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lunedì 5 settembre 2016

Il 1866. la Terza Guerra di Indipendenza III Parte

CAPITOLO II – LA BATTAGLIA DI CUSTOZA
1.       SITUAZIONE GENERALE
a.       Situazione generale militare
(1)       I quadri – le forze – i mezzi
(a)     I capi: organizzazione del vertice operativo
In analogia all’Esercito Prussiano, l’Italia adottò la soluzione per la quale il Re Vittorio Emanuele II avesse il comando supremo e che lo esercitasse attraverso il suo Capo di Stato Maggiore, individuato nel Generale Alfonso La Marmora, che fino a due giorni prima dell’inizio delle ostilità ricopriva l’incarico di Presidente del Consigli dei Ministri. Il Ministro della Guerra era il Generale Ignazio de Genova di Pettinengo.
Il contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato in:
·       Armata del Mincio, sotto il comando del Re in persona e quindi del Gen. La Marmora,
·       Armata del Po comandata dal Generale Cialdini.
Il Comandante in Capo delle Forze Armate era l’Imperatore Francesco Giuseppe. L’Esercito si componeva di un’Armata dell’Iser, di un’Armata del Nord e un’Armata del Sud.
L’Armata del Sud, impegnata nella campagna contro l’Italia, aveva da poco cambiato il comandante supremo: al Maresciallo Benedek, assegnato per operare sul fronte principale in Boemia, era subentrato l’Arciduca d’Austria, feldmaresciallo Alberto Federico Rodolfo, figlio dell’Arciduca Carlo.
(b)     Gli SM: la loro organizzazione ordinativa
Erano passati “soli cinque anni dalla costituzione dell’Italia in Regno, e, oltre allo straordinario ingrandimento dell’Esercito piemontese, si era dovuto procedere alla fusione nel regio Esercito di una parte dei quadri dell’Esercito delle Due Sicilie e dell’Esercito garibaldino. Con finanze assai ristrette, si erano dovuti fabbricare materiali in grandissima copia, creare dotazioni, stabilire magazzini e depositi, creare stati maggiori, quadri, ecc. […][i].L’Italia non aveva ancora una tradizionale efficienza nel servizio di stato maggiore. I generali La Marmora, Della Rocca e Cialdini erano ottimi ufficiali con una splendida carriera militare alle spalle, ma con nessuna esperienza di comando di un enorme contingente e per di più costituito da soldati regolari. Il Gen. La Marmora che assunse poi l’incarico di Capo di Stato Maggiore era quello più impegnato dal punto di vista politico e che quindi aveva una percezione della realtà dello strumento militare veramente limitata. Se a questo aggiungiamo una certa “gelosia” tra i grandi generali italiani, ma soprattutto il desiderio del Re Vittorio Emanuele II di dirigere le operazioni, insieme al Gen. Petitti, è facile intuire che il Comando Supremo delle operazioni, così come l’organizzazione degli stati maggiori, non poteva che presentare dei problemi che si sarebbero ripercossi sulle operazioni.
Lo stato maggiore, come inteso dai prussiani e anche dagli austro-ungarici, non era mai esistito nell’Esercito Sardo e continuò a non esistere anche nell’Esercito Italiano. Gli Ufficiali di stato maggiore, al termine dei corsi frequentati, avevano dismesso lo studio che diventava privilegio di pochissimi volenterosi. Gli stessi inadeguati insegnamenti strategici, tattici, procedurali e storici erano stati dimenticati per cui nel 1866, pochi erano gli Ufficiali si stato maggiore preparati.
Benché non abbondante di vittorie, la tradizione militare austro-ungarica era molto solida. Anzi, si può dire che la vitalità dell’Impero di Francesco Giuseppe risiedeva proprio nell’esercito. Pur tuttavia, la principale cagione dei mali era la scarsità di grandi condottieri. Non mancavano i generali dotti e preparati, ma i geni militari rimanevano soffocati dalla ferrea disciplina, dalle consuetudini e dai pregiudizi da cui era emerso nel recente passato solo l’Arciduca Carlo, padre di Alberto.
(c)     Le forze terrestri: unità in genere, di pronto impiego, di riserva
Senza contare i volontari di Garibaldi, circa 38000 uomini, le truppe di presidio e di completamento, l’Esercito Italiano aveva una forza effettiva di 22000 uomini, 37000 cavalli e 456 cannoni. Fu disposto il richiamo delle classi 1834 – 1840 (prima categoria) e 1840 – 1841 (seconda categoria). Le operazioni di mobilitazione furono complicatissime a causa della configurazione della penisola italiana e per lo scarso sviluppo delle ferrovie. L’organizzazione di quel contingente fu opera del Gen. Petitti.
Per resistere al contingente italiano, gli austriaci avevano organizzato un esercito che poteva contare di fortissimi appoggi e fortificazioni inespugnabili. Ma erano comunque necessarie numerose guarnigioni ed era inevitabile un certo disseminamento di forze. Dei dieci corpi costituenti l’Esercito Imperiale, ben sette furono destinati all’Armata del Nord, insieme a cinque Divisioni di Cavalleria, e una riserva generale di artiglieria per un totale di circa 185000 uomini. Soltanto tre Corpi di Armata vennero destinati all’Armata del Sud, con una Brigata di Cavalleria di riserva, per un totale di circa 145000 uomini, 15000 cavalli e 192 pezzi di artiglieria. Escludendo le forze di presidio e di guarnigione e delle forze destinate nel Tirolo, dove fu inviato un contingente autonomo sotto il Comando del Gen. Von Kuhn, per le operazioni nel Veneto erano disponibili 94500 uomini, 12500 cavalli e 168 pezzi.
(d)     Le dottrine operative: la loro definizione in base agli intendimenti politici, di ordine strategico, tattico e potenziale
In Italia, come del resto anche nell’Impero, gli insegnamenti delle guerre napoleoniche erano stati lasciati volutamente nel dimenticatoio, a differenza di alcuni generali prussiani della scuola di Clausewitz. Le campagne napoleoniche avevano insegnato, ad esempio, che un corpo d’armata non poteva avere più di quattro divisioni, se non compromettendo la mobilità e la manovrabilità. Ma i principi dell’arte della guerra non erano conosciuti, se non superficialmente. Per dirlo in altre parole, gli studi militari in Italia non erano presi in seria considerazione. Certamente la dottrina tattica presentava segni di invecchiamento e necessitava di rinnovamento, ma quando applicata correttamente era ancora motivo di successo.
Anche per quanto riguarda l’Impero, all’epoca dei fatti pochi generali “sapevano” fare la guerra e uno di questi era il Comandante dell’Armata del Sud,  l’Arciduca Alberto, figlio primogenito del grande Arciduca Carlo d’Asburgo che aveva battuto Napoleone nel 1809. Egli si era formato studiando le campagne, specialmente quelle del padre. Da questi insegnamenti aveva appreso soprattutto la fermezza d’animo, il carattere serioso, ma soprattutto l’idea secondo la quale non bisognava lanciarsi alla carica fino ad un punto di non ritorno. Al contrario, bisognava avere l’accortezza di tenere sempre un atteggiamento guardingo e difensivo. E questo concetto volle applicarlo integralmente nella campagna contro gli italiani, definiti da lui stesso rapaci. Quindi come l’Armata del Nord, comandata dal Gen. Benedek, in Italia l’Arciduca Alberto si proponeva di fare una guerra difensiva, favorita dal terreno e dalle fortificazioni presenti nel Veneto.  
b.       Avvenimenti e provvedimenti in vista del conflitto
(1)    Politici e diplomatici
Le condizioni poste con la pace di Villafranca e il successivo trattato di Zurigo del 10 novembre 1859 avevano deluso la speranza degli italiani che dopo la valorosa vittoria di Solferino si aspettavano di veder concluso il processo di unificazione. D’altronde la pace con l’Impero Austro-Ungarico non poteva che essere un cessate il fuoco da momento in cui lo stesso imperatore si rifiutava di riconoscere il Regno d’Italia, appellando la penisola come ancora come Regno Sabaudo.
Tutti gli attori dell’epoca erano consapevoli che prima o poi l’Italia avrebbe ripreso le armi contro l’Austria non solo per l’inaccettabile sistemazione dei confini, ma soprattutto perché l’Austria, conservando il suo dominio sul Veneto e la disponibilità del Quadrilatero, nonché il desiderio di rivendicare quanto perso sette anni prima, rappresentava il nemico numero uno. Il Regno d’Italia, per contro, non era in grado di dichiarare compiuta “l’unità nazionale senza Venezia e Roma. E per ottenere Venezia si doveva fare la guerra[ii].
L’Italia, dopo estenuanti trattative diplomatiche, condotte dal Gen. La Marmora, il Ministro de Barral e il Gen. Govone, inviato speciale a Berlino, ottenne quello che aveva sempre desiderato: l’alleanza con una grande potenza militare. L’Italia si era legata alla Prussia in virtù del trattato firmato l’8 aprile 1866. Si trattava di un trattato molto ambiguo soprattutto perché influenzato dalla difficile figura di Bismark, di natura offensiva e difensiva che prevedeva quattro condizioni: 1) la guerra deve essere condotta con ogni energia e nessuna delle due potenze alleate può concludere un armistizio o una pace senza il consenso dell’altra; 2) tale consenso non può essere rifiutato se l’Austria cede all’Italia il Veneto e alla Prussia territori equivalenti; 3) il trattato deve considerarsi senza efficacia se la Prussia non dichiara guerra all’Austria entro tre mesi dalla firma; 4) l’Italia s’impegna a inviare la sua flotta in aiuto a quella prussiana nel caso in cui l’Austria invii navi da guerra nel Baltico.
Come si può notare, il trattato non prevedeva il carattere di reciprocità in quanto impegnava l’Italia a entrare in guerra nel caso in cui la Prussia l’avesse dichiarata, ma non il contrario. Né prevedeva l’intervento di quest’ultima se fosse stata l’Austria a prendere l’iniziativa contro l’Italia. Tale sbilanciamento, fu espressamente sottolineato da Bismark che, pur avendo riconosciuto l’inopportunità di lasciare l’Italia da sola a combattere, affermò ripetutamente che il trattato non impegnava la Prussia a dichiarare guerra all’Austria nel caso in cui questa si fosse trovata in conflitto con l’Italia. In realtà, Bismak in quei giorni fece sapere, attraverso gli opportuni canali diplomatici che in caso di intervento militare austriaco contro l’Italia, la Prussia avrebbe onorato i propri obblighi di amicizia nei confronti dell’alleato italiano. Per ogni altra ipotesi Bismark consigliava vivamente gli italiani di astenersi da ogni tipo di iniziativa offensiva.
Purtroppo, la situazione stava prendendo una strada completamente diversa: in Austria giungevano, da fonti informative di dubbia veridicità, informazioni su presunti armamenti e movimenti militari italiani sui confini. Erano delle esagerazioni, ma più che sufficienti per accelerare la mobilitazione e la preparazione dell’Armata austriaca del Sud ubicata in Veneto[iii].
Nonostante ciò, qualche settimana dopo (5 maggio 1866), l’Austria, che fino quel momento si era sempre rifiutata di discutere la questione veneta con l’Italia, offre la cessione di Venezia alla Francia affinché la girasse all’Italia. I diplomatici italiani, dietro sollecitazione del Presidente del Consiglio, rifiutano categoricamente in quanto giungeva troppo tardi per poter essere motivo di rottura degli accordi con la Prussia.
Agli inizi di maggio la situazione era quanto più che mai in stallo e le strade per una soluzione diplomatica sembravano quasi impossibili. La Francia, nel tentativo di fermare ogni focolaio di guerra, si fa addirittura promotrice di un Congresso ove discutere tutte le pendenze territoriali, compreso il Veneto.
(2)    Economico finanziari.
Dopo la crisi politica del dicembre 1865, era diventato Ministro della Guerra il Gen. Ignazio de Genova di Pettinengo che, tra i primi atti ministeriali, impose un taglio di bilancio di circa undici milioni. Questo in realtà si andava ad aggiungere ad un ulteriore taglio, pluriennale, disposto dal precedente Ministro della Guerra, Gen. Petitti, di circa nove milioni. Alla vigilia della guerra, quindi, l’esercito poteva contare su un budget decurtato di circa venti milioni che aveva imposto delle economie soprattutto per quanto riguarda i richiami. L’Esercito Italiano entrava in guerra con circa 30000 uomini in meno. Questa carenza si fece sentire soprattutto a livello tattico, dove le compagnie di fanteria potevano contare su una forza di circa 125 uomini contro i 165/170 delle compagnie imperiali.   
c.        Considerazioni riepilogative
(1)    Correlazione fra intendimenti e possibilità: valutazione dell’adeguatezza delle forze in campo in relazione agli intendimenti ed agli scopi
Nel 1848 Carlo Alberto con un piccolo esercito mosse guerra all’imponente armata austriaca di Radestzky e ripiegando su Milano perdeva rovinosamente. Diciotto anni dopo, nel 1866, l’Esercito del Regno d’Italia, con una popolazione sette volte quella del Piemonte e con mezzi militari decisamente superiori scende in campo contro l’Austria, che nel Veneto dispone di un esercito circa la metà del suo. L’occasione è favorevolissima. Le forze che l’Italia ha messo in campo sono sicuramente adeguate allo scopo di sconfiggere gli Austriaci e costringerli a cedere il Veneto.
Per contro, seppur inferiore da un punto di vista quantitativo, l’esercito imperiale, che si propone di difendersi appoggiandosi ai presidi e alle fortezze presenti sul terreno, ha una forza adeguata agli scopi. 
(2)    Rapporti di potenza fra le parti contendenti: capacità rispettiva di sostenere sforzi prolungati
A parte la superiorità numerica, l’esercito imperiale era comunque in condizioni più favorevoli di quelle italiane: unità di comando, libertà di comando, maggiore amalgama e addestramento dei reparti di fanteria e cavalleria, superiore conoscenza del terreno erano i fattori che potevano fare la differenza. L’impossibilità di utilizzare una fitta ed efficiente rete ferroviaria, inoltre, rallentavano i movimenti soprattutto di chi attacca. Le condizioni climatiche e del terreno completavano una situazione quasi proibitiva per coloro che si ponevano l’obiettivo di attaccare agevolando, per contro, coloro che, godendo di posizioni fortificate, dovevano difendere.
Inoltre, l’aver scomposto il contingente in due armate, che avrebbero agito su due fronti completamente separati, non permetteva all’esercito italiano di concentrare il massimo sforzo in un punto rendendo più debole il dispositivo.
Infine, il supporto a sostenere la campagna esisteva: al momento della dichiarazione di guerra il paese era saldamente stretto intorno all’esercito così come la monarchia appariva popolare e nel pieno diritto di porsi alla guida delle armi e della nazione. Anche quando le confuse notizie dal fronte non erano confortanti e facevano intuire che le cose non erano andate come si sperava, l’opinione pubblica reagì molto bene dando ulteriore fiducia all’esercito e ai suoi comandanti. In sintesi, alla vigilia della guerra tutto lascia presupporre che non ci siano ostacoli per l’Esercito Italiano a sostenere sforzi prolungati
Per quanto, riguarda l’esercito imperiale, nonostante le forze e l’organizzazione lascino presupporre la possibilità di intrattenere una campagna di lunga durata, si ritiene che molto dipende dalle operazioni in Boemia, dove il grosso deve scontrarsi con l’esercito prussiano di von Moltke.       



[i] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 3
[ii] Gioannini M. e Massobrio G., Custoza 1866 – La via italiana alla sconfitta,  Rizzoli, Milano, 2003, p. 102
[iii]    Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 94, pp. 89-94. 

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