INTRODUZIONE
La battaglia che si combatté a Cheren nei 56 giorni dal 31 di gennaio al
27 di marzo 1941 segnò la caduta dell’effimero Impero italiano.
Fu la battaglia più importante e decisiva della guerra in Africa Orientale.
In realtà si potrebbe affermare che fu l’unica battaglia, degna di questo nome,
che si consumò su quel fronte.
Si trattava evidentemente di un fronte secondario, un territorio presente
nella propaganda nazionale, ma sostanzialmente lontano dalla Patria e dal
pensiero degli Italiani. Eppure, un esito diverso di quella battaglia avrebbe
potuto modificare,almeno inizialmente,le sorti della guerra d’Africa.
Quanti si rivolgono ai testi di storia, specie quelli di autori italiani,
troveranno ben poco su quello scontro epico. Il tutto fu congedato con un
semplice riferimento all’ultima resistenza che gli Italiani frapposero
all’avanzata inglese in quella località montuosa, alla sconfitta e alla caduta
dell’Impero.
Con riferimento a quel fronte si esalta normalmente la resistenza del
Duca d’Aosta e degli ultimi reparti italiani sull’Amba Alagi, mentre,con
riferimento al fronte d’Africa settentrionale, tutti ricordano El Alamein.
Cheren dice poco o niente ai più, eppure quella battaglia dimenticata non
solo fu probabilmente il più alto esempio del valore militare italiano durante
la seconda guerra mondiale, ma costituì uno degli scontri più duri e crudeli di
tutta la guerra.
I nostri principali avversari di allora, gli Inglesi, l’hanno sempre
ricordata con rispetto, sia per l’epicità dello scontro, sia per il valore
dimostrato dalle truppe italiane (ed ottenere il plauso militare degli Inglesi,
da parte degli Italiani, non è mai stato facile).
Ma per comprendere quello che effettivamente rappresentò Cheren è
sufficiente ricordare come fu definita proprio dai nostri nemici:
“Chi combatté su altri fronti, sa
che nulla è stato peggio di Cheren, combattimenti
sanguinosi, sgomentati e paurosi” “…Cheren
ha costituito il supremo sforzo italiano
durante la seconda guerra mondiale e le prodezze delle truppe italiane non sono
mai state sorpassate” “E’ probabile
che, nel futuro, la storia dovrà segnalare questa battaglia come una delle
decisive del mondo” “Quelli che furono lì sono unanimi nel
considerare la estrema durezza di quella lotta e alcuni sostengono che i
combattimenti a Cheren furono più selvaggi di quelli a Monte Cassino”.
Churchill, riferendo ai Comuni nei giorni della battaglia affermava “ Cheren resiste ostinatamente” e
parlando con il generale Wavell “ Sono
preoccupato degli sviluppi della battaglia di Cheren.”
Il generale Wavell replicava al premier inglese”Cheren si sta dimostrando una noce dura da schiacciare… Il nemico sta
contrattaccando ferocemente e ripetutamente e, anche se le sue perdite sono
state eccessivamente pesanti, non vi sono segni immediati di cedimenti. Gli
italiani stanno evidentemente compiendo sforzi disperati per salvare questa
posizione”.
Il maggiore inglese P.Searight dei Royal Fusiliers scrisse che “ in confronto alle battaglie della seconda guerra mondiale quella di
Cheren, dal punto di vista fisico, fu un vero inferno. Nei nove mesi che trascorsi
in Europa occidentale, quale comandante di compagnia, posso assicurare di non
aver mai trascorso giorni più duri di quelli di Cheren”.
Da parte italiana, invece, ci si è sempre soffermati poco su questo
scontro, forse perché gli eventi precipitarono o forse perché la resistenza era
stata improvvisata e i comandi superiori non vi confidarono molto se non quando
fu troppo tardi.
Ma che cosa accadde in quei 56 giorni, chi erano i difensori di Cheren e
che cosa rappresentava quel baluardo naturale?
Premesse belliche
Quale fosse lo stato di frustrazione dei militari italiani in Africa
Orientale nel giugno del 1940, all’atto dell’entrata in guerra, si rileva dalle
parole di uno degli eroi di Cheren: il Gen. Orlando Lorenzini così come è stato
riportato dalla figlia. Ritornato da un incontro con il Viceré Duca Amedeo
D’Aosta tenutosi il 9 giugno ad Addis Abeba, nel quale fu comunicata l’entrata
in guerra dell’Italia per il giorno successivo, alla richiesta della moglie,
che lo vedeva preoccupato ”Orlando,
torniamo in Italia”, rispose “Ormai è
tardi, domattina alle 5 iniziano le ostilità e noi faremo la fine del topo”.
L’Impero era completamente isolato, circondato dalle colonie inglesi da
ogni parte. I rifornimenti potevano giungere unicamente per via mare, ma il
Canale di Suez era bloccato dai Britannici.
Il 6 giugno 1940, a
quattro giorni dall’entrata in guerra, il Duca D’Aosta appuntava nel proprio
diario “ho una certa superiorità numerica
sui tre eserciti che mi possono attaccare, ma qualitativamente le nostre truppe
sono meno addestrate e armate”. Non parliamo delle forze navali: 8 sommergibili
e 8 caccia vecchi. Gli aerei sono uno scherzo: 180 di cui solo 18 nuovi.
Rifornimenti, pezzi di ricambio, carburante,munizioni bastano sì e no per sei
mesi”.
Sostanzialmente l’AOI nel giugno 1940 disponeva di 291.176 uomini, dei
quali 91.203 nazionali, 199.973 indigeni, 3.313 mitragliatrici, 5313 fucili
mitragliatori, 672.800 fucili e moschetti, 33.500 pistole, 842 cannoni ed obici
di vario calibro, 24 mitragliere antiaeree da 20 mm, 71 mortai da 81, 57 da
45, 24 carri M,39 carri L126 fra autoblindo e autocarri rinforzati, 8.271
automezzi di vario tipo. L’aviazione disponeva complessivamente di 325 aerei dei
quali 183 in
linea, 61 in
magazzino, ma efficienti 81 in riparazione.
Le truppe britanniche erano meno numerose, ma meglio armate e addestrate.
Erano ben collegate con le basi nazionali dalle quali giungevano rifornimenti.
Inoltre potevano operare per linee interne, poiché la loro presenza militare
prevaleva nel bacino orientale del Mediterraneo.
Infine potevano contare sull’appoggio dei partigiani etiopici finanziati
ed armati dagli stessi Inglesi.
Uno dei migliori e razionali comandanti italiani, il Gen. Guglielmo Nasi,
che resisterà per altri sei mesi, circondato e isolato dopo la caduta
dell’Impero, a Gondar, ricevuto da Roma l’ordine di dare inizio alle ostilità,
commentava “Non abbiamo nulla. Non siamo
preparati. Abbiamo poche armi antiquate di preda bellica della guerra 1915-18.
Non abbiamo artiglieria moderna, non abbiamo carri armati, non abbiamo
munizioni, né aviazione”.
Ma al governo di Roma e agli alti comandi militari sfuggiva il fatto che
i britannici militarmente non fossero le
truppe etiopiche. Un conto, infatti, era la guerra contro gli Abissini: male
armati e peggio addestrati, altra cosa era affrontare gli Inglesi ed i loro
alleati: truppe professionali e ben addestrate, dotate di armi moderne, appoggiate
da aviazione e marina e comandate da ufficiali esperti ed abili.
Il 4 di luglio le truppe italiane, avanzando, occupavano Gallabat quasi
senza colpo ferire. Il 12 luglio cadevano Kurmuk e il 14 Ghezan. Dovunque i britannici
si ritiravano in buon ordine, quasi senza combattere.
La sola operazione degna di nota fu la conquista di Cassala. Lo scontro fu,
in realtà, impari: 320 Sudanesi con sei carri leggeri contro 11.236 italiani (tra
nazionali e coloniali), 42 cannoni, 24 carri armati ed appoggio aereo. Alla
fine della battaglia gli Anglo-Sudanesi ebbero un morto e tre feriti e
riuscirono a ritirarsi in buon ordine. Gli italiani ebbero 2 ufficiali
uccisi 4 feriti, 54 ascari uccisi e 110
feriti.
D’altro canto quale fosse l’impreparazione tecnico-professionale dei
nostri quadri militari la si coglie nelle parole riferite dal Capo di Stato
Maggiore Claudio Trezzani al Maresciallo Badoglio ”finché si tratta di arrischiare la pelle sono ammirevoli, quando invece
occorre aprire gli occhi, ragionare, decidere a mente fredda, non ci siamo più.
In materia di esplorazione, sicurezza, presa di contatto, preparazione al
fuoco, movimento coordinato ecc. sono pressoché analfabeti”.
Intanto a metà di agosto gli Italiani avanzarono nel Somaliland. Gli
Inglesi si ritirarono.
La preda bellica fu modesta, mentre risultarono consistenti le perdite
italiane raffrontate con quelle nemiche. In ogni caso, come osservarono gli
stessi Inglesi, l’occupazione della colonia inglese, che in realtà non portava
vantaggio alcuno agli Italiani, costituiva per i Britannici, più che una
sconfitta, un colpo alla reputazione.
Ma i successi italiani ebbero breve durata.
Già nell’autunno del 1940 iniziò la controffensiva inglese. Tra la fine
del 1940 e i primi giorni di gennaio 1941 gli Italiani iniziarono il
ripiegamento .
Le nostre truppe si preparavano così ad affrontare il complesso delle
forze britanniche costituite da quattro divisioni e 65.000 uomini al comando
del Gen. Platt.
Il primo cruento scontro di rilievo avvenne ad Agordat.
Gli Inglesi attaccarono il 26 gennaio 1941. Ad attenderli i reparti della
4^ divisione al comando del Col. Orlando
Lorenzini.
Gli Inglesi godevano di nutrito appoggio aereo ed alle loro truppe si era
aggiunta la Gazelle
Force: un corpo speciale di circa 5.000 uomini, carri armati,
autoblindo, artiglieria, particolarmente mobile.
I nostri carri M e L nulla potevano contro i pesanti Matilda e Cruiser
inglesi sulle cui blindature rimbalzavano anche gli obici della nostra
artiglieria.
Due battaglioni di nostri carri furono annientati. Il 31 di gennaio le
truppe italiane ripiegarono con ingenti perdite (circa 1.260 nazionali, 14.000
coloniali, 96 cannoni, 24 carri e 20 aerei).
Nei suoi commenti il War Office si mostrò particolarmente severo con il
Gen. Lorenzini che aveva comandato le truppe italiane ad Agordat.
Successivamente anche il Gen. Carnimeo, che comanderà poi la piazza di Cheren,
ritenne che, in quella circostanza, il pur coraggioso Lorenzini non fosse riuscito a padroneggiare la
situazione. In realtà le responsabilità per la conduzione della campagna
andrebbero ricercate beni più in alto ed in particolare nelle continue incertezze del Viceré Duca D’Aosta
e degli alti comandi (i Gen.li Frusci, Tessitore
e Trezzani al primo posto).
Un inglese (A.Mockler) scrisse che “ se
i generali italiani fossero stati coraggiosi o attivi come i tenenti di
cavalleria italiani, l’avanzata inglese non sarebbe andata molto oltre”.
In realtà in quella campagna furono numerosi gli ufficiali di truppa che
si distinsero per coraggio, valore e abnegazione. Il riferimento inglese riguarda
in particolare i tenenti di cavalleria Amedeo Guillet e Renato Togni che a Cherù , al comando di un
reparto di cavalleria indigena, caricarono l’artiglieria e i carri inglesi. Si
legge ancora nella relazione del War Office sulla “Abyssinian Campaign ”Quando la batteria inglese prese posizione,
un gruppo di cavalleria indigena guidata da un ufficiale italiano su un cavallo
bianco la caricò scendendo giù dalle colline. Con eccezionale coraggio questi
uomini galopparono fino a trenta metri dai cannoni, sparando da cavallo e
scagliando bombe a mano, mentre la nostra artiglieria, voltati i pezzi di 180°,
faceva fuoco con alzo zero. Le granate rotolavano sul terreno senza esplodere;
alcune squarciavano il petto dei cavalli. Prima che quella carica pazzesca potesse
essere arrestata il Royal Regiment dovette ricorrere alle mitragliatrici” Il
Ten. Togni fu colpito mortalmente, mentre il Ten. Guillet continuò sino a sera
ad assaltare il nemico.
Quando a sera il reparto italiano si ritirò aveva perduto 448 uomini.
Le unità superstiti confluirono verso Cheren.
Il Duca D’Aosta passa in rassegna i Granatieri di Savoia –
Sotto: Alpini del Uork Amba
Carta operazioni in AOI
CHEREN
Cheren era una delle posizioni meglio difendibili dell’intero territorio
eritreo. Costituiva l’unica porta di accesso ad Asmara e al porto di Massaua.
La piccola cittadina, capoluogo del Senait, sorgeva all’interno di un
semicerchio di monti interrotto, a sud ovest, dalla gola del Dongolaas, attraversata
dalla rotabile e dalla ferrovia Agordat-Asmara, a nord dalla gola dell’Anseba.
La gola del Dongolaas era il passaggio meglio difendibile, oltre che
strategicamente più importante. Era sovrastata da undici cime alte più di 600 metri. A sud ovest si
ergeva il monte Dologorodoc, mentre a nord-ovest il massiccio del Sanchil,
collegato alla Cima Forcuta da una sella denominata quota 1616. Altre
importanti posizioni erano quelle dei monti Falestoh, Zeban e Zalale con il
valico di Aqua Col.
Dal punto di vista difensivo non erano state realizzate fortificazioni.
Le rocce, le caverne, gli anfratti dei monti diventarono essi stessi fortezza,
nidi di mitragliatrici, buche dove trovarono riparo i nostri soldati.
Già il 24 gennaio era stato dato l’ordine di partenza all’11° Reggimento
Granatieri di Savoia, al comando del Col. Corsi con due battaglioni Granatieri,
un battaglione bersaglieri e una compagnia mortai.
I soldati italiani inviati a Cheren viaggiarono costantemente attaccati
dall’aviazione inglese, mentre i reparti in ritirata da Agordat furono continuamente
inseguiti dalle forze britanniche. Molti dei nostri soldati ripiegarono verso
l’altipiano senza’acqua e senza viveri, costantemente tormentati dagli attacchi
aerei britannici.
Giunti sul fiume Barca gli Italiani minarono il ponte Mussolini e disseminarono
il letto sabbioso del fiume di mine.
I danni al ponte costrinsero gli Inglesi a ritardare l’inseguimento e la
loro avanzata verso Cheren di circa otto ore che si dimostrarono determinanti.
Si legge nella relazione di un ufficiale inglese (J.Barker) “Ci vollero otto ore per rendere guadabile il
letto del Barca e fu a causa di quelle ore di indugio che le truppe britanniche
dovettero poi sostenere la battaglia di Cheren”.
Ma vi è di più: bisognava interrompere la strada che dalle pendici del
monte Dologorodòc, all’imbocco della valle del Dòngolass, si arrampicava sui
monti di Cheren.
Il Col. del Genio Gabrielli diede l’ordine di far brillare le mine.
L’ordine fu eseguito, ma la miccia, deteriorata, si spense in continuazione. Fu
allora che un giovane ufficiale del genio, il Ten. Ungaro, si avvicinò alle
micce e le accese con un mozzicone di sigaretta . Rimase a guardare sino a
quando fu certo che le micce non si sarebbero più spente, poi corse via, ma era
troppo tardi. Investito dall’esplosione fu sbalzato in aria. Quando riprese
conoscenza nell’ospedale da campo, braccia, gambe e costole frantumate, chiese
“Fatto?” “Fatto” gli fu risposto. “Meglio
così…”.
Quale fosse l’impressione che ebbero gli Inglesi quando giunsero di
fronte a Cheren dopo essere riusciti a penetrare in Eritrea per 320 Km in appena 15 giorni,
lo si rileva dalla loro relazione(“The Abyssinian Campaigns) ”Cheren si ergeva come un grande mastio
medievale, il cui ponte levatoio fosse stato alzato e le grate abbassate
all’ultimo momento, quando il nemico ormai vittorioso giunge in vista degli
spalti. Le mura della fortezza erano guardate dai Granatieri di Savoia appena
giunti…”
In quel momento a Cheren, oltre all’11° reggimento Granatieri di Savoia
del Col. Corso Corsi, erano presenti: l’XI^ brigata ed il III° gruppo squadroni
di cavalleria coloniale, il IV° gruppo di cavalleria coloniale ,il CIV° gruppo autotrasportato di
artiglieria con pezzi da 77/28, la V brigata ed il V gruppo di artiglieria
della 1^ divisione coloniale al cui comandante, il Gen. Nicola Carnimeo, venne
assegnato il comando della piazza, una compagnia del Genio, i reparti
superstiti della IV divisione coloniale giunti da Agordat. Tra il 7 e il 13
febbraio 1941 giungeranno come rinforzi il battaglione Alpini Uork Amba
inquadrato nel 10° Reggimento Granatieri di Savoia, la I^ brigata coloniale, la V^ brigata coloniale, la XLIV^ brigata coloniale, il
II° battaglione di cavalleria coloniale, il I° battaglione del 60° reggimento
di artiglieria da campagna,il XXXVI° battaglione di artiglieria, il CII
battaglione di artiglieria, il VI, l’XI e il XII battaglione di artiglieria
coloniale. Ancora, tra il 14 febbraio ed
il 14 marzo 1941 le truppe italiane furono rinforzate dall’11^ legione camicie
nere,dal XLIV battaglione camicie nere, dal 1 battaglione mitraglieri
inquadrato nel 10°Reggimento Ganatieri di Savoia,dalla VI^ e dalla XII^ brigata
coloniale, dal IV, dal CIII e dal XXII battaglione di artiglieria nazionale.
Infine tra il1 5 marzo ed il 27 marzo 1941 giunsero ad ulteriore rinforzo il CL
ed il CLXX battaglione di camicie nere e la XLI, la
LXI e la XVI
brigata coloniale.
Solo dopo il 27 di marzo, quando ormai il fronte si sarà spostato su Ad
Teclesan sarà inviato il 10° Reggimento
Granatieri di Savoia del Col. Borghese, che sarà ucciso nel corso di uno dei
primi assalti.
Cheren:cavalleria coloniale italiana “Penne di falco”
Di fronte gli Italiani si trovarono ad affrontare circa 51.000 uomini tra forze britanniche ,
indiane, francesi della Legione Straniera. In particolare la 4^ divisione
anglo-indiana reduce dalla vittoria di Agordat, costituita da due brigate
indiane (la V e la VII) ,un battaglione scozzese,
reparti di carri e artiglieria motorizzata e la Gazelle Force. Nei giorni
successivi sarebbero poi confluiti aiuti della 5^ divisione, del Sudan Defence
Force e ulteriori battaglioni sudanesi. Contrariamente agli Italiani, poi, i
britannici si avvantaggiavano di una forte copertura aerea, avendo
sostanzialmente il dominio dei cieli nel corso della battaglia.
Durante le settimane della battaglia i Britannici misero in campo i loro migliori reggimenti . In particolare
la 4^ divisione anglo-indiana, con i suoi battaglioni rajputana,i Fucilieri
Reali, il 3° battaglione indiano Punjab, il reggimento Sussex, il 4°
battaglione di Sikh,il 4° battaglione Punjab, il 2° battaglione scozzese dei
Camerons,il 2° battaglione Maharatta della fanteria Punjab.
Si trattava di truppe di antica
tradizione, comandate dai migliori quadri ufficiali dell’esercito britannico. Il
Royal Fusiliers, ad esempio, veniva considerato
il reggimento di Londra. Il loro quartier generale,sin dalla costituzione del
reggimento, si trova nella Torre di Londra, dove è ubicato anche il loro museo
ed era formato interamente da cockneys,
uomini nati nel cuore della capitale inglese. Il Sussex Royal, formato da
Irlandesi che portavano una piccola piuma bianca sull’elmetto. Il Queen Own
Cameron Highlanders, reggimento di montanari scozzesi ,con oltre due secoli di
storia. Il reggimento Worcestershire .