
dell’armistizio.
Nel frattempo il 3 aprile i marinai, come
chiesto e per ordine del comando italiano di Rodi, furono affiancati da un
contingente di fanteria, provenienti dal Corpo di occupazione dell’Egeo, composto
da 450 fanti con 4 mitragliatrici. Il contingente includeva anche un drappello
di carabinieri (polizia militare), comandati da un ufficiale. Le nuove truppe
effettuarono una ricognizione, a seguito della quale si accertò che Adalia non
era adatta come base di rifornimento. Venne proposto come alternativa, essendo
Rodi troppo distante, una base navale provvisoria a Marmaris. L’8 aprile i
marinai della Regina Elena fecero
ritorno a bordo. Il presidio della città quindi rimase di esclusiva pertinenza
dell’Esercito. Questa situazione, benché avesse colto le autorità locali di
sorpresa, non suscitò nell’immediato lagnanze od opposizioni; anzi in un primo
momento, esse accolsero con favore la presenza delle truppe italiane, alle
quali fornirono anche cavalli e altri mezzi di sostentamento richiesti. Solo
dopo alcuni giorni ne sentirono la scomoda ingerenza, convinte che ritornata la
calma in città fosse esaurita la ragion d’essere di tale presidio armato.
Da questo momento iniziarono copiose e
reiterate le richieste di allontanamento, adducendo l’inutilità dell’ulteriore
permanenza militare italiana. Esse ovviamente non ebbero seguito, anzi i
reparti sbarcati nel mese di aprile iniziarono la successiva penetrazione nella
regione seguendo la strada Adalia-Burdur con l’intenzione di raggiungere Konya
dove nel frattempo, nell’ambito di una riorganizzazione delle forze
interalleate in Asia Minore, era stato distaccato un battaglione italiano in
sostituzione dei militari inglesi a presidio della ferrovia anatolica.
Intanto, la risposta greca al blitz italiano su Adalia non fu certo
comprensiva e amichevole. Da Atene, l’addetto militare italiano riferì voci di
nervosismo e di una possibile azione greca su Smirne, a seguito dello sbarco
italiano del 29 marzo, episodio che aveva suscitato insoddisfazione anche nelle
comunità elleniche dell’Anatolia. Da parte francese e britannica
l’atteggiamento verso l’Italia non era migliore. Il contesto non appariva dunque
molto incoraggiante per le ambizioni italiane. Del resto una serie di fattori,
tra cui la continua propaganda anglo-ellenica, nonché lo sbarco ad Adalia
avevano provocato la perdita della posizione privilegiata che l’Italia aveva
saputo ritagliarsi tra larghi strati delle comunità locali. Per esempio si era
formato un Comitato di difesa dei diritti
ottomani, organo rappresentativo di notabili e di amministratori locali,
che risultava facilmente manovrabile, anche in funzione di una sua delegazione
in partenza per Parigi, finalizzata a rappresentare i propri diritti.[6]
In questo senso se i maggiori timori ancora provenivano da Atene e da Parigi,
non andava dimenticata la possibile reazione dello Stato turco e della sua
popolazione, che non avrebbe troppo tollerato questa intrusione, malcelata come
tutela dell’ordine pubblico, e sempre più vista come vera e propria occupazione
militare, arbitraria e inopportuna. Ferrante comunicò preoccupato all’Alto
commissario italiano Sforza alcune voci, che avrebbero voluto l’imminente
arrivo ad Adalia di un battaglione turco. Il diplomatico italiano sul Bosforo
si rivolse in proposito al Gran Visir, facendo capire che l’Italia – molto più
degli altri Stati vincitori del conflitto – poteva garantire la pace sociale e
l’ordine pubblico della Turchia, anche a costo di effettuare delle temporanee
riduzioni di sovranità. Il Governo ottomano non fu completamente convinto, ma
non aveva argomenti e forza per protestare.
Nel frattempo, a partire dal mese di
aprile, sia la stampa greca sia quella anglo-francese coglieva ogni pretesto
per attaccare e mettere in cattiva luce l’attività italiana in Turchia e nelle
regioni limitrofe, giudicata cospirativa e scorretta. Alcuni giornali francesi
pubblicarono la notizia che dieci navi della Marina italiana avevano attraccato
nel porto di Smirne. Si trattava evidentemente di informazioni false, divulgate
allo scopo di creare i presupposti per uno sbarco greco nella città anatolica.
L’ambasciatore italiano ad Atene invece rese note alcune illazioni, che volevano
non solo la presenza di una fitta rete di agenti italiani in Anatolia, ma anche
l’azione di una squadra di ingegneri con il compito di studiare il progetto per
il tronco ferroviario Adalia-Buldur.
Il clima quindi evidenziò, ancor prima di
un possibile rigetto interno da parte degli stessi turchi, un’accesa protesta
delle potenze alleate dell’Italia, che a quel punto consentirono alla Grecia di
occupare a metà maggio la zona di Smirne. L’azione fu intesa da Roma come un
pericolo e contestualmente, a completamente dell’avamposto di Adalia e di
quello sopraggiunto di Konya, ordinò il 15 maggio l’occupazione di altre
località della costa sud-occidentale dell’Anatolia, tra cui Kuşadası, Bodrum, Marmaris e Fethiye. Intanto
ad Adalia erano stati sbarcati uomini, tanto da costituire il progettato
reggimento di fanteria. A integrazione di questa più complessa operazione, il
18 maggio il console Ferrante informò che le località di Burdur e Isparta erano calme e propose di
farle occupare al più presto. Tuttavia proprio questa intraprendenza del
diplomatico, creò alcune gelosie con i comandi militari, che avevano paura di
perdere l’iniziativa sul campo. Il colonnello Guido Torriani (comandante del reggimento
ad Adalia) e il generale Giuseppe Battistoni (comandante dell’intero
contingente orientale, con sede a Rodi) entrarono in più occasioni in contrasto
con Ferrante, che dal 15 maggio era stato promosso console. Quest’ultimo
tuttavia riuscì a prevalere nei suoi argomenti, perché il ministero degli
Affari Esteri aveva sempre più potere di quello della Guerra. In questo scontro
istituzionale, tutto interno all’amministrazione italiana, entrò pure
l’archeologo Pace, che data la sua grande esperienza politica, oltre che
culturale, continuò ad offrire ottimi servigi a Ferrante nel dirigere
politicamente la presenza italiana della regione.
Intanto però ad Adalia i movimenti delle
truppe regolari turche erano molto attivi e il contingente italiano non sapeva come
comportarsi al riguardo. Non era pensabile arrivare ad uno scontro militare,
perché gli italiani non avevano il mandato politico, né gli effettivi per
sopportare tale evenienza. Pertanto il 23 giugno il colonnello Torriani e il
console Ferrante si recarono a Burdur, dove incontrarono il sindaco e il mutasserif. L’incontro si risolse in
modo abbastanza pacifico, trovando un accomodamento nel quale gli italiani si
sarebbero limitati a presidi mobili intorno alla città, senza limitare
l’autonomia delle istituzioni politiche locali. Al contrario le unità militari
ottomane si sarebbero astenute dall’avanzare verso Adalia, dove tra l’altro in
quel periodo erano stati riscontrati numerosi casi di malaria, delegando di
fatto il presidio del territorio alla fanteria italiana. La risoluzione
pacifica delle possibili incrinature tra italiani e turchi mise ancora di più
in cattiva luce il colonnello Torriani, giudicato da Ferrante poco energico,
anzi timoroso di prendere l’iniziativa militare. Il diplomatico, a fronte della
sua conoscenza del luogo e della popolazione, non si sentì di giustificare il
pessimismo del colonnello, preoccupato solo di non esporre troppo i suoi
reparti, sparpagliati in tutta la regione, a possibili reazioni avversarie. Sebbene la propaganda anticristiana si facesse
sentire da parte di alcuni ufficiali ottomani e di elementi religiosi, secondo
il console le preoccupazioni erano eccessive e influenzate dall’opera di
provocazioni. Si oppose quindi alla richiesta di nuovi contingenti militari,
convinto che quelli presenti fossero più che sufficienti per l’opera di
presidio, voluta dal Governo italiano. Secondo Ferrante non servivano altri
soldati in armi, ma una rete di relazioni e il coinvolgimento amichevole delle
istituzioni locali alla causa italiana, in funzione anti-greca e anti-inglese.
Nonostante i buoni propositi, tuttavia i
problemi per gli italiani sembravano non finire. Si è già visto, nelle fasi
precedenti allo sbarco e nell’occupazione di Adalia, come l’attività di Biagio
Pace fosse per certi versi più “politica” che archeologica. Il suo impegno
venne rivolto in massima parte alla consulenza organizzativa delle autorità
diplomatiche italiane, per indirizzare sul campo la fanteria a occupare le
località che, secondo lui, avrebbero dato più slancio e prestigio alla
penetrazione militare. Vale la pena però descrivere anche la sua attività prettamente
archeologica, rivelatasi complementare a quella politica. Ripercorrendo le
glorie di Roma, anche quando i primi ardori nazionalistici sembrarono in parte
scemare, Pace rimase comunque ad Adalia. Per quanto riguarda la sua opera
archeologica, fu molto attivo in città, dove il restauro della Porta di Adriano
era per lui «un vero debito d’onore».[7] Tuttavia la sua
intraprendenza e il suo spiccato decisionismo furono bersaglio delle più vive
proteste turche. Il Governo di Costantinopoli chiese tramite l’Alto commissario
italiano una relazione dettagliata di tutti gli scavi aperti e di tutto il
materiale rinvenuto e che – secondo le autorità locali di Adalia – era stato
depredato e portato anche a Rodi.[8] Ne
nacque un caso diplomatico; Sforza chiese spiegazioni direttamente a Ferrante,
che rigettò ogni accusa e, difendendo l’operato del suo protetto Pace, cercò in
tutti i modi di screditare il mutasserif e cercare di farlo sostituire.[9]
Del resto l’archeologo, all’acme del suo
potere in zona, riuscì ad addomesticare pure il colonnello Torriani, accusato a
più riprese non solo di non collaborare nell’importate opera di recupero della
Porta di Adriano, ma accusando i suoi soldati di aver danneggiato i resti delle
mura per la realizzazione di alcuni interventi stradali. Il professore aggiunse
come l’antica cinta fortificata, costituita da torri, bastioni e falsebraghe di
varia epoca era stata irreparabilmente rovinata a partire da alcune demolizioni
effettuate dalle autorità ottomane, per il reperimento di materiali occorrenti
la costruzione di case per i profughi delle guerre balcaniche. Fortunatamente
la Missione archeologica italiana era intervenuta in tempo e aveva limitato i
danni, ma la situazione non era delle migliori. Per questo, nell’intento di
iniziare un lavoro di ripristino efficace, Pace chiedeva al comando militare di
ordinare la cessazione delle azioni lesive dell’integrità architettonica delle
mura. Il professore non escludeva affatto che in avvenire, per l’incremento
della città di Adalia, parte dei bastioni e delle torri potessero venire
abbattute o riutilizzate, ma tutto ciò doveva essere fatto in armonia con un
piano regolatore organico, alla cui compilazione doveva collaborare la Missione
archeologica. Aggiunse che, per ragioni intuitive, sarebbe stata grave onta per
gli italiani non tenere in conto la necessità artistica, che perfino il Governo
ottomano aveva riconosciuto. Non era pensabile abbandonarsi in demolizioni
parziali, al solo scopo di trarne materiale da costruzione, che non era
difficile trovare altrimenti sul posto.[10]
Il ministero della Guerra, sollecitato dagli Affari Esteri, impartì ordini
precisi al comando militare di Adalia per una piena collaborazione delle truppe
italiane, a fronte dei «gravi e delicati compiti di civiltà e di coltura»
dell’Italia.[11]
Nonostante questo successo tutto personale
di Pace, la situazione non migliorò, visto che anche il colonnello Torriani fu
investito da queste lagnanze direttamente da Ahmed Rauf, direttore degli Affari
di Diritto del Konak.[12]
Se le attività di scavo procedevano, in parallelo continuavano ad arrivare le
proteste del Governo ottomano contro l’asportazione e il trasporto di marmi e
altri reperti nella sede di Ferrante. L’archeologo Giuseppe Moretti, che nel
frattempo ad Adalia aveva sostituito Pace, fu alquanto piccato e fece notare di
come fosse grottesco che il Governo turco si interessasse ora delle azioni
italiane: era dal 1914 che la Missione scientifica nazionale dedicava la sua
opera all’individuazione, alla conservazione e al restauro delle antichità, in
accordo con il sindaco e il mutasserif della
città, a fronte della massima incuria e usura causata proprio dalle autorità
ottomane, mai interessate all’aspetto artistico della città di Adalia.
Riconobbe tutto quello che veniva imputato agli archeologi italiani,
facendosene addirittura un vanto! Fece pure presente come, non solo il
materiale a disposizione fosse di molto superiore a quello reclamato, ma che
tutto ciò era stato prelevato come frutto di scavi italiani. Rimaneva quindi
nei locali diplomatici di Ferrante unicamente per finalità conservative,
proprio per restituirgli valore storico e artistico. Esattamente il contrario
di ciò che aveva fino ad allora fatto il Governo turco.[13]
Per questo, non solo escludeva a priori ogni possibile restituzione da parte
delle autorità italiane, ma pretendeva anche il diritto esclusivo per esse di
organizzare il servizio di scavo. In questo trovò concorde il comando militare italiano
di Rodi e nulla per il momento venne riconsegnato.[14]
Nel frattempo ai primi di novembre 1919
nella zona di Adalia si svolsero le elezioni politiche per il rinnovo del
Parlamento ottomano. Il sangiaccato era rappresentato alla camera da due
deputati, eletti da un consiglio di una cinquantina di capi elettori, che a
loro volta erano eletti da 500 elettori ciascuno. I due deputati potevano
essere prescelti fra i capi elettori stessi oppure fra i comuni cittadini. La
sfida elettorale si svolse nella massima calma, pur non mancando un numero
rilevante di candidati intorno alla dozzina. I partiti politici in lizza erano
quelli dei Giovani Turchi, del nuovo Partito costituzionale conservatore e di
quello governativo. Secondo la relazione del comandante dei carabinieri
italiani in città, nessuno però svolse una propaganda netta, basata su principi
e programmi distinti, come si verificava in Italia. Quindi le elezioni si sarebbero
basate su una funzione del tutto meccanica e su una scelta basata su questioni
personali. I musulmani presero tutti parte al voto, lo stesso dicasi per gli
ortodossi, che però avevano ricevuto il divieto di partecipare alla
consultazione dal Patriarcato di Costantinopoli. Le elezioni si svolsero con la
massima calma. L’ordine pubblico della città era perfetto, ma le campagne erano
percorse da bande nazionaliste e da briganti, che compievano ogni specie di
spoliazione. Gli italiani si limitarono a garantire la sicurezza in città,
convinti che qualsiasi diversa ingerenza li avrebbe esposti a rischi inutili.
Del resto proprio a partire dal settembre di quello stesso anno, per ragioni
economiche e di opportunità politica il Governo italiano aveva di molto
ridimensionato i contingenti all’estero e quindi limitato anche le truppe di
guarnigione in Turchia. Nella zona di Adalia, visto che le truppe si erano
ridotte a un solo battaglione, il presidio non poteva che essere solo quello
urbano. Questo atteggiamento fu poi giustificato dalla volontà italiana di non
trovarsi avverso il movimento nazionalista di Mustafa Kemal, che mese dopo mese
stava guadagnando forza ed autorevolezza.
Per questi motivi il 15 dicembre le
autorità militari italiane di Rodi autorizzarono Torriani di riconsegnare a un reggimento turco, che
partiva dalla città, 12 mitragliatrici e 700 fucili Mauser, in precedenza presi
in consegna dagli italiani. Perché l’operazione potesse apparire di puro
carattere militare, fu suggerito al console Ferrante di non presenziare
all’evento. Il comando di Rodi ritenne utile rendere nota la cosa, per far
sapere attraverso l’Alto commissario a Costantinopoli a Mustafa Kemal quanto vi
fosse di cortese e corretto in questo atto.
Mentre questo accadeva ad Adalia, a Parigi
la situazione diplomatica aveva continuato a procedere in modo altalenante, in
relazione alla questione ottomana. Di massima non si volle accordare nessuna
considerazione alle ragioni della popolazione turca, visto che nel marzo del
1920 addirittura la capitale Costantinopoli venne occupata congiuntamente dalle
Potenze vincitrici. Anche l’Italia fu protagonista dell’evento, ma con un
contingente poco più che rappresentativo. Il motivo di questa esigua
partecipazione era sia l’esiguità dei reparti a disposizione, sia l’interesse a
non precludere nessun negoziato separato con i turchi, sia nella propria parte
imperiale che in quella nazionalista repubblicana, che proprio in quei mesi
trovava sempre più consensi interni e successi esterni. In questa situazione
complicata e convulsa si arrivò dunque al Trattato di Sèvres e all’annesso
Accordo tripartito (10 agosto 1920), in cui si dispose l’autentica spartizione
(territoriale o economica) dei possedimenti ottomani tra la Gran Bretagna, la
Francia, l’Italia e la Grecia. Tuttavia questo diktat non venne accettato dai
nazionalisti repubblicani, che quindi proseguirono la propria lotta contro ogni
forma di occupazione militare straniera.
In questo clima i militari italiani,
ridotti nel numero, rimasero ad Adalia con l’unico obiettivo di tutelare quanto
meno gli interessi economici e di bandiera del proprio Paese. A tal proposito
in settembre vi fu il saggio accademico musico-letterario di fine anno
scolastico e la distribuzione dei premi presso la scuola italiana, gestita dai religiosi
salesiani. L’istituto, creato dall’Associazione nazionale per i missionari
italiani all’estero, nell’anno 1919-1920 aveva accolto nelle classi diurne 95
alunni e 106 in
quelle serali. I 95 alunni delle scuole diurne erano per nazionalità così
distinti: 11 italiani, 35 ottomani, 18 israeliti, 8 armeni e 23 ortodossi. Dei
106 alunni delle scuole serali, a eccezione di una diecina d’israeliti e di una
quindicina d’ottomani (tre dei quali maestri nelle loro scuole) il resto era
composto da ortodossi, che già davano prova del profitto fatto, usando la
lingua italiana quando avevano da trattare con gli italiani, residenti ad
Adalia. Il comando di Rodi, il ministero della Marina, il console Ferrante
seguirono l’opera didattica, come forma di propaganda italiana, con la più alta
simpatia. Il nuovo comandante italiano del settore, il maggiore Francesco
Sartoris, aveva fornito per l’occasione un teatrino.
Con i mesi la situazione si rivelò sempre
più onerosa per l’Italia, convinta che i problemi nazionali sociali ed
economici avessero la priorità, rispetto a quelli di politica estera. All’inizio
del 1921 ormai la presenza militare italiana in Anatolia era in una fase in cui
quasi ogni tipo di ambizione politica stava volgendo al termine. Secondo le
direttive del nuovo ministro degli Affari Esteri Sforza (che come si ricorderà in
precedenza era stato Alto commissario italiano a Costantinopoli), in maggio il
ministero della Guerra per ragioni politiche ordinò il ritiro del presidio di
Adalia, dandogli un significato di riconoscimento e di pacificazione con il
Governo di Angora. Le truppe italiane furono sgomberate nel tardo pomeriggio del
5 luglio, dopo una sobria cerimonia di commiato tra militari e connazionali
residenti civili in città.[15] Le
autorità politiche e militari italiane si raccomandarono che i comandi in
partenza non vendessero o cedessero né ai privati né alle istituzioni locali
armamenti o materiali. Tuttavia alcuni ammonimenti di Roma avrebbero
evidenziato che proprio in quei giorni vi sarebbero state delle distribuzioni di
materiale italiano alle autorità turche di Adalia.[16]
In città, dove sarebbe rimasto il nuovo console
Iginio Faralli con un distaccamento di carabinieri, si cercò di lasciare un
clima favorevole e di gratitudine all’Italia, sperando che esso potesse
allargarsi anche alla valle del Meandro, dove si sarebbero concentrate le
uniche attenzione del residuale contingente militare, che gravitava intorno a
Rodi. Nonostante fosse stato inizialmente preventivato, non vi fu un saluto
ufficiale delle truppe turche a quelle partenti. In questi frangenti vennero
pubblicati alcuni articoli sulle colonne del giornale locale «Anatolu». In
essi, la soddisfazione per la partenza degli occupanti italiani venne
completata dall’auspicio che l’onesta coabitazione durata oltre due anni
potesse essere il germoglio per una futura e reciproca collaborazione. I
turchi, ognuno nella propria autonomia decisionale e politica, avrebbero così
auspicato una complementarietà di mezzi e fini, vantaggiosa per entrambi i
popoli.[17]
Nonostante la soddisfazione per la
partenza degli occupanti, tuttavia alcune autorità turche vicino al Governo di
Angora mostrarono più di una preoccupazione al completo ritiro italiano dalla
zona. I nazionalisti erano dell’opinione che – seppur uno Stato occupante –
l’Italia poteva rimanere utile alla causa turca come cuscinetto contro qualche
nuova pretesa britannica o greca nella regione. Le preoccupazioni turche si
rivelarono in parte fondate, anche perché il clima incandescente, prima
intiepidito dalla presenza moderatrice degli italiani, da quel momento sembrava
riprendere corpo anche in città. Nonostante questi timori, la graduale avanzata
dei nazionalisti ottenne senza grosse difficoltà la sovranità su Adalia,
allontanando qualsiasi nuova o diversa influenza straniera.
L’attività
economica-finanziaria
Come si è accennato l’Accordo tripartito,
annesso al Trattato di pace di Sèvres, conteneva degli interessanti risvolti
economici anche per l’Italia: un’ampia area di influenza commerciale, che
andava ad inserirsi nella zona sud-occidentale dell’Anatolia. In relazione alle
aspirazioni coloniali e imprenditoriali la delegazione nazionale al tavolo
della pace, anche per motivi lobbistici, risultò molto sensibile alle pressioni
esercitate dai principali esponenti del ceto industriale e bancario del Paese,
che speravano in questo modo di reperire nuove risorse, materie prime e aprire
interessanti mercati ai propri prodotti finiti. Del resto l’articolo 260 del
trattato di Versailles prevedeva, per l’esecuzione delle riparazioni tedesche,
anche il trasferimento di diritti e di interessi tedeschi in Turchia; l’Italia
non era certo intenzionata a rimanere fuori da questa proficua spartizione. Tra
gli istituti di credito nazionali più interessati alle sorti del Mediterraneo
orientale vi era la milanese Banca Commerciale Italiana, fondata alla fine
dell’Ottocento attraverso un consorzio di capitali tedeschi, e il Banco di
Roma, legato agli interessi del mondo cattolico.
La strategia della Banca Commerciale era
cogliere l’opportunità economica potenziale del moribondo Impero ottomano e
farne un volano industriale per la struttura finanziaria italiana, in
prospettiva di una prossima e recessiva riconversione dell’apparato
manifatturiero bellico, seguente alla fine della guerra. Aveva già da tempo
aperto una filiale a Costantinopoli e poi una a Smirne, oltre al fatto che
attraverso una sua filiazione (la Società Commerciale d’Oriente) controllava il
potenziale mercato dell’Asia Minore sin dal 1907. Solo apparentemente diversa
era la strategia del Banco di Roma, che puntava molto sul Mediterraneo
orientale. Aveva aperto nel 1905 una filiale ad Alessandria d’Egitto, nel 1906
a Malta, nel 1907 a Tripoli e Bengasi e nel 1911 a Costantinopoli. In questa
logica tra l’ottobre e il novembre 1918 il Consiglio d’amministrazione del
Banco di Roma deliberò all’unanimità l’apertura di un’agenzia ad Adalia
(dipendente dalla sede di Smirne).
Intanto gli eventi politici avevano fatto
il loro corso e la presenza militare italiana in Anatolia offriva al Banco di
Roma nuove opportunità. Nel maggio del 1919 venne segnalato che le truppe
italiane in Asia Minore, essendo pagate in moneta nazionale, subivano un danno
nel corrispettivo valore di mercato. Venne subito denunciato non come fenomeno
circoscritto solo ad Adalia, dove si era evidenziato il problema, ma connesso
alla situazione generale della valuta italiana. Per ovviare a questi motivi di
natura pratica e per il desiderio di rilanciare l’economia italiana, il Governo
italiano anche grazie all’intervento diretto dell’Alto commissario Sforza
agevolò lo studio e la realizzazione di un piano capillare in Turchia per il
Banco di Roma. Il 16 settembre 1919 la Direzione centrale dell’istituto romano
incaricò il tenente colonnello dei bersaglieri Francesco D’Agostino di
effettuare un sopralluogo a Rodi e nella zona di Adalia, per giudicare
l’opportunità e il modo di iniziare proficui affari in quella regione, grazie
alla sua influenza presso le autorità militari.[18]
Proprio la sua provenienza dai ranghi
dell’Esercito quale ufficiale superiore, nonché la sua profonda conoscenza
dell’Oriente, dimostrò come la scelta di D’Agostino fosse ben ponderata.
Durante la sua missione per il Banco di Roma, l’ufficiale compilò un’accurata analisi
sulla situazione locale.[19]
Riscontrò come le attività e i prodotti del suolo, che passavano per Adalia, centro
commerciale della zona, delineassero «la convenienza evidente dell’istituzione
di case bancarie» per un possibile futuro industriale. Registrò una carenza di
linee di comunicazioni, migliorabili però in avvenire, un discreto transito
commerciale e molti corsi d’acqua, con relativa possibilità di energia
elettrica. Nello specifico il Duden-Su aveva un regime capriccioso, ma
rappresentava «la risorsa dell’avvenire d’Adalia sia come acqua irrigatoria,
sia soprattutto forza motrice». Se incanalato con criterio, poteva dimostrare
la sua potenzialità per le colture e per la produzione elettrica. Per il
momento l’uso del fiume era stato chiesto e ottenuto in via provvisoria da un
certo Tecofik bey, dietro cui si
nascondeva la Società Commerciale d’Oriente (ossia la Banca Commerciale
Italiana), la cui concessione era stata stabilita per 40 anni dal mutasserif. Tuttavia essa non avrebbe
avuto valore se non fosse stata confermata a Costantinopoli. Poteva quindi
essere soppiantata da una diretta concessione del Governo centrale. I prodotti
agricoli e il bestiame davano un margine di crescita: «credo molto giusto il
detto che: la Turchia è un paese ricco di miniere povere».
Sottolineò la peculiare precaria
situazione politica da poter cogliere a fini commerciali. L’unico sportello
indigeno presente era quello della filiale della Banca Imperiale Ottomana, ma
vista la situazione politica ne diagnosticò vita breve. Nel settembre del 1919
si era insediata la Banca Commerciale d’Oriente, a cui si appoggiava la locale
agenzia della Lloyd Trieste. In città vi era inoltre una discreta diffusione di
ditte italiane. Da quanto esposto, D’Agostino si espresse in un giudizio
ottimistico, convinto di poter trarre con cura e pazienza le notevoli potenzialità
fino ad allora inespresse: «balza evidente l’opportunità anzi la necessità
dell’impianto in Adalia delle filiali del Banco di Roma. [...] La filiale
d’Adalia va considerata come una delle più importanti e potenti maglie della
rete bancaria che il Banco di Roma sta stendendo sull’Oriente vicino. [...] Per
ora non credo conveniente l’acquisto di terreni o comunque l’ingolfarsi in
culture dirette del suolo».
D’Agostino aggiunse che l’istituto poteva
beneficiare di tutti i vantaggi presenti, solo se l’indirizzo e l’azione
commerciale e industriale fossero stati subordinati alla politica dell’Italia
nei riguardi di quella regione, che le sarebbe stata affidata in Anatolia.
Sulla modalità operativa invece, proprio perché «l’Anatolia, ed in ispecie la
regione di Adalia, è un campo vergine, dove tutto è da fare [...] occorre che
l’organizzazione sia armonica nelle sue parti». Volle escludere il Governo come
ente organizzatore, «sia in veste militare che in veste civile», essendo stata
l’esperienza delle colonie negativa. In alternativa propose un’organizzazione
simile a quella della Compagnia delle Indie, in cui si univa la responsabilità
e buoni contatti con gli enti locali. L’esperienza inglese infatti aveva
dimostrato come la libera iniziativa privata, se appoggiata dallo Stato perché
a lei sussidiaria in campo politico, poteva creare alti profitti economici e
risvolti istituzionali molto rilevanti. Solo una piena collaborazione tra mondo
politico-militare e impresa, in termini di responsabile liberalismo, avrebbe creato
valore aggiunto per tutti. Si sarebbe evitato d’imprigionare il Governo
italiano in pesanti e impegnative iniziative all’estero, sconsigliate dalla
contingente crisi sociale ed economica, che il Paese soffriva al termine del
conflitto.
L’attività di D’Agostino fu molto
apprezzata[20] e
nell’aprile 1920 venne convocato alla Direzione generale a Roma.[21]
Qui nel concreto vennero iniziati i preparativi per l’apertura della succursale
di Adalia. In marzo il direttore della succursale di Rodi espresse l’opinione
che per l’avvio della sede di Adalia erano necessarie 25.000 lire.[22]
Tutto sembrava pronto per un rapido successo, ma le aspettative si erano
rivelate troppo ottimistiche della normale realtà. La nuova filiale di Adalia,
dipendente da quella di Costantinopoli, venne aperta finalmente nell’autunno
del 1920, dopo lunghe insistenze delle autorità diplomatiche e politiche. La
prospettiva di impegnarsi risultava allettante, perché la città faceva capo
alle importazioni di prodotti industriali e le esportazioni dei frutti del
suolo di un vasto distretto economico. Tuttavia il clima politico teso,
soprattutto per l’avanzata del movimento kemalista, e l’atteggiamento turco in
favore dell’Italia – giudicato «opportunistico» – facevano emergere grossi
sospetti presso la direzione del Banco.[23]
Queste obiezioni vennero fatte presenti il 22 ottobre anche a Sforza, allora ministero
degli Affari Esteri, che aveva già svolto come Alto commissario a
Costantinopoli un’opera di sostegno all’intervento bancario italiano in
Turchia. Venne espresso scetticismo sulla cordialità turca, ritenuta solo
occasionale in funzione dell’appoggio anti-greco. Si citò Mustafa Kemal che si
scagliava contro gli stranieri europei in territorio turco. Nel nominare anche
Adalia, sembrava prendersela anche contro gli italiani. Benché la banca si
augurasse una perdurante situazione pacifica e collaborativa con i turchi, «non
è assolutamente lecito al BANCO DI ROMA, per fiancheggiare nel campo economico
l’azione che il Governo svolge nel campo politico, assumere tutti i rischi che
oggi presenta un qualsiasi impegno di capitali in quei paesi». Venne giudicata
«follia» concedere ancora finanziamenti nella regione, perché dopo tante
sollecitazioni del Governo e relative «dolorose esperienze» in Libia e in
Anatolia il Banco non era più disposto a rischiare così tanto. Viceversa esso
sarebbe stato disposto a esaminare la possibilità di creazione di un apposito
organismo per lo sfruttamento agricolo della valle del Meandro.[24]
Benché la succursale di Adalia avesse
ottenuto un certo riscontro positivo nel primo periodo del suo esercizio,
soprattutto grazie alle richieste di finanziamenti degli agricoltori della
zona, la Direzione non si trovò sempre sicura del rischio che si era presa,
assecondando gli interessi nazionali, a fronte di scarse garanzie politiche del
Governo italiano. A causa dell’eccezionale situazione politica, in ottemperanza
alle disposizioni del console della città, si decise temporaneamente di
chiudere gli sportelli di Adalia. In una lettera del 17 novembre 1921
dell’amministratore delegato Giuseppe Vicentini-Lang, indirizzata al ministero
degli Affari Esteri, venne espressa l’intenzione e la convenienza «di chiuderla
fra breve definitivamente per ragioni economiche ed anche perché le autorità
locali dipendenti dal Governo di Angora ci hanno fatto finora difficoltà per
confermarne l’apertura. Nelle condizioni in cui si trova, la filiale in parola
non ha possibilità di svolgere un utile lavoro e viene a rappresentare per noi
un elemento di preoccupazione e di spesa».
Prima di agire in questo senso, il
banchiere chiese l’assenso governativo per la progettata chiusura, «ma se, per
ragioni di indole politica, da noi non completamente apprezzabili, codesto
Spett. Dicastero ritenesse opportuno che, almeno per qualche tempo ancora, la
nostra filiale avesse a rimanere aperta, noi saremmo disposti, nel solo intento
di far cosa che riesca a vantaggio della difesa degli interessi italiani in
quella regione, a sopportare le non lievi perdite cui siamo soggetti per
mantenerla in vita».[25]
La Direzione generale affari politici del
ministero degli Affari Esteri rispose, chiedendo un ripensamento, con la
speranza che gli uffici di Adalia potessero ancora rendersi utili agli
interessi italiani. Il ministero riconobbe che ciò avrebbe comportato sacrifici
non lievi per l’istituto, ma poiché si aveva fondata speranza di arrivare a una
soddisfacente sistemazione dei rapporti italo-turco-greci in quella regione, la
decisione di continuare la presenza in quella città, oltre a dare considerevole
vantaggio all’Italia, avrebbe profuso una rinnovata fiducia del Paese verso il
Banco di Roma. In aggiunta a ciò il ministro fece anche presente che la
definitiva chiusura in quel delicato momento avrebbe avuto un significato di
debolezza politica, che sarebbe stato sfruttato ai danni del Governo dai
partiti all’opposizione. Con questo si precisò pure che di questi discorsi non
si doveva lasciare nulla di scritto, per ragioni intuitive, «dato che in Italia
non si sa concepire ancora una intima collaborazione fra poteri dello Stato e
attività privata per il bene generale».[26]
L’attività ad Adalia continuò ancora per
un breve periodo. Nel 1922 a
fronte della decadenza del trattato di Sèvres, del sopraggiungere della
Repubblica di Angora e del ritiro delle truppe italiane dall’Anatolia, la sede
di Adalia con le due succursali di Söke e Kuşadası vennero soppresse, mentre le filiali di Costantinopoli e
Smirne furono trasformate in società di diritto turco.
Infine simile sorte toccò pure alla già
citata filiale della Società Commerciale d’Oriente, aperta nell’autunno del
1919. Proprio in quel periodo la controllata della Banca Commerciale Italiana
aveva dato alle stampe un ricercato volumetto dal titolo La regione di Adalia. Città, foreste, risorse agricole e minerarie,
commercio. In esso venne presentato come i capitali italiani avrebbero
dovuto offrire uno nuovo slancio all’economia locale, partendo dal presupposto
che la ferrovia anatolica era divenuta sia un ostacolo, sia un’opportunità per
il futuro della regione. Se il treno aveva di fatto tagliato fuori la costa
meridionale turca da qualsiasi possibile traffico commerciale verso il Vicino Oriente,
dall’altro una possibile diramazione ferroviaria avrebbe potuto restituire
quanto ingiustamente negato. Come però nel caso offerto dal Banco di Roma,
anche la Commerciale era disposta ad impegnarsi nel progetto industriale e
finanziario solo se il Governo italiano avesse garantito quell’appoggio
politico necessario a dare credito al progetto. In questo quindi si risentì non
solo la malcelata incertezza sul futuro diplomatico dell’Anatolia, tra diverse
forze in campo, ma anche una cronica necessità da parte del mondo industriale
italiano di trovare sicuro riparo all’ombra del potere politico.
Nonostante questi limiti iniziali, la
descrizione operata dal volume La regione
di Adalia è ricca di spunti interessanti, anche se con eccessi nei commenti
pittoreschi e assistenziali. Vengono annotate caratteristiche antropiche e
naturali di notevole rilievo. Sono registrate le produzioni agricole e
artigianali. Non vengono dimenticati particolari su come si svolgevano i
commerci e sul carattere della popolazione. Di massima venne giudicato il tutto
positivo, anche se mancando gli standard industriali europei la valutazione era
attenuata dal fatto che la maggior parte delle attività dovevano essere più
curate, per rendere più ricco il territorio. In buona sostanza si concludeva
sulla mancanza dello stimolo giusto, per far sviluppare una società poco più
che rurale e dedita a miseri commerci su base familiare. In modo paternalistico
si propose di inserire il capitale italiano, affinché esso potesse creare
vantaggio economico alla regione.
Sapendo come è andata a finire
l’impostazione politica dell’imperialismo di Roma in Anatolia, è facile capire quindi
che anche gli ottimistici progetti della Commerciale d’Oriente si risolsero in
un autentico fallimento. L’agenzia, che si sviluppava su tre piani, già nel
luglio del 1921 fu destinata alla chiusura.[27]
Ciò avvenne nei mesi successivi, al pari di quanto accaduto per l’omologa del
Banco di Roma.
Riferimenti
archivistici
ASBR (Archivio Storico della Banca di
Roma, Roma)
ASI (Archivio Storico di Intesa Sanpaolo,
Milano)
AUSSME (Archivio dell’Ufficio Storico
dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma)
MAE, ASD (Ministero degli Affari Esteri –
Archivio Storico Diplomatico, Roma)
[1] R. Webster, L’imperialismo industriale italiano,
1908-1915, Einaudi, Torino, 1974, pp. 317-436.
[2] MAE,
ASD, Ambasciata italiana in Turchia, b. 127, f. vice consolato ad Adalia,
documenti vari.
[3] G.
Bevione, L’Asia Minore e l’Italia, Bocca,
Torino 1914.
[5] M. Petricioli,
Archeologia e politica estera tra le due
guerre, Leadercomp, Firenze 1988, p. 26.
[6] AUSSME,
E-3, b. 6, f .
6/4 b, bollettino speciale dell’ufficio informazioni della Marina del 3/5/1919.
[7] M.
Petricioli, op. cit., pp. 28-29.
[9] M.
Petricioli, op. cit., p. 29.
[14] M.
Petricioli, op. cit., p. 35.
[15] MAE ASD, AAPP, 1919-1930,
b. 1665, f. Sgombero Adalia, protocollo 165 del 5/7/1921 di Gambardella.
[16] MAE ASD, AAPP, 1919-1930,
b. 1665, f. Sgombero Adalia, documenti
vari.
[17] MAE ASD, AAPP, 1919-1930,
b. 1665, f. Sgombero Adalia, articolo
Anatolu del 5 luglio 1921, Buon viaggio.
[18] ASBR, BdR,
VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino, lettera della direzione
centrale a D’Agostino.
[19] ASBR, BdR,
VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino, Relazione su regione di
Adalia del 1/12/1919.
[20] ASBR, BdR,
VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino, lettera del 3/5/20 da
Direzione della sede di Alessandria a Bussetti.
[21] ASBR, BdR,
VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino.
[22] ASBR, BdR,
VIII.2.1., b. 1, fasc.1, s.fasc. col. D’Agostino, lettera del direttore della
succursale di Rodi del 19/3/1920.
[23] ASBR, BdR,
VIII.3.2, b. 8, fasc.10, lettera dalla direzione BdR a Costantinopoli 1/10/20.
[24] ASBR, BdR,
VIII.3.2, b. 8, fasc.10, lettera del 22/10/20 del BdR al ministero degli Affari
Esteri.
[25] ASBR, BdR,
XI.5.3.3, b. 10, fasc.133, lettera di Vicentini-Lang al ministero degli Affari
Esteri (17/11/21).
Nessun commento:
Posta un commento