CAPITOLO II – LA
BATTAGLIA DI CUSTOZA
1. SITUAZIONE GENERALE
a.
Situazione
generale militare
(1)
I quadri – le
forze – i mezzi
(a)
I capi:
organizzazione del vertice operativo
In
analogia all’Esercito Prussiano, l’Italia adottò la soluzione per la quale il
Re Vittorio Emanuele II avesse il comando supremo e che lo esercitasse
attraverso il suo Capo di Stato Maggiore, individuato nel Generale Alfonso La
Marmora, che fino a due giorni prima dell’inizio delle ostilità ricopriva
l’incarico di Presidente del Consigli dei Ministri. Il Ministro della Guerra
era il Generale Ignazio de Genova di Pettinengo.
Il
contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato in:
· Armata del
Mincio, sotto il comando del Re in persona e quindi del Gen. La Marmora,
· Armata del Po
comandata dal Generale Cialdini.
Il
Comandante in Capo delle Forze Armate era l’Imperatore Francesco Giuseppe.
L’Esercito si componeva di un’Armata dell’Iser, di un’Armata del Nord e
un’Armata del Sud.
L’Armata
del Sud, impegnata nella campagna contro l’Italia, aveva da poco cambiato il
comandante supremo: al Maresciallo Benedek, assegnato per operare sul fronte
principale in Boemia, era subentrato l’Arciduca d’Austria, feldmaresciallo
Alberto Federico Rodolfo, figlio dell’Arciduca Carlo.
(b)
Gli SM: la loro
organizzazione ordinativa
Erano
passati “soli cinque anni dalla
costituzione dell’Italia in Regno, e, oltre allo straordinario ingrandimento
dell’Esercito piemontese, si era dovuto procedere alla fusione nel regio
Esercito di una parte dei quadri dell’Esercito delle Due Sicilie e
dell’Esercito garibaldino. Con finanze assai ristrette, si erano dovuti
fabbricare materiali in grandissima copia, creare dotazioni, stabilire
magazzini e depositi, creare stati maggiori, quadri, ecc. […]”[i].L’Italia
non aveva ancora una tradizionale efficienza nel servizio di stato maggiore. I
generali La Marmora, Della Rocca e Cialdini erano ottimi ufficiali con una
splendida carriera militare alle spalle, ma con nessuna esperienza di comando
di un enorme contingente e per di più costituito da soldati regolari. Il Gen.
La Marmora che assunse poi l’incarico di Capo di Stato Maggiore era quello più
impegnato dal punto di vista politico e che quindi aveva una percezione della
realtà dello strumento militare veramente limitata. Se a questo aggiungiamo una
certa “gelosia” tra i grandi generali italiani, ma soprattutto il desiderio del
Re Vittorio Emanuele II di dirigere le operazioni, insieme al Gen. Petitti, è
facile intuire che il Comando Supremo delle operazioni, così come
l’organizzazione degli stati maggiori, non poteva che presentare dei problemi
che si sarebbero ripercossi sulle operazioni.
Lo
stato maggiore, come inteso dai prussiani e anche dagli austro-ungarici, non
era mai esistito nell’Esercito Sardo e continuò a non esistere anche nell’Esercito
Italiano. Gli Ufficiali di stato maggiore, al termine dei corsi frequentati,
avevano dismesso lo studio che diventava privilegio di pochissimi volenterosi.
Gli stessi inadeguati insegnamenti strategici, tattici, procedurali e storici
erano stati dimenticati per cui nel 1866, pochi erano gli Ufficiali si stato
maggiore preparati.
Benché
non abbondante di vittorie, la tradizione militare austro-ungarica era molto
solida. Anzi, si può dire che la vitalità dell’Impero di Francesco Giuseppe
risiedeva proprio nell’esercito. Pur tuttavia, la principale cagione dei mali
era la scarsità di grandi condottieri. Non mancavano i generali dotti e
preparati, ma i geni militari rimanevano soffocati dalla ferrea disciplina,
dalle consuetudini e dai pregiudizi da cui era emerso nel recente passato solo
l’Arciduca Carlo, padre di Alberto.
(c)
Le forze
terrestri: unità in genere, di pronto impiego, di riserva
Senza
contare i volontari di Garibaldi, circa 38000 uomini, le truppe di presidio e
di completamento, l’Esercito Italiano aveva una forza effettiva di 22000
uomini, 37000 cavalli e 456 cannoni. Fu disposto il richiamo delle classi 1834
– 1840 (prima categoria) e 1840 – 1841 (seconda categoria). Le operazioni di
mobilitazione furono complicatissime a causa della configurazione della
penisola italiana e per lo scarso sviluppo delle ferrovie. L’organizzazione di
quel contingente fu opera del Gen. Petitti.
Per
resistere al contingente italiano, gli austriaci avevano organizzato un
esercito che poteva contare di fortissimi appoggi e fortificazioni
inespugnabili. Ma erano comunque necessarie numerose guarnigioni ed era
inevitabile un certo disseminamento di forze. Dei dieci corpi costituenti
l’Esercito Imperiale, ben sette furono destinati all’Armata del Nord, insieme a
cinque Divisioni di Cavalleria, e una riserva generale di artiglieria per un
totale di circa 185000 uomini. Soltanto tre Corpi di Armata vennero destinati
all’Armata del Sud, con una Brigata di Cavalleria di riserva, per un totale di
circa 145000 uomini, 15000 cavalli e 192 pezzi di artiglieria. Escludendo le
forze di presidio e di guarnigione e delle forze destinate nel Tirolo, dove fu
inviato un contingente autonomo sotto il Comando del Gen. Von Kuhn, per le
operazioni nel Veneto erano disponibili 94500 uomini, 12500 cavalli e 168
pezzi.
(d)
Le dottrine
operative: la loro definizione in base
agli intendimenti politici, di ordine strategico, tattico e potenziale
In
Italia, come del resto anche nell’Impero, gli insegnamenti delle guerre
napoleoniche erano stati lasciati volutamente nel dimenticatoio, a differenza di
alcuni generali prussiani della scuola di Clausewitz. Le campagne napoleoniche
avevano insegnato, ad esempio, che un corpo d’armata non poteva avere più di
quattro divisioni, se non compromettendo la mobilità e la manovrabilità. Ma i
principi dell’arte della guerra non erano conosciuti, se non superficialmente.
Per dirlo in altre parole, gli studi militari in Italia non erano presi in
seria considerazione. Certamente la dottrina tattica presentava segni di
invecchiamento e necessitava di rinnovamento, ma quando applicata correttamente
era ancora motivo di successo.
Anche
per quanto riguarda l’Impero, all’epoca dei fatti pochi generali “sapevano”
fare la guerra e uno di questi era il Comandante dell’Armata del Sud, l’Arciduca Alberto, figlio primogenito del
grande Arciduca Carlo d’Asburgo che aveva battuto Napoleone nel 1809. Egli si
era formato studiando le campagne, specialmente quelle del padre. Da questi
insegnamenti aveva appreso soprattutto la fermezza d’animo, il carattere
serioso, ma soprattutto l’idea secondo la quale non bisognava lanciarsi alla
carica fino ad un punto di non ritorno. Al contrario, bisognava avere
l’accortezza di tenere sempre un atteggiamento guardingo e difensivo. E questo
concetto volle applicarlo integralmente nella campagna contro gli italiani,
definiti da lui stesso rapaci. Quindi
come l’Armata del Nord, comandata dal Gen. Benedek, in Italia l’Arciduca
Alberto si proponeva di fare una guerra difensiva, favorita dal terreno e dalle
fortificazioni presenti nel Veneto.
b.
Avvenimenti e
provvedimenti in vista del conflitto
(1)
Politici e
diplomatici
Le
condizioni poste con la pace di Villafranca e il successivo trattato di Zurigo
del 10 novembre 1859 avevano deluso la speranza degli italiani che dopo la
valorosa vittoria di Solferino si aspettavano di veder concluso il processo di
unificazione. D’altronde la pace con l’Impero Austro-Ungarico non poteva che
essere un cessate il fuoco da momento in cui lo stesso imperatore si rifiutava
di riconoscere il Regno d’Italia, appellando la penisola come ancora come Regno
Sabaudo.
Tutti
gli attori dell’epoca erano consapevoli che prima o poi l’Italia avrebbe
ripreso le armi contro l’Austria non solo per l’inaccettabile sistemazione dei
confini, ma soprattutto perché l’Austria, conservando il suo dominio sul Veneto
e la disponibilità del Quadrilatero, nonché il desiderio di rivendicare quanto
perso sette anni prima, rappresentava il nemico numero uno. Il Regno d’Italia,
per contro, non era in grado di dichiarare compiuta “l’unità nazionale senza Venezia e Roma. E per ottenere Venezia si
doveva fare la guerra”[ii].
L’Italia,
dopo estenuanti trattative diplomatiche, condotte dal Gen. La Marmora, il
Ministro de Barral e il Gen. Govone, inviato speciale a Berlino, ottenne quello
che aveva sempre desiderato: l’alleanza con una grande potenza militare.
L’Italia si era legata alla Prussia in virtù del trattato firmato l’8 aprile
1866. Si trattava di un trattato molto ambiguo soprattutto perché influenzato
dalla difficile figura di Bismark, di natura offensiva e difensiva che
prevedeva quattro condizioni: 1) la guerra deve essere condotta con ogni
energia e nessuna delle due potenze alleate può concludere un armistizio o una
pace senza il consenso dell’altra; 2) tale consenso non può essere rifiutato se
l’Austria cede all’Italia il Veneto e alla Prussia territori equivalenti; 3) il
trattato deve considerarsi senza efficacia se la Prussia non dichiara guerra
all’Austria entro tre mesi dalla firma; 4) l’Italia s’impegna a inviare la sua
flotta in aiuto a quella prussiana nel caso in cui l’Austria invii navi da
guerra nel Baltico.
Come
si può notare, il trattato non prevedeva il carattere di reciprocità in quanto
impegnava l’Italia a entrare in guerra nel caso in cui la Prussia l’avesse
dichiarata, ma non il contrario. Né prevedeva l’intervento di quest’ultima se
fosse stata l’Austria a prendere l’iniziativa contro l’Italia. Tale
sbilanciamento, fu espressamente sottolineato da Bismark che, pur avendo
riconosciuto l’inopportunità di lasciare l’Italia da sola a combattere, affermò
ripetutamente che il trattato non impegnava la Prussia a dichiarare guerra
all’Austria nel caso in cui questa si fosse trovata in conflitto con l’Italia.
In realtà, Bismak in quei giorni fece sapere, attraverso gli opportuni canali
diplomatici che in caso di intervento militare austriaco contro l’Italia, la
Prussia avrebbe onorato i propri obblighi di amicizia nei confronti dell’alleato
italiano. Per ogni altra ipotesi Bismark consigliava vivamente gli italiani di
astenersi da ogni tipo di iniziativa offensiva.
Purtroppo,
la situazione stava prendendo una strada completamente diversa: in Austria
giungevano, da fonti informative di dubbia veridicità, informazioni su presunti
armamenti e movimenti militari italiani sui confini. Erano delle esagerazioni,
ma più che sufficienti per accelerare la mobilitazione e la preparazione
dell’Armata austriaca del Sud ubicata in Veneto[iii].
Nonostante
ciò, qualche settimana dopo (5 maggio 1866), l’Austria, che fino quel momento
si era sempre rifiutata di discutere la questione veneta con l’Italia, offre la
cessione di Venezia alla Francia affinché la girasse all’Italia. I diplomatici
italiani, dietro sollecitazione del Presidente del Consiglio, rifiutano
categoricamente in quanto giungeva troppo tardi per poter essere motivo di
rottura degli accordi con la Prussia.
Agli
inizi di maggio la situazione era quanto più che mai in stallo e le strade per
una soluzione diplomatica sembravano quasi impossibili. La Francia, nel
tentativo di fermare ogni focolaio di guerra, si fa addirittura promotrice di
un Congresso ove discutere tutte le pendenze territoriali, compreso il Veneto.
(2)
Economico
finanziari.
Dopo
la crisi politica del dicembre 1865, era diventato Ministro della Guerra il
Gen. Ignazio de Genova di Pettinengo che, tra i primi atti ministeriali, impose
un taglio di bilancio di circa undici milioni. Questo in realtà si andava ad
aggiungere ad un ulteriore taglio, pluriennale, disposto dal precedente
Ministro della Guerra, Gen. Petitti, di circa nove milioni. Alla vigilia della
guerra, quindi, l’esercito poteva contare su un budget decurtato di circa venti milioni che aveva imposto delle
economie soprattutto per quanto riguarda i richiami. L’Esercito Italiano
entrava in guerra con circa 30000 uomini in meno. Questa carenza si fece
sentire soprattutto a livello tattico, dove le compagnie di fanteria potevano
contare su una forza di circa 125 uomini contro i 165/170 delle compagnie
imperiali.
c.
Considerazioni
riepilogative
(1)
Correlazione fra
intendimenti e possibilità: valutazione dell’adeguatezza delle forze in campo
in relazione agli intendimenti ed agli scopi
Nel
1848 Carlo Alberto con un piccolo esercito mosse guerra all’imponente armata
austriaca di Radestzky e ripiegando su Milano perdeva rovinosamente. Diciotto
anni dopo, nel 1866, l’Esercito del Regno d’Italia, con una popolazione sette
volte quella del Piemonte e con mezzi militari decisamente superiori scende in
campo contro l’Austria, che nel Veneto dispone di un esercito circa la metà del
suo. L’occasione è favorevolissima. Le forze che l’Italia ha messo in campo
sono sicuramente adeguate allo scopo di sconfiggere gli Austriaci e
costringerli a cedere il Veneto.
Per
contro, seppur inferiore da un punto di vista quantitativo, l’esercito
imperiale, che si propone di difendersi appoggiandosi ai presidi e alle
fortezze presenti sul terreno, ha una forza adeguata agli scopi.
(2)
Rapporti di
potenza fra le parti contendenti: capacità rispettiva di sostenere sforzi
prolungati
A
parte la superiorità numerica, l’esercito imperiale era comunque in condizioni
più favorevoli di quelle italiane: unità di comando, libertà di comando,
maggiore amalgama e addestramento dei reparti di fanteria e cavalleria,
superiore conoscenza del terreno erano i fattori che potevano fare la
differenza. L’impossibilità di utilizzare una fitta ed efficiente rete
ferroviaria, inoltre, rallentavano i movimenti soprattutto di chi attacca. Le condizioni
climatiche e del terreno completavano una situazione quasi proibitiva per
coloro che si ponevano l’obiettivo di attaccare agevolando, per contro, coloro
che, godendo di posizioni fortificate, dovevano difendere.
Inoltre,
l’aver scomposto il contingente in due armate, che avrebbero agito su due
fronti completamente separati, non permetteva all’esercito italiano di
concentrare il massimo sforzo in un punto rendendo più debole il dispositivo.
Infine,
il supporto a sostenere la campagna esisteva: al momento della dichiarazione di
guerra il paese era saldamente stretto intorno all’esercito così come la
monarchia appariva popolare e nel pieno diritto di porsi alla guida delle armi
e della nazione. Anche quando le confuse notizie dal fronte non erano confortanti
e facevano intuire che le cose non erano andate come si sperava, l’opinione
pubblica reagì molto bene dando ulteriore fiducia all’esercito e ai suoi
comandanti. In sintesi, alla vigilia della guerra tutto lascia presupporre che
non ci siano ostacoli per l’Esercito Italiano a sostenere sforzi prolungati
Per
quanto, riguarda l’esercito imperiale, nonostante le forze e l’organizzazione
lascino presupporre la possibilità di intrattenere una campagna di lunga
durata, si ritiene che molto dipende dalle operazioni in Boemia, dove il grosso
deve scontrarsi con l’esercito prussiano di von Moltke.
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