Mario Rino Me*
Guerra, conflitti e politica
“I hate war, as only a soldier who has lived it can,
as one who has seen its brutality, its futility, its stupidity”. Dwight Eisenhower
Fino alla Guerra Fredda, il
divenire della storia si identifica, per lo più, con quello della guerra e
poiché la storia vede gli uomini come
protagonisti, nel binomio politica e guerra, i due hanno costituito un coppia
inseparabile. In effetti, la mappa della geografia politica, i singoli Stati e
le istituzioni che noi conosciamo ci sono stati tramandati da un continuo
succedersi di conflitti. La guerra é dunque un fattore di rilievo
nell’evoluzione ciclica delle costituzioni statuali, ma anche il progresso
delle società, nei momenti cruciali dello scontro tra diverse culture, è stato
influenzato dal verdetto sul campo (basti pensare alle guerre greco - persiane,
romano - cartaginesi, ecc). Invero, come già avveniva dai tempi della pace di
Westphalia, nello iato tra le due guerre mondiali e durante la Guerra Fredda
c’è stato anche un po’ di spirito di cooperazione che ha fatto progredire la
costruzione del sistema internazionale. Il cosiddetto “male necessario”, come
lo definiva il Barone Henry de Jomini[1], era,
quantomeno accettato con rassegnazione, e veniva raffigurato come la
“sanguinosa soluzione di una crisi[2]”. Ma a
Thomas Jefferson, appariva anche un’arma a doppio taglio che la definiva “as much a punishment to the punisher as to
the sufferer”. A fattor comune il
fatto che si tratta di una polemica violenta e rischiosa, nella quale la
distruzione fisica delle forze dell’avversario e quella morale della sua
volontà di combattere, sfocia, in una sorta di giudizio ordalico, nel rapporto
di forza che si viene a determinare. Un contesto dove, come scrive von
Clausewitz “la violenza che si vuol infliggere all’avversario è funzione delle
reciproche pretese politiche” e, come in un duello, “i contendenti sono spinti
dalla reciprocità delle azioni, ad una tensione estrema delle forze fisiche,
della fatica e della sofferenza”.
Tucidide ha definito la guerra come il “cattivo maestro ”, in quanto
“portando via le comodità delle consuetudini di ogni giorno, è maestra di
violenza, e rende conforme alle circostanze l'indole dei più”.[3] In
epoca rinascimentale, Leonardo da Vinci, ne dava una raffigurazione pittorica
nella battaglia di Anghiari, una delle opere più enigmatiche del suo genio,
lasciata interrotta e pervenutaci attraverso un disegno di P. Paolo Rubens. Il
dipinto “raffigura l’idea che nella folle violenza del conflitto [che, di
solito, si accentua nella lotta intestina], gli esseri umani rischiano di
corrompere anche gli animali”[4].
Dunque una realtà fenomenica dove le componenti immateriali, come i fattori
morali, difficili da pesare, «sfuggono al sapere attinto nei libri, non
si lasciano ridurre in cifre né in categorie; debbono essere veduti e sentiti.[5]».
Parimenti, le dinamiche sprigionate sono difficilmente prevedibili. Soggetto
all’incertezza e aleatorietà, il fenomeno bellico segue dunque un profilo non
“lineare”come dicono alcuni esperti, che non si presta, data la sua
complessità, a schematismi e modelli previsionali propri della guerra «a
tavolino». Quel “camaleonte” della
guerra è poi, e soprattutto, un atto politico, la cui essenza è distillata dal
costrutto filosofico di K von Clausewitz. Il generale sostiene che “l’obiettivo
primario[6] di
tutte le operazioni militari è quello di abbattere il nemico, vale a dire
distruggere le sue forze. Il che costituisce il solo mezzo di cui dispone la
guerra”. Precisando che si tratta di “un mezzo serio per un affare serio”, egli
aggiunge che “la guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero
strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua
continuazione con altri mezzi[7]». Vista
in questa prospettiva, la locuzione “con altri mezzi” sta a significare, come
ribadirà nel successivo libro VIII[8], che
la guerra “non interrompe lo scambio politico” tra i contendenti. Esso,
infatti, viene modulato dall’andamento dei combattimenti, dato che, non solo
“la politica non si ferma alla cessazione degli scambi di note diplomatiche”,
ma permea i combattimenti in quanto “la condotta della guerra è di per se fare
politica”. La guerra come politica dunque, che sembra in contrasto con quanto
detto prima. In breve, “la guerra deve essere coerente con gli obiettivi
politici e le linee politiche coerenti con i mezzi disponibili”, in quanto “al
più alto livello, l’arte della guerra evolve in indirizzi politici, che si
riflettono nella condotta di battaglie piuttosto che nell’invio di note
diplomatiche”. In definitiva, egli si
chiede retoricamente “non è la guerra un’altra forma di scambio di pensieri,
note verbali ?”. In questa prospettiva intensità e scala (ampia o ridotta che
sia ) dei combattimenti servono a inviare messaggi politici sulle proprie
intenzioni[9].
Il quadro e lo schema
Michael Handel, nella sua analisi
comparativa sui maestri del pensiero strategico, ravvisa che lo stratega cinese Sun Tzu del 4° secolo a.c.,
includendo la creatività (“creare condizioni e circostanze”) aveva già definito un quadro politico militare più ampio di quello tracciato
da Clausewitz. Quest’ultimo, infatti, pur riconoscendo la supremazia della
dimensione politica si era limitato a un trattato su “waging war itself”[10],
senza dunque argomentare ulteriormente in termini di portata politica
(interesse, posta in gioco ecc). Oltre un millennio prima, il maestro cinese,
cui spetta anche la primogenitura dei principi della guerra, aveva definito la
guerra come “una questione di importanza vitale per lo stato, l’ambito di vita
o di morte, la strada per la rovina o sopravvivenza”, e che, come tale, doveva
“essere studiata compiutamente”, dato che per poter vincere occorreva fare
“tanti calcoli”. In effetti questa definizione, che, nella gravità delle parole
suona anche come avvertimento, pone dei paletti alle possibilità di ricorso
alla guerra. Detto altrimenti, si può ragionevolmente dedurre che, se non
sussistono condizioni di necessità tali da motivarne la scelta, è bene perseguire
altri approcci. Di conseguenza, questo strumento della politica non può essere
utilizzato per risolvere dispute o rimostranze, rispondere a torti o questioni
personali tra capi di governo e via dicendo. Purtroppo, anche dopo il periodo
delle guerre “tra governi, che non coinvolgevano il popolo”, non sempre, è
andata così.
Dal punto di vista
socio-antropologico il fenomeno della contesa violenta è riconosciuto come
fisiologico e sistematico. “E’ la politica che ha generato la guerra”, afferma
von Clausewitz. Senza ulteriori elaborazioni, la domanda spontanea si sposta
sul come. Tucidide nell’analisi, non solo storiografica, della “Guerra del
Peloponneso” da lui vissuta come στρατηγός, ci offre una raffigurazione,
oggettiva e realistica del contesto ricorrente nel divenire storico degli
imperi[11].
Le ragioni più profonde che, in un clima di concorrenza tra i due poli (Atene e
Sparta), portarono alla denuncia della pace sono riconducibili, egli afferma,
alla ”crescita della potenza ateniese e timore che esso incuteva agli spartani“.
Dunque, non le motivazioni addotte dalle parti in causa, di cui lo storico,
convinto dell’immutabilità della natura umana dà un’ampia descrizione, “in modo
che esse diventino un possesso dell’umanità”. Ciò al fine di far comprendere
meglio gli avvenimenti “che hanno portato al più grande sconvolgimento
prodottosi nel mondo greco ..e in certa misura per gran parte dell’umanità,
dato che entrambi i contendenti affrontavano la guerra al culmine delle loro
forze e in ogni settore dell’apparato bellico. Mentre il resto del mondo greco
si schierava con gli uni o gli altri“. Appare dunque all’orizzonte il fenomeno
di quella che diventerà la dialettica dell’ascesa e declino delle potenze a
fronte delle sfide da parte del peer competitor di turno. Proprio le
caratteristiche di ineludibilità e sistematicità del fenomeno e i risvolti
dell’impiego della forza organizzata, ma pur sempre distruttiva, sono
all’origine di un lungo dibattito filosofico incentrato sulla moralizzazione
del ricorso a questo strumento politico, alla luce dei valori universalmente
riconosciuti del bene e della giustizia. Non ultimo per rispondere anche alla
domanda di calmierarne ricorrenza ed effetti. Nella sua analisi, Von
Clausewitz, riprendendo, ancorché parzialmente, la teoria della Guerra Giusta
di S. Agostino, precisa che
lo scopo finale “è quello di portare alla pace”[12]”.
L’opera del generale prussiano, che aveva vissuto gli effetti della nuova trasformazione
del “fare la guerra come ..i francesi”, per dirla alla N. Machiavelli[13],
rappresenta il primo approccio sistematico allo studio alla realtà fenomenica.
Essa viene osservata e dissezionata attraverso il prisma delle sue dinamiche
interne, della sua pianificazione e condotta ai vari livelli, e del suo
utilizzo come strumento della politica. In fatti, egli aveva percepito il fatto
che, con l’applicazione di una logica di sistema, alias l’èsprit de système
Napoleonico, la tipologia di guerra assoluta, ben diversa da quel “gioco
vero..“, fino a ”una forma più forte di diplomazia[14]”,
proprio dell’epoca pre-rivoluzionaria, era divenuta una realtà irreversibile.
Nella sua opera, il fenomeno viene schematizzato in una “strana trinità” (eine wunderliche dreifaltigkeitt)[15]”di
tendenze, composto “violenza primordiale, dal gioco delle probabilità e dal
caso e dalla natura subordinata di strumento politico, che si affida alla
ragione [16]”. Schema che, trasposto
alla struttura sociale dà origine, nella consustanzialità dei componenti, alla
nota trilogia composta da popolo, governo, esercito. E’ questa una
raffigurazione, dal significato profondo. Difatti la violenza originaria del
suo elemento di base è associabile al popolo, nella versione di demone per dirla
alla Shakespeare, al tempo fronte interno e sorgente della risorsa più preziosa;
nel mondo contemporaneo, si accosta alla società e opinione pubblica, il cui
sostegno è sempre più necessario anche ai fini del morale delle forze armate. Al
governo si associa “l’intelligenza personificata “cui corrisponde il fine
politico che deve mantenere una relazione di proporzionalità (calcolo) tra la
finalità e attese di guadagno da una
parte, e, dall’altra, lo sforzo militare. Probabilità e caso la rendono una
“attività creativa dello spirito dove giocano “talento, coraggio, carattere”. Infine
il governo che ne definisce scopi e natura. Vista in termini di flusso logico, che
vede l’atto fisico del combattimento diretto da una forza mentale, talché la
forza bruta, irreggimentata nell’esercito, diventa organizzata e controllata
dalla ragione governativa, che la rende nella visione di Max Weber ,”monopolio
dello stato”. In quest’ottica, il calcolo razionale, che rappresenta un
raccordo importante alla filosofia orientale della prudenza, che consente la
gestione del rischio e l’individuazione o previsione dei possibili sviluppi (o scenari,
come si direbbe oggi), diventa un’esigenza cogente. Quest’ultima si traduce in una
sorta di ricostruzione virtuale che si cerca di sovrapporre alla presumibile realtà
.
Lo schema di von Clausewitz
Prima di addentrarsi nel
ginepraio della guerra occorre dunque riflettere. E’ questo un must che il
nostro autore presenta in termini perentori con un caveat che sa tanto di avvertimento: é “imperativo ..non
fare il primo passo se non si considera anche l’ultimo”[17]. Anche
perché come aveva spiegato prima, “solo i grandi successi tattici portano a
grandi successi strategici[18]”,
detto altrimenti calma e occhio al portafoglio perché ça coute cher. Quest’aspetto viene chiarito
con una osservazione che illustra la struttura portante del suo pensiero. Egli
dice “nessuno inizia, o piuttosto dovrebbe iniziare, una guerra senza avere
chiaro in mente cosa intende ottenere con quell’impresa e come intende
condurla. Il primo è lo scopo politico, il secondo è l’obbiettivo militare.. E’
[questo] un principio che segue il corso degli eventi, prescrive la scala dei
mezzi e lo sforzo richiesto, ed esercita la sua influenza fino all’ultimo
dettaglio operativo”[19]. E
questo principio lastrica la strada per quella che sarà definita la catena di
comando, che dovrà assicurare il continuum politico–militare tra fini politici
e obiettivi militari. Nell’universo clausewitziano
segnato dall’influsso della scienza newtoniana, che lo porta ad associare il
contrasto alla polarizzazione del mondo fisico,
il successo in guerra,
richiede la concorrenza dei fattori
all’interno della famosa trilogia, per cui “ogni teoria che stabilisca relazioni arbitrarie tra
i tre pilastri è in conflitto con la realtà”[20]. In effetti, quella che lui, usando un
termine che diventerà di moda, definirà la “trasformazione della guerra”, associata
a un camaleonte, era riconducibile “cambiamenti della società e nuove
condizioni sociali”. Difatti, le nuove
forze sprigionate dalla rivoluzione e la sua esportazione con la guerra a
mente dell’architettura dello stato westphaliano, di profondi mutamenti, all’interno nello spaccato delle singole componenti,
negli equilibri e nell’agenda politica. All’esterno, la lévée en masse, la
mobilitazione delle risorse e gli schemi operativi introdotti dal “genio” napoleonico
avevano fatto il resto. Proprio il genio, l’antesignano della Grand Strategy,
non si spaventava per le perdite umane; ispezionando il campo di battaglia a
Lipsia, si dice che abbia osservato “une nuit de Paris repeuplera tout cela”.
Lo schema clausewitziano serve a chiarire che, pur nella variabilità
delle relazioni tra le parti, se non si raggiunge all’interno un equilibrio
stabile e sostenibile, le cose potrebbero andare male. Sullo
sfondo dei principi introdotti da Aristotele prima nel mondo greco –latino e
poi occidentale, la politica deve dunque fornire delle linee di indirizzo, da
trasformare, successivamente, in obiettivi
chiari, concedere margini di manovra nonché autonomia ai militari nel preparare
e mettere in atto piani operativi. Quanto alla querelle sugli scopi della
guerra, un secolo più tardi, B. Liddel Hart, senza far riferimento al
dibattito filosofico medievale, chiosava che lo scopo della guerra è “una pace
migliore”, talché era “opportuno condurre la guerra con un occhio costante alla
pace che si desidera, .. tenendo presente il prolungamento della politica alla
fase di cessazione delle ostilità in vista dei benefici postbellici. Occorre
dunque avere sottomano una politica rivolta al dopo-guerra, che, come si è
visto nelle recenti operazioni fuori-.area, comporta impegni di rilievo. Si
tratta, in definitiva, di “vincere la pace”. Difatti, concentrandosi
esclusivamente sulla vittoria, senza considerare gli effetti successivi.. si
rischia di rimanere esausti e di non cogliere i frutti della pace..é certo che
sarà una pace non riuscita che contiene i germi
per una nuova guerra… Lezione questa sorretta da una notevole esperienza
(storica)”. Conclusioni che saranno
riprese, più tardi dal pensiero di Raymond Aron, che, in forma tranchant,
lancerà il suo j’accuse ai capi di governo Alleati della seconda Guerra Mondiale, che,
“pretendendo la resa incondizionata”, dunque comportandosi da comandanti
militari, “non avevano inteso la differenza tra strategia e politica”.
Von Clausewitz è stato criticato,
soprattutto dalle élites britanniche, che hanno preferito seguire cultura
militare e insegnamenti storici del loro paese, per aver via via identificato
l’obiettivo militare[21]
nella “distruzione totale delle forze avversarie“, che corrisponde alla nozione
di “vittoria totale”. Lo ripete in
continuazione e nella parte del libro VIII, relativa al piano di guerra da
predisporre per l’annientamento dell’avversario, richiama i due principi
dell’agire: con la massima concentrazione (poche azioni, idealmente una) contro
le fonti della forza avversaria e con
la massima velocità. Ovviamente, il tutto rientra nel quadro generale
dell’economia dello sforzo. Ciò non implica che le forze non si devono dividere
nello spazio e nel tempo; le eccezioni alla regola devono essere soppesate vis
à vis l’esigenza primaria della concentrazione. Quanto alle tesi che, per dirla alla B. Liddel Hart “intossicarono” il
pensiero strategico germanico, si può osservare che l’autore prussiano, pur
riconoscendo che l’annientamento della forza avversaria costituisce sempre “il
miglior modo per cominciare”, precisa che vi possono essere, tuttavia, circostanze
che modificano questo semplice assioma. Egli infatti prosegue dicendo che “occorre
tenere in mente le caratteristiche dominanti dei belligeranti. Da esse può
scaturire un centro di gravità, snodo del potere e movimento da cui dipende
tutto. Qui occorre concentrare lo sforzo”. Di conseguenza, prendere una
capitale potrebbe risultare più significativo della distruzione dell’esercito
avversario, come pure sferrare un colpo decisivo contro un suo alleato più
forte. Qui Clausewitz introduce la nozione importante del baricentro dello
sforzo, non esclusivamente militare, che è il punto centrale di qualsiasi pianificazione
operativa e non. In breve Liddel Hart, riconosceva a Clausewitz il
merito di aver “messo in evidenza i fattori umani…la metodica’, ma gli
rimproverava la “visione miope, ..l’idea che il combattimento fosse alla base
di qualsiasi attività militare..di aver inculcato idee astratte e assolute
(come la distruzione delle forze)..di incitare i generali a cercare battaglie
decisive alla prima opportunità senza considerare favorevole..la dimostrazione
logica di tesi sbalorditive (c’è un solo mezzo, la battaglia) salvo poi
ammettere anche eccezioni (l’obiettivo può essere ottenuto anche senza
combattere[22]”). Poi, l’affondo, “come
spesso succede i discepoli di Clausewitz portarono i suoi insegnamenti agli
estremi più di quanto egli volesse[23]”. Ma
non ha voluto infierire su alcuni aspetti dogmatico-aprioristi, come la scarsa
considerazione all’intelligence (l’intelligence “può accorgersi della
realtà occasionalmente e [solo] un gran coraggio può far recuperare da un
abbaglio… tutte le informazioni sono soggette al dubbio[24]”),
ancora dubbi sull’applicabilità della teoria degli “obiettivi limitati “ in quanto la levée en masse del
post 1792 , a Valmy, aveva messo in luce che “le lancette dell’orologio non
possono tornare indietro” ). Se Jomini
rinfacciava al suo contemporaneo di essere “una penna vagabonda[25]”, L.
Hart ritiene che Clausewitz si sia cercato da solo questi duri commenti; forse
perché la sua cultura del keep it simple non perdona linguaggio
involuto, logiche tortuose e la retorica
bellicista (l’idea che solo grandi generali possano vincere grandi battaglie).
Per contro, il Britannico privilegia, in
nome del fine supremo, gli aspetti “meno nobili” (opportunismo tornaconto, artifizi
vari ecc). Poi c’è un altro aspetto: la
natura della guerra e delle metodiche che cercano di controllarla richiede la
disponibilità di opzioni. Nella vulgata il “piano B”. Liddel Hart attribuisce a
Napoleone Bonaparte, formatosi nella cultura settecentesca francese, il detto
di “faire son thème en deux façons”.
Resta il fatto che il pensiero dominante dell’opera
clausewitziana ha trovato terreno fertile nella cultura militare prussiana, tra
le più muscolari. Difatti, mezzo secolo più tardi Von Moltke il vecchio di
fronte alle richieste di natura umanitaria di diminuire la violenza degli
scontri, replicava che “in guerra, il più grande atto di gentilezza che si può
compiere è quello di portarla alla rapida conclusione”. In effetti il
fautore della teoria dello ”indirect approach” e delle strategie
attendiste di “Obiettivi limitati” propugnando concetti non ortodossi, propone nuovi schemi e amplia
le opzioni. Come l’adozione di manovre
seguendo direttrici inattese, per poter produrre il noto “cambiamento del
fronte“, causando in tal modo, oltre agli effetti psicologici, la dislocazione
strategica avversaria; oppure soluzione innovative, ad esempio, quando la
sconfitta dell’esercito avversario non é perseguibile (per numeri ecc.) lo
sforzo bellico può essere corroborato dalla messa in campo forze diplomatiche[26]. In
breve la visione del britannico si può condensare nell’acquisizione di un
vantaggio decisivo, fermo restando che, contrariamente a quanto sostenuto
dal citato von Moltke il vecchio, la politica può intervenire operazioni
durante cambiando le linee di policy.
Il quando
Per risultare efficaci e opportune, le azioni vanno fatte al momento
giusto. La saggezza popolare (conventional wisdom) ricorda poi che c’è
un tempo per tutto, e l’appropriata sequenza delle decisioni prese può
rappresentare tanto se non proprio tutto. Il problema della definizione della
tempistica dunque. Qui Federico
il Grande può impartire una lectio
magistralis. Questi era un profondo conoscitore del suo tempo, che, in virtù di
un equilibrio nato con la pace di Westphalia e consolidatosi circa sessant’anni
dopo con i vari trattati di Utrecht[27],
era caratterizzato dall’esistenza di una ”ordinarie égalité des forces” tra le
potenze dell’epoca. Egli osservava realisticamente che “tutto quello che i
principi possono ottenere [in una guerra, ndr] attraverso un cumulo di successi
si riduce a una cittadina di frontiera o una periferia , che, anche a fronte
delle perdite, non ripaga lo sforzo
bellico..”. Ragion per cui non restava che seguire una regola prescritta dalla
ragione, “ cui nessun uomo di stato può sottrarsi: cogliere l’occasione
e agire quando essa è favorevole, ma senza forzare, abbandonando tutto al caso.
Ci sono dei momenti che richiedono di agire decisamente per cogliere
l’opportunità, ma vi sonno anche altri momenti in cui la prudenza suggerisce di
fermarsi[28]”. Il sovrano dunque, seguendo Machiavelli in materia di ragion di stato, invocava il principio
dell’opportunità-opportunismo, e creava
il precedente a quelli che qualche secolo più tardi vennero definiti i ”giri di
valzer” che sparigliavano le alleanze. Nella trattazione della guerra
offensiva\difensiva con scopi limitati, che sottintende dunque la possibilità
di controllare il fenomeno, Clausewitz, discute sul da farsi allorquando, le
circostanze escludono la possibilità di sconfitta dell’avversario. Qui, il nodo
da sciogliere è rappresentato dalle prospettive future. Rapportato ad oggi, il
contesto delle operazioni contemporanee di risposta alle crisi, in cui il tempo
lavora per l’insorgenza, appare associabile allo scenario favorevole per l’avversario,
che rende l’impresa alla stregua di una rincorsa contro il tempo; in questa
situazione, egli sostiene che si deve prendere l’iniziativa, nel senso
di “sfruttare i vantaggi del momento”. Del resto, la guerra difensiva, che si
associa al guadagnare tempo, non esclude controffensive. Lo stesso vale in caso
di scenario di futuro indeterminato, in quanto, possedendo l’iniziativa politica, si gode di uno “scopo attivo”, che deriva dalla condivisione delle
politiche di ricostruzione con le autorità del paese assistito. Il fatto che ne
sia valsa, oppure no, la pena di intervenire è un’altra cosa; da questo punto
di vista, la visione di Clausewitz, “romantica“ per dirla, correttamente, alla
Bernard Broodie, non sempre tiene conto degli aspetti, a volte cinici e poco
eroici, dell’interesse nazionale[29]
o di espedienti non degni del “furor d’inclite gesta”. Il tema centrale della
decisione verrà poi ripreso da Lenin e da Beaufre che nella definizione a lui
cara della strategia[30],
vede la vede come “avvenimento [oggi si
direbbe effetto, n.d.r.] di ordine psicologico che si vuole produrre
sull’avversario: convincerlo che gettarsi nella lotta o proseguirla è inutile..
attendere di decidere sfruttando una situazione che porta alla disintegrazione
morale sufficiente a fargli accettare
condizioni”[31]. Naturalmente questo può
essere ottenuto con la vittoria militare sul campo, ma, a volte, come detto a
proposito delle “guerre irregolari“, per dirla alla Gérard Chaliand, questo non
è sempre possibile. Per cui si richiedono altri mezzi e allargando l’ambito
alla “psicologia dell’avversario si possono trovare dei fattori decisivi”.
Conta la decisione nel momento cruciale, che può compensare precedenti rovesci;
ma le logiche del “ora o mai“, che, come ricorda il citato Broodie avevano
portato il Giappone a sferrare un attacco di sorpresa Pearl Harbour[32],
danno l’idea dei “pericoli connessi con le linee d’azione condizionate” da
questi stati d’animo. Se da un lato, le decisioni vanno poi viste, ex-post, a
fronte delle circostanze che le hanno determinate, la considerazione della
dimensione psicologica porta sia nel campo della dissuasione, o deterrenza,
propria della minaccia politica dell’uso del nucleare, sia nelle logiche
rivoluzionarie del logoramento. A questo
proposito Lenin, che aveva anch’egli
studiato Clausewitz, è noto per aver intuito che questo momento è dominato
dagli aspetti psicologici. Egli in una frase molto citata scrive “ritardare le
operazioni fino a che la disintegrazione morale del nemico rende contemporaneamente
possibile e facile assestargli il colpo decisivo”[33].
Lenin rigettava dunque la predetta logica stringente, allorquando “l’ora” in
questione si collocava in una situazione “sfavorevole per l’azione offensiva”.
E oggi ?
L’economia è divenuta di fatto una forza politica trainante, e detta
l’agenda anche ricorrendo a maniere forti (Vassilis Vassilakis, parla di
“dispotismo dell’economia”). Cambiati contesti e circostanze, si riscopre che
la guerra è un fenomeno endemico. Durata e costi degli interventi in Iraq e
Afghanistan, hanno demolito alcune certezze come la fattibilità di operazioni
militari a zero morti, on the cheap. Le guerre “irregolari”
contemporanee sono diventate complesse: asimmetriche, all’interno degli stati e
dunque civili e poliedriche con la partecipazione di molti attori e sotto lo
della giurisprudenza internazionale e dei media. Dove la sintesi e l’estetica
portano a semplificazioni, non sempre coerenti con la realtà. Peraltro, prevale
a volte l’interesse a non raccontare la vera storia, se non, addirittura,
menzogne per forzare la mano. La guerra
non é più il bellum tomistico (contra extranes hostes, inter nationes liberas,
multitudo ad multitudinem) e “trinitario”, per dirla alla van Creveld, e
presenta nuovi aspetti che mettono in
discussione la teoria clausewitziana. Da tempo, le grandi potenze, ma anche le
medie, anche a causa dell’interconnessione delle economie, sono nelle
condizioni di non potersi permettere di fare più la guerra tra di loro. Usando l’analogia
usata per i colossi bancari (troppo grande per fallire), dalla fine
della seconda Guerra Mondiale, le
grandi potenze sono oramai “troppo grandi per combattersi”. La violenza organizzata, ma sempre più
vincolata, propria delle legittime entità istituzionali annaspa di fronte alla
violenza portata dagli insorti, e, con il ricorso al terrorismo, raggiunge gli
estremi. Nel frattempo, il centro di gravità si è spostato alla popolazione, non
più blocco monolitico, nelle cui “acque”, per dirla alla Mao, nuota la
guerriglia, e che, nella ricostruzione della struttura statuale e societale, le
forze legittime cercano di portare dalla propria parte, nel quadro di quella
che viene chiamata ”la conquista dei cuori e delle menti”. Vecchi schemi di
interpretazione, soggetti alle sfide dei nuovi contesti, sono saltati o devono
essere riadattati.
Le nuove sfide
Il fire power tradizionale deve essere accompagnato dalla capacità
di restare in zona per completare l’opera, ed ecco allora il nuovo concetto
dello staying power[34]. Da usare però
quanto basta, anche perché se si è percepiti come occupanti, iniziano i
pasticci. Ma se la “mala bestia” dei conflitti sembra molto più difficile da
domare, restano, tuttavia, in piedi alcuni principi. Ad esempio, quello
tipicamente clausewitziano della distruzione
delle forze si applica selettivamente privilegiando, con un mix di forza e
dialogo, l’annichilimento della volontà di combattere delle parti
anti-governative. Difatti, nella continuità clausewitziana dei rapporti tra i
duellanti, una delle lezioni apprese nella lotta all’insurrezione armata
consiste nell’aumentare il canale di scambio con l’organizzazione politica del
movimento ostile alle forze governative. Senza poi trascurare il fatto che quello
che il generale G. Templer[35]
definiva “the shooting side of the
business” è una delle parti dell’intera impresa, forse la più difficile. Anche
perché le nuove tecniche di contro-insurrezione sono rivolte a due generi di
audience con l’intento comune di tranquillizzare: l‘opinione pubblica di casa e
la popolazione assistita. Ma servendo due padroni si rischia di rivivere la
vicenda di Arlecchino. In breve, pazienza e una combinazione di attività armata
e di negoziazione. Con le nuove dottrine, concetto quest’ultimo che merita una
riflessione a parte visto il loro
carattere non dogmatico[36],
si riscopre poi l’originale approccio italiano a questo genere di conflitti,
basato su una presenza attiva nella società del paese da sostenere. Iniziata
dal generale Franco Angioni nella crisi libanese dei primi anni 80, si è
sviluppata e perfezionata seguendo uno sviluppo dal basso (bottom up). A H. Kissinger viene attribuita l’apparente gioco di parole in base al quale ”finché le forze regolari non vincono, esse
perdono, per contro, finché la guerriglia non perde, essa vince”. Egli apre dunque la questione della
definizione di successo in questi scenari. Ho detto successo in quanto nel
confronto militare tradizionale c’è sempre stato un verdetto, ancorché a volte
sfumato. Figuriamoci nello scenario magmatico evocato da Kissinger, decisamente
diverso dal conflitto di tipo tradizionale incentrato sulla vittoria sul campo.
In breve, ancor più che nel
passato, non c’è un risultato netto in bianco e nero, di vittoria o sconfitta,
ma uno spettro di possibili risultati che non possono essere riconducibili a un
semplice e generico end-state, ripetuto come una litania.
Premessa la sconfitta militare delle forze avversarie e
dell’infrastruttura di sostegno, il modello seguito dagli USA, e, per esteso
dal sistema di Alleanze riconducibile alla politica estera di Washington, si è articolato su una serie di attività che
si snodano dal controllo dello stato e istituzioni del paese, divenuto nel
frattempo assistito, alla riforma del suo sistema politico e di governo, alla
ricostruzione dell’economia e infrastruttura, al riallineamento della politica
estera e all’impianto di una nuova relazione strategica[37].
Se da una parte gli interventi in Iraq e Afghanistan hanno sortito il successo
politico –militare dell’abbattimento dei rispettivi sistemi dispotici, le
difficoltà incontrate nel colmare il vuoto nella fregola del regime change,
il pesante tributo di vittime, le enormi risorse profuse vis à vis le
incertezze del post- presenza militare, pongono governi e opinioni pubbliche di
fronte alla domanda se ne sia valsa o no la pena di intervenire, considerando
anche gli impegni dopo il ritiro. In definitiva occorre definire una cornice
concettuale per definire la relazione di costi benefici connessi con
l’intervento militare, che sancisce, per definizione, l’elevato livello di
interesse per il paese e i conseguenti obblighi operazione durante e dopo il
disimpegno militare. In Afghanistan, dopo
i frequenti episodi di fuoco amico, a quanto risulta dalle ultime cronache, le
Forze armate di quel paese incontrano difficoltà nel frenare l’emorragia di
diserzioni, bassi tassi di reclutamento che obbligherebbero le autorità
nazionali a sostituire annualmente il 30% degli organici[38].
Senza poi trascurare il venir meno alcuni capisaldi,
come il coinvolgimento dei talebani, per cui si sta consolidando l’opzione
per approcci che contemplano un maggior
coinvolgimento afgano. Il che complica l’intero impianto della exit
strategy dell’Alleanza Atlantica.
Conclusione
Oggi, nel contesto del complesso
fenomeno della globalizzazione, sono aumentati i campi del confronto (si pensi, al malware cibernetico[39]); mentre sull’attacco armato non c’era alcun
dubbio interpretativo, oggi si richiedono pertanto nuove e chiare definizioni
su cos’é un’aggressione e se, in che misura e come si possa contrastarla
rimanendo in una cornice di legittimità. Su questa tela di fondo, van der
Dennen, definendo le linee di politica come “la continuazione della guerra con altri
mezzi[40]”,
inverte, paradossalmente, i fattori. Politica come guerra dunque anche se non
sottesa da logiche di “potenza” per dirla alla Aron (guerra dei cambi, guerre
commerciali ecc). Pace e guerra, secondo lui, non differiscono, quantomeno teoricamente, nei fini, ma nei mezzi per
conseguirli; resta però il fatto che le due formulazioni esprimono il
perdurare, in tutti i campi, di una competizione ad ampio spettro, condotta con
una vasta gamma di mezzi, violenti e non. In effetti, il consolidarsi nel tempo del sistema internazionale, delle democrazie
e delle società, tutti meno inclini alla guerra in linea con le tesi Kantiane
della pace perpetua, riprese nel 900 da B. Angell[41],
molte cose sono in meglio. Ciò grazie anche alla costante tendenza verso
sistemi più democratici, all’opera sistematica di educazione al controllo della
forza, all’affermazione degli studi nel campo delle scienze socio-politiche,
che hanno contribuito a meglio definire le interrelazioni tra le parti della
citata trilogia, e, non ultimo, alla definizione del quadro normativo in tema
di controllo democratico e direzione politica delle forze armate. Ma l’altro
lato della medaglia evidenzia che dopo i fatti dell’11 settembre 2001 e degli
anni successivi, il fenomeno dell’insurrezione su scala nazionale, ha
dimostrato che gli Stati non hanno più il monopolio della violenza organizzata.
Non è venuta meno, tuttavia, anche in ambito multilaterale, la non infrequente
interferenza politica, e non solo, su questioni di livello tecnico-gestionali,
di squisita pertinenza militare. Anche per la politica, pertanto, ci sono
momenti in cui essa deve ritirarsi. Nelle strutture organizzative stratificate,
la predetta tendenza alla verticalizzazione dall’alto in basso, viene definita
con il termine “micro management”, già presente in passato e come tale
stigmatizzato dalle icone del pensiero strategico[42].
Sfasamento politico-militare, mezze misure militari e tiepido sostegno politico,
avversione delle società a imbarcarsi e sostenere imprese di cui non si
percepisce necessità, interessi e\o posta in gioco (anche perché non sempre ben
informate o preparate, n.d.r.), nonché scarsa conoscenza delle culture \società
locali, sono all’origine di tante amare esperienze di quest’ultimo
cinquantennio. Già mezzo secolo fa Raymond Aron sosteneva che “les Europèens voudrayent sortir de histoire,
la grand Histoire qui s’écrit en lettres de sang”, che è all’origine di un
diverso approccio alla storia tra le due sponde dell’Atlantico. Non sempre si è
dato ascolto alle lezioni del passato e agli avvertimenti dei grandi del
pensiero strategico. Le cui opere, nonostante alcune diversità, riconducibili
allo spirito del tempo, mettono in evidenza una continuità di pensiero,
che ci offre un insieme armonico di regole, esperienze conoscitive e tecniche,
in cui il valore aggiunto del fattore umano è costituito dalla creatività e
flessibilità nell’interpretarle e metterle in pratica. In breve una chiarezza
intellettiva, preparazione, buon senso ed equilibrio delle persone che le hanno
avute in dote, e del sistema socio-culturale che li ha prodotti. In estrema
sintesi, l’uso, orale o scritto che sia, del linguaggio strategico ha una
diffusione generale, che precede codificazioni storiche; inoltre, lo
scrivere con giudizio e buon senso, dote che assomma le qualità del sapere e
della comunicazione, travalica le barriere dello spazio e del tempo. Alla luce
delle nuove realtà, resta tuttavia da riconcettualizzare il modello di
intervento sin qui seguito per l’assistenza ai paesi in cui si è intervenuti,
attagliandolo al fattibile e non al desiderabile.
Per concludere, il
Feldmaresciallo Bernard Montgomery[43]
riporta nel libro da lui curato un detto di Mao Tse Tung, che, a tal proposito,
sosteneva : “Tutte le leggi e le teorie militari che sono nella natura dei
principi,rappresentano l’esperienza delle guerre combattute dai popoli nel
passato o nei nostri giorni. Ne dovremmo studiare seriamente queste lezioni,
pagate col sangue che costituiscono l’eredità delle guerre passate. Questo è un
punto, ma ve n’è un altro. Noi dovremo sottoporre queste conclusioni al vaglio
della nostra esperienza , assimilare tutto ciò che è utile, respingere ciò che
è inutile e aggiungere quanto specificamente nostro. Quest’ultima cosa è molto
importante, perché, altrimenti , non potremmo
condurre la guerra. Leggendo s’impara, ma anche applicando s’impara: è
anzi la migliore maniera per imparare”.
- Mario Rino Me
[1] Henry de Jomini, Sunto sull’arte della
Guerra, Stamperia Reale Napoli 1855, pag 9. (l’edizione originale in francese
risale al 1835). L’autore, nel lamentare l’eccessiva attenzione agli apostoli
della pace perpetua, osserva, parafrasando Hegel , che la guerra non solo serve
a “innalzare o sollevare gli stati ma sibbene per garantire il corpo sociale
dalla dissoluzione”. Detto
altrimenti, il pericolo unisce.
[2] Karl von
Clausewitz, On War ,edited and translated by Michael Howardand Peter Paret,
Everyman’s Library, London , 1993,
libro I pag 57 (?)
[3] Tucidide La Guerra del Peloponneso, libro III
82,2° cura di Luciano Canfora, Einaudi-Gallimard, 1996
[4] Roberto Esposito, La Repubblica 20 Agosto
2012. L’impressione pittorica della battaglia del 1420 , vinta dai fiorentini
sui milanesi , rappresenta l’eccesso che conduce gli uomini a perder sial
culmine della loro spinta.. i cavalli partecipano allo scontro con la medesima
furia dei cavalieri con cui fanno tutt’uno, assalendosi a vicenda” in contrasto
con le leggi della natura.
[5] Karl
Von Clausewitz, On War , libro III cap 3
[6] Nella
versione in inglese “Grand Objective”
[7] Klaus
von Clausewitz, On War , Translated by Michael Howard and Peter Paret,
Everyman’s Library, pag 38
[8] Scritto circa 10 anni più tardi rispetto
all’edizione del manoscritto sulla teoria della guerra (1816-1818). Se nei
capitoli precedenti l’autore si dilungo sul legame strategia –tattica, il cap.
VIII tratta gli aspetti politico-militari, rendendolo, sotto certi punti di
vista , il più interessante. Esso si conclude con un piano di guerra che doveva
rispondere alla situazione che vedeva la Prussia presa a tenaglia tra Francia e
Russia. Situazione che diviene una costante e che troverà diverse risposte. Von
Moltke, il vecchio, raccomandava guerra difensiva ad Ovest e offensiva ad Est.
Von Schliffen, optò per il contrario, con il risultato, nel 1914 di impantanare la macchina bellica
tedesca a causa dei problemi tattici,
che non consentirono i risultati operativi e, nell’aggregato, strategici. E’
ben vero che la famosa ala destra fu alleggerita di due corpi d’armata
(contrariamente a quanto raccomandato dal suo fautore che, a quanto si racconta,
in punto di morte raccomandò l’attenzione a quel settore) Ciò in relazione alla
penetrazione in profondità dei russi nella Prussia orientale. Da rilevare
infine che fu proprio l’invasione del Belgio a far rompere gli indugi alla Gran
Bretagna che dichiarò la guerra(errore strategico dunque) , e che i due
predetti corpi d’armata non furono mai impiegati . Erano ancora nei loro treni
quando avvenne la battaglia dei Laghi Masuri e di Tannenberg
[9] In questa prospettiva , l’estrema prudenza
italiana nella condotta delle operazioni nei primi mesi successivi all’entrata
in guerra a fianco della Germania, fu sicuramente interpretata da parte
britannica come non convincente.
[10] Michael Handel, Masters Of War: Sun Tzu, Clausewitz, Jomini”, Frank Kass, London 1992,
pag. 32.
[11] Tucidide, La guerra del Peloponneso,
Edizione a cura di Luciano Canfora, Einaudi Gallimard, Parigi1996, 1-144.
[12] Karl von Clausewitz, libro II cap 5
[13] Nicolò Machiavelli, Discorsi Libro Secondo
capitolo 6 (Come i Romani procedevano nel fare la guerra), Opere a cura di
C. Vivanti, Ed Einaudi-Gallimard . A
proposito Jacopo Guicciardini scriverà “Innanzi
al 1494 erano le guerre lunghe.. Vennono e' Franzesi in Italia e introdussono
nelle guerre tanta vivezza in modo che insino al '21, perduta la campagna, era
perduto lo stato” . La blitz Krieg nasce dunque con Carlo VIII che aveva curato
la spedizione curando tutti i particolari (antesignano anche del comprehensive
approach e dello shock and awe ) http://www.italica.rai.it/scheda.php?monografia=rinascimento&scheda=rinascimento_categorie_guerra
…
[14] Karl von Clausewitz, libro VIII, cap3.
[15] Ibidem , libro primo, paragrafo 28. Nelle varie
traduzioni, appare anche come “rimarchevole”, o “paradossale trinità”.
[16] Karl von Clausewitz, libro I , La natura
della Guerra, che cos’è la Guerra.
[18] Ibidem, Libro IV, cap. 3, pag 238.
[19] Absolute war
and real war
[20] Ibidem libro primo para 28.
[21] Era partito con “l’obiettivo della Guerra in astratto ….disarmare
l’avversario” che, in un crescendo arriverà all’estremo della scala.
[22] Questo cardine dell’opera di Sun Tzu ,
sara’ ripreso nello Strategikon dell’imperatore Maurizio, opera forte anche di
contenuti etico-morali. Egli scrive “La guerra è come la caccia[dove] le prede
vengono catturate con esplorazioni , trappole , appostamenti accerchiamenti e
altri stratagemmi del genere..Il
generale… [che] studia con attenzione
l’avversario, ..é in grado guardarsi dai suoi
punti di forza..e di trarre vantaggio dalle sue debolezze..Tentare di
sconfiggere il nemico in campo aperto..corpo a corpo..significa condurre
un’impresa rischiosa e dispendiosa. A meno dicasi di assoluta necessità..é
assurdo tentare di ottenere una vittoria così a caro prezzo che porta inutile
gloria. (Strategikon Maurizio Imperatore, a cura di Giuseppe Cascarino, il
Cerchio, Rimini 2006, pag 78-79). Queste
tesi saranno riprese nell’Arte della Guerra da N. Machiavelli in questi
termini: “Meglio è vincere il nimico con la fame che col ferro, nella vittoria
del quale può molto più la fortuna che la virtù”. Si dice che questo testo fosse studiato nelle
scuole militari del 6-700 e che fosse capitato tra le mani di Napoleone. Di
certo nell’epoca romatica tutto ciò che
era riconducibile a Bisanzio non suonava bene. Eppure, grazie a una Grand
Srategy nazionale l’Imperò durò circa un millennio stabilendo un primato
[23] Basil
Liddel Hart, Strateg, Second revision, A
Meridian Book, London 1970, pag 338-340. Ironicamente aggiunge “Il fraintendimento
é il comune destino della maggioranza dei profeti e dei pensatori. A proposito,
secondo lui il tedesco è un codifying
thinker più che uno creativo o dinamico”.
[24] Karl
von Clausewitz, On War, Libro I, cap 3,
pag 117
[25] Henry de Jomini, Sunto dell’Arte della
Guerra, prima traduzione dal Francese dell’edizione di Parigi del 1838,
Stamperia dell’Iride, 1855, pag 20
[26] B. Liddel
Hart, Strategy, second revised edition, Meridian Book, London 1991 ,
pag324-328.
[27] 65 anni dopo la pace di Westphalia che
conteneva l’importante riferimento del “ad servandum in Europa Equilibrium”,
nei numerosi trattati di cui si compone la pace di Utrecht, le quattro potenze emerse dalla guerra di
successione spagnola, Francia-Gran Bretagna-Repubblica Olandese- Austria, in
una sorta di formato P4, accorpando i loro interessi a mò di un’unico fascio,
stabilirono nella sostanza che le pretese di qualunque altro stato (a partire da quelli piccoli come
la Savoia e la Prussia) dovevano sottostare alla loro approvazione in nome del
predetto equilibrio. Il che rendeva scontenta la parte spagnola. Nasceva così
il balance of power, che con il tramonto dell’Olanda e la
comparsa della Russia, rimarrà in piedi per tutta la durata della Santa
Alleanza.
[28] Memoires de Frédric Roi de Prusse, ‘Ecrites
par Lui-meme”, ed. Henri Plon 1866, pag 10.
[29] Bernard Brodie, nei suoi commentari, che lui
definisce “guida alla lettura”, all’opera Clausewitziana tradotta da Peter
Paret e Michael Howard , ne fornisce un ampio resoconto e una chiave di lettura
moderna. Anche perché i tanti
riferimenti a Federico il Grande e altri protagonisti d’antan
presuppongono una conoscenza della storia del loro tempo.
[30] “L’arte della dialettica delle volontà che
impiegano la forza per risolvere i loro conflitti”. André Beaufre, Introduction
à la Stratégie, Hachette, 1998, pag. 34.
[31] ibidem
[32] Non rivelatosi decisivo Sia perché basato su
assunti errati (accettazione USA del fait accompli) sia per averlo incentrato
sulla componente militare delle portaerei. Queste ultime al momento
dell’attacco erano in mare , per cui il raid giapponesi sortì l’affondamento e
il danneggiamento di vecchie navi da battaglia, che furono riparate o sostituite.
[33] Questa frase viene riportata da Beaufre ,
citata Vue d’ensemble de la Strategie , pag 420, e ripresa negli stessi termini
e commenti da Broodie.
[34] Alexandra de Hoop Scheffer, L’Iraq en quete de
sens, http://www.ceri-sciencespo.com/cherlist/hoopscheffer/maghreb_machrek07.pdf
[35] The
Economist, Modern Warfare, edited by Benjamin Sutherland, pag 273-276.
[36] Da considerare una guida nel dominio dell’agire,
più che una serie di regole rigide, tipo
catechismo. In breve una sorta di cornice di riferimento.
[37] William C.
Martell, Victory in War, Cambridge University Press, New York, 2007, pag
137-144.
[38] Rod Nordland,
Afghan’s Army Turnover threatens US Strategy, NYT ,Oct 15 2012
[39] Vedi A new
Kind of Warfare, Editorial ot the Times, NYT
9 Sept 2012.
[41] Bernard
Angell, The Great Illusion, 1910. L’autore, che nel suo libro “La grande Illusione “
sosteneva la futilità della guerra, non faceva tutavia previsioni sulla
scomparsa del fenomeno. Egli sosteneva che commercio e industria erano le fonti
del benessere e non lo sfruttamento di popolazioni sottomesse. L’illusione era
riconducibile agli apparenti i guadagni del colonialismo con guerre di
conquista ecc . Nel 1933 , dopo la riedizione del libro, in cui, con l’avvento
della Società delle Nazioni , introduceva la nozione di sicurezza collettiva,
fu insignito del premio Nobel. http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/1933/angell.html
[42] Von Clausewitz descrive la situazione in questi termini “ se
l’uomo di stato guarda a certe mosse e attività
militari, che sono a lui estranee, allora la politica influenzerà le operazioni al peggio”.
[43] Bernard Montgomery, Storia delle Guerre,
Rizzoli, Milano ,1970, pag. 17.
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