Gen.
Albania. Dalla caduta del Fascismo al Comando Italiano
truppe alla Montagna. Il caso Pistoia.
L’Albania fu annessa al Regno
d’Italia il 12 aprile 1939. Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, Imperatore
d’Etiopia, era anche Re d’Albania. Governava questo suo regno tramite un
Luogotenente ed il Luogotenente risiedeva a Tirana. L’Albania rapidamente fu
dotata di un apparato statale ad immagine e somiglianza di quello italiano ed
in breve si può die che il Governo di allora, con il suo capo, Benito
Mussolini, aspirava a dimostrare che l’Albania era, o tendeva ad essere il
nuovo modello di Stato che il fascismo, sia come movimento che come regime,
presentava all’Europa, alla nuova Europa che si andava costituendo.
Fino all’ottobre 1940 gli
Albanesi, sia come classe dirigente che come popolo, mostrarono una
adesione ed un consenso straordinario al
fascismo ed all’Italia: per la prima volta nella loro storia recente erano, o
si sentivano, partecipi della storia d’Europa. Nei loro calcoli era chiaro che,
per un po’ di indipendenza avevano trovato un patner che poteva non solo
sviluppare economicamente l’Albania, ma poteva appoggiarla nelle sue
aspirazioni, sia culturali, sia economiche, sia politiche. Il movimento nazionalista
albanese non faceva mistero, grazie all’Italia, di pensare che si potevano
annettere tutte quelle regioni, abitate da albanesi, che erano fuori dai
confini dell’Albania (del 1939). Si voleva annettere il Kosovo, parte della
Macedonia nella regione intorno a Monastir e Tetovo e soprattutto la Ciamuria
greca. In pratica si desiderava la realizzazione della grande Albania. Il
consenso, quindi, era basato sul fatto che si considerava l’Italia una delle
potenze europee e mondiali, in grado di assecondare e sostenere le mire del
nazionalismo albanese.
Questo consenso venne meno e
molte simpatie si impallidirono con la campagna di Grecia . Dichiarata il 28
ottobre 1940 la guerra alla Grecia, ben presto gli Albanesi toccarono con mano
che L’Italia, come potenza militare non era di primo ordine. In breve la guerra
non solo non portava all’Albania la Ciamuria, ma era così disastrosa che veniva
combattuta , mercè la controffensiva greca, nel territorio albanese.
Significativo al riguardo l’alto numero di diserzioni di soldati albanesi nei
giorni di novembre e dicembre 1941, oltre alla pessima prova data dalle unità
albanesi inserite nello schieramento italiano. Anche da parte italiana si
prendeva atto che sugli albanesi non ci si poteva fare conto.
La conclusione della campagna
di Grecia, nell’aprile 1941, non rialza, agli occhi degli albanesi,il prestigio
italiano. Si constata e si crede che la vittoria è frutto dell’intervento
tedesco, e la Germania è vista sempre più come la potenza leader dell’Asse. Ed
è ad essa che ci si deve rivolgere per
avere vantaggi e sostegni per i propri progetti. Nel momento in cui il Kosovo
viene annesso all’Albania, cioè al Regno d’Albania e quindi all’Italia, nella
fase della spartizione della Jugoslavia, i maggiorenti albanesi concludono che
questo è solo grazie ai buoni uffici della Germania. E’ la Germania padrona
della situazione, come risulta evidente dal fatto che la Ciamuria, per il
possesso della quale l’Italia, almeno nella propaganda, aveva attaccato la
Grecia, rimane alla Grecia, cioè sotto amministrazione militare tedesca.
Dal
Come ha già brillantemente
illustrato il gen. Marsibilio nella sua relazione, in Albania ha sede il
Comando Gruppo Armate Est, retto dal generale Rosi, che ha alle dipendenze la
9a Armata, composta dal XXV Corpo d’Armata, stanziano nel centro-nord
dell’Albania, dal IV Corpo d’Armata, stanziano nel su sul confine greco, e dal
XIV Corpo d’Armata, stanziato in Montenegro, regione questa che era integrante,
militarmente, dell’Albania.
Alla notizia della caduta del
fascismo tutta l’impalcatura creata dal Fascismo crolla e rimane solo la
struttura militare, imperniata sul Comando gruppo Armate Est.
I 45 giorni del governo
Badoglio vengono vissuti in Albania nella più completa incertezza, tutti in
attesa, in un futuro sempre più indecifrabile, degli eventi.
Questi precipitano quanto, in
modo imprevisto ed inatteso l’annuncio della firma dell’Armistizio tra l’Italia
e le Potenze Alleate raggiunse Tirana e l’Albania la sera dell’8 settembre, via
Radio Roma.
Il Comando Gruppo Armate Est,
ed il suo comandante gen. Rosi, uscirono subito di scena in quanto un ordine di
SuperEsercito lo sciolse proprio la sera dell’8 settembre. Rimase attivo per un
paio di giorni il Comando della 9a Armata, al comando del gen. Dalmazzo. I
tedeschi, con opera sopraffina di lusinghe ed inganno in breve i resero padroni
di tutti i punti di comando nodali e già l’11 mattina si poteva dire che il
Comando dell’Armata era esautorato. I Tedeschi imposero al gen. Dalmazzo la
diramazione di ordini che, nel giro di pochi giorni, disarticolò tutto il
dispositivo militare italiano. Vari reparti, ed unità addirittura si misero in
marcia, su ordine, per raggiungere le stazioni ferroviarie in Bulgaria, con la
promessa di essere rimpatriati; in realtà furono tutti internati in Germania e
nei campi di concentramento tedeschi in Polonia.
Delle sei divisioni presenti
sul territorio, la “Puglie”, l “Arezzo”, la “Firenze”, la “Parma”, la
“Perugia”, e la “Brennero” tutte, tranne la “Perugia” ed in parte la “Firenze”
persero in poche ore la loro capacità operativa.
La “Puglie” che controllava
il Kosovo, composta dal 65% da albanesi, si disarticolò per la diserzione in
massa dell’elemento albanese, che uccise anche molti ufficiali italiani e passa
in blocco ai Tedeschi. “L’Arezzo”, che controlla il Corciano, sarà quasi tutta
catturata dopo l’armistizio ed avviata ai campi di concentramento tedeschi. La
“Firenze”, stanziata nel Dibrano si mette in marcia verso il mare con l’intento
di raggiungere i porti ed imbarcarsi; si scontra con i Tedeschi a Kruja il
22-23 settembre 1943 ed impossibilitata a proseguire, raggiunge le forze
partigiane in montagna. Il suo comandante, gen. Azzi, prenderà il comando del
Comando Italiano truppe alla Montagna, costituito il 14 settembre dal Ten. Col.
Barbi Cinti, a Peza, mentre il suo vice, Gen. Gino Piccini, organizzerà lo
Stato Maggiore. Piccini rimarrà in Albania in uniforme ed armato fino al 16
agosto 1945, data del suo rimpatrio, unica autorità militare riconosciuta dopo
il rimpatrio del gen. Azzi. Le vicende della “Firenze” sono le vicende dei
soldati toscani e pistoiesi in Albania, essendo questa divisione di prevalente
reclutamento dell’Alta toscana, vicende che qui non si ha spazio di narrare.[1]
La “Parma” che doveva
proteggere Valona si disintegra in 48 ore in virtù dell’azione tedesca, mentre
la “Brennero”, valente unità motorizzata, sarà dai tedeschi, dopo varie
vicissitudini rimpatriata, prima a Trieste, poi a Venezia nella speranza di
poterla incorporare nelle proprie fila. Molti soldati della “Brennero” giunti
in Italia o si daranno alla macchia o saranno inviati in Germania. La “Perugia”
controllava la zona sud dell’Albania e la sua vicenda presenta molti
interrogativi. Raggiunta da Argirocastro dopo una marcia tra difficoltà di ogni
sorta, l’area ed il Porto di santi Quaranta, o Porto Edda come si chiamava
allora, riesce a prendere posizione e ad attestarsi a difesa. Sono oltre 10.000
uomini in armi in grado di fronteggiare ogni minaccia tedesca. Riesce a
prendere contatto sia con i Comandi a Cefalonia sia con il Comando Supremo a
Brindisi; manda anche un suo Ufficiale che aggiorna le autorità italiane della
situazione nel sud dell’Albania. Questo ufficiale rientrerà in Albania con
radio, codici di trasmissione ed ordini. E sarà fucilato per primo dai Tedeschi
al momento della cattura. La Divisione riesce ad organizzare trasporti da Santi
Quaranta a Brindisi – Otranto ogni notte tanto che oltre 8000 soldati, per lo
più feriti ed ammalati, rientrano in patria. Il 26 ottobre, caduta Cefalonia e
Corfù, la “Perugia” respinge un attacco tedesco, ed in armi, con tutti i suoi
uomini, tiene le posizioni. Un altro attacco viene respinto il 30 settembre.
Poi arriva l’ordine di evacuare Santi Quaranta e portarsi a nord, a Porto
Palermo con vaghe promesse di reimbarco. L’opposizione degli Alleati che non
fanno uscire le navi italiane dai porti della Puglia condannano la “Perugia” ad
essere catturata ed annientata. Parte dei suoi uomini si danno alla montagna,
il resto viene catturato. I Tedeschi non hanno il coraggio di fare quello che
hanno fatto criminalmente a Cefalonia, con la “Acqui”. Con la “Perugia”, che
era rimasta in armi fino al 3 ottobre 1943, al oltre un mese dalla proclamazione
dell’Armistizio, si limitano, in modo incoerente, a fucilare solo gli
Ufficiali, inviato in campo di concentramento sottufficiali e truppa.
Da questi eventi nasce il
Comando Italiano Truppe alla Montagna C.I.T.a.M, costituito, come detto, il 14
settembre 1943, a soli sei giorni dalla proclamazione dell’armistizio, da parte
del Ten. Col. Barbi Cinti, comandante dell’aeroporto di Schijk, vicino Tirana.
Salito a Peza con tutti i suoi uomini stipula un accordo con i comandanti
dell’E.L.N.A. in cui si definisce l’architettura di questo Comando, che deve
raccogliere, in modo autonomo e secondo le leggi ed i regolamenti italiani,
tutti i militari italiani che decidono di opporsi ai tedeschi. A fine settembre raggiunge Peza il gen. Azzi,
come detto, che ne assume, essendo l’ufficiale più alto in grado, il comando.
Il C.I.T.a.M si articola in
un Comando, uno Stato Maggiore, tre battaglioni operativi; l’Albania viene
divisa in 10 Comandi Zone; in ogni zona viene inviato un ufficiale affinchè
raccolga notizie sul numero, consistenza ed armamento dei militari ivi presenti
e come si sono organizzati.
A fine ottobre, quando ormai
si può dire che gli eventi armistiziali volsero al termine, dei 130.000 soldati
italiani in Albania presenti l’8 settembre, circa 75.000 furono catturati dai
tedeschi ed avviati nei campi di concentramento tedeschi, 6/8 mila rimasero
fedeli alla vecchia alleanza a furono incorporati nelle unità ausiliare
tedesche; 8/10 mila riuscirono a rientrare in Italia, grazie all’azione della
Divisione “Perugia” che tenne i collegamenti fino alla caduta di Cefalonia;
circa 20.000 rimasero in Albania, nascosti all’azione tedesca; 5000 mila
salirono in Montagna per combattere i tedeschi, entrando nelle fila del Comando
Italiano Truppe alla Montagna.
Proprio questa consistenza
uomini armati in montagna, un reale pericolo per la presenza tedesca in
Albania, costrinse il Comando tedesco ad organizzare offensive che si
svilupparono per tutto novembre, dicembre 1943 e gennaio 1944 che mise a dura
prova la tenuta del Comando Italiano Truppe alla Montagna.
Il reale significato di
quanto detto, sta nel fatto che, all’indomani della crisi armistiziale, la
reazione dei soldati italiani in Albania, fu si sorpresa e di iniziale resa
verso i Tedeschi, ma nella sostanza opposero una reazione alle truppe tedesche
e diedero vita ad una struttura solida che diede consistenza all’Esercito di
Liberazione Nazionale Albanese (E.L.N.A.) e lo pose in grado di fronteggiare e
contrastare la occupazione tedesca dell’Albania
Una
ricostruzione dettagliata delle forze che andarono a formare il Comando
Italiano truppe alla Montagna è stata possibile grazie alle minute relazioni
che sono state raccolte interpellando i reduci nel periodo 1989-1996.
Attraverso queste relazioni, soprattutto i Diari Storici delle unità
l’articolazione del C.I.T.a.M ha avuto una precisa fisionomia che permette di
dire che oltre 5000 soldati italiani,
armati, erano contro i Tedeschi in Albania, a fronte di 200-400 soldati armati
dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese del settembre-ottobre 1943.
Una
sperequazione evidente, che non poco preoccupò il gruppo dirigente albanese
alla montagna che vi vedeva il pericolo che la lotta al tedesco sarebbe stata
condotta dagli Italiani, con prevedibili conseguenze soprattutto politiche
all’indomani della liberazione. Qui interessa sottolineare il fatto che
le Unità italiane in Albania, pur con percorsi diversi, riuscirono a formare
reparti alla montagna in grado di condurre una guerra di liberazione e
contrastare la presenza dei tedeschi e dei loro alleati collaborazionisti
albanesi, in modo paritetico con le Unità dell’E.L.N.A..
In
Albania vi erano circa 130.000 militari italiani, inquadrati nella 9ᵃ armata,
composta da due corpi d’armata, più un settore di livello divisionale e comandi
minori. Nella relazione dell’anno scorso si è precisato che circa 75.000 furono
catturati dai Tedeschi ed avviati ai campi di concentramento in Germania e
soprattutto in Polonia,6/8 rimasero fedeli alla vecchia alleanza, 8/10 mila riuscirono
a rientrare in Italia, attraverso i porti pugliesi, circa 20.000 rimasero in
Albania, nascondendosi ai Tedeschi ed ai loro collaborazionisti, e circa 5000
salirono in montagna, di cui, come vedremo, solo 3000 poterono essere impiegati
come combattenti per via della incapacità logistica albanese a sostenere un
numero maggiore di combattenti.
L’oggetto
di questa relazione intende esaminare quest’ultima tipologia di militari e
nello specifico coloro che furono inquadrati in un’organizzazione regolare sotto
egida completamente italianail Comando Italiano Truppe alla Montagna,
C.I.T.A.M. Tale struttura si formò già il 15 settembre ad Arbana, per
iniziativa del tenente colonnello pilota Mario Barbi Cinti, già comandante
dell’aeroporto di Scijak e del 38° stormo da bombardamento. La figura di Barbi
Cinti è stata negli anni oggetto di varie interpretazioni,[2]
anche se non è possibile distaccarsi dal concetto che egli fu il primo che per
lungimiranza e coraggio seguì l’inevitabile corso delle Regie Forze Armate.
Seguendo alla lettera i vaghi ordini di Badoglio e Ambrosio, riuscì insomma non
solo a portare in salvo il suo reparto, ma lo fece anche in maniera ordinata e
spendibile per il futuro.
In
questo modo si formò il Comando Italiano delle Truppe alla Montagna
(C.I.T.a.M.), derivante in tutto e per tutto dall’autorità del Comando Supremo
italiano. Vale la pena quindi ribadire che nello spirito della sottoscrizione
dell’accordo, Barbi Cinti s’impegnava – come rappresentante di Vittorio
Emanuele III, Badoglio e Ambrosio – all’adesione “antifascista” e antitedesca
delle residuali forze militari italiane. Seguendo tale spirito istituzionale
l’accordo di Arbana del 15 settembre dispose: il ripristino per i militari
italiani del Codice Militare di guerra; la cessazione da parte dei partigiani
d’ogni attività propagandistica a carattere politico nelle file degli italiani;
la facoltà di Barbi Cinti di rimettere il Comando assunto nelle mani
dell’ufficiale superiore di grado che in seguito si fosse dato alla montagna e che
fosse riconosciuto idoneo all’incarico.
Con
questi presupposti l’accordo ricostituiva un comando unico e univoco italiano,
da porre a servizio della lotta comune senza pregiudizio alcuno tra le forze
componenti lo sforzo militare antitedesco. Nacque così un formale e sostanziale
patto di reciproco riconoscimento tra italiani, albanesi e Alleati, che ridava
– anche oltremare – effettività all’ordinamento militare delle Regie Forze
Armate. L’essenza di tale accordo era la volontà di Barbi Cinti di mantenere in
piedi l’ordinamento militare italiano e quella albanese di riconoscerlo.
L’intesa prevedeva pure l’onere delle strutture partigiane di procurare i
rifornimenti, mentre per gli italiani quello di predisporre l’intelaiatura
organizzativa.
A
quel punto il pomeriggio dello stesso giorno Barbi Cinti radunò i circa 300
militari, che lo avevano seguito, esponendo loro i termini dell’accordo
sottoscritto. L’adunata si sciolse al grido di «Viva il Re! Viva l’Italia!».
L’opera di proselitismo da parte di Barbi Cinti e dei suoi stretti
collaboratori fu intensa e articolata; infatti il numero di 300 crebbe
progressivamente con l’annuncio ufficiale della costituzione del Comando.
L’appello “alla montagna” venne infatti fatto circolare per tutta l’Albania e
affisso nelle principali città.
Intanto
il giorno 17 si costituì il I battaglione “Truppe italiane alla montagna” e il
26 iniziò l’addestramento verso azioni di guerra partigiana, unica possibile in
quel contesto ambientale. L’ulteriore tappa di questo percorso vi fu il giorno
28. Arrivato in montagna il generale Arnaldo Azzi (già comandante della
divisione Firenze), questi successe
nel comando a Barbi Cinti. Fu così che il C.I.T.a.M. divenne la massima
autorità italiana in Albania, l’unica che in qualche modo voleva e poteva
ereditare quanto di sopravvissuto ai precedenti comandi Gruppo armate Est e 9ᵃ
armata.
Questi
ultimi ne erano consapevoli; per questo tra l’ottobre 1943 e il gennaio 1944
lanciarono contro i militari italiani alla montagna e i partigiani albanesi ben
cinque offensive, volte a distruggere ogni forma di ribellismo e di
opposizione, giudicate di per sé una seria minaccia. Il comando germanico
comprese quindi subito che tutti i militari italiani, che non erano riusciti a
internare o arruolare subito, sarebbero divenuti prima o poi possibili
avversari in armi. Di conseguenza l’atteggiamento verso i vecchi alleati fu
sempre risoluto e duro, proprio per impedire di doversi pentire un domani della
propria clemenza.
In
buona sostanza l’accordo del 15 settembre, confermato poi da Azzi il 29,
diveniva il presupposto necessario affinché gli italiani offrissero le
competenze tecniche della guerra convenzionale; allo stesso tempo gli albanesi
avrebbero contribuito alla condivisione con la logica della guerriglia. Per
meglio coordinarsi lo stesso generale predispose poi una capillare rete di
ufficiali di collegamento, atta a rendere pienamente sinergica e sincera la
lotta comune. Intanto nel ribadire il precedente proclama di Barbi Cinti, Azzi
allargò a tutti gli italiani (militari e civili) ancora presenti in territorio
albanese l’esortazione ad aderire all’unica lotta possibile, ossia quella
contro i tedeschi. Ognuno per proprio conto, in armi o attraverso il lavoro
civile, avrebbe contribuito alla vittoria contro l’ex alleato.
A
seguito di ciò, per ragioni di sicurezza il 1° ottobre il Comando si trasferì
ad Alta Tai. Intanto altra impellenza per Azzi fu quella di creare un solido
collegamento con il Governo italiano. Tramite il maggiore Seymour venne pertanto
fatto pervenire in Italia il messaggio che circa 20.000 soldati connazionali
erano ancora in Albania e che non avevano accettato le condizioni di resa o di
collaborazione con i tedeschi. Il problema principale era tuttavia che i 20.000
non erano tutti disponibili o impiegabili. Tolti quelli che si erano
indirizzati a un impegno civile (necessario tra l’altro al supporto
agricolo-alimentare dei combattenti), vi fu poi una parte dei combattenti
italiani, che – per disaffezione o per sino ad allora repressa coscienza
politica – decisero di aderire alla lotta comune direttamente inquadrati in
formazioni partigiane. Questo fenomeno fu in buona sostanza la versione
balcanica di quella grande dicotomia regolari-volontari, che in modo molto più
“problematica” si sarebbe evidenziata in Patria tra Forze Armate cobelligeranti
e formazioni partigiane.
A
questo punto, completati ulteriormente i presupposti politico-militari della
formazione del C.I.T.a.M., si può riportare l’organigramma, a noi pervenutoci,
del medesimo Comando per il mese di ottobre 1943:
Composizione
del Comando Italiano Truppe alla Montagna
29 settembre 1943
Comandante: generale Arnaldo Azzi
Capo di Stato Maggiore: tenente colonnello Goffredo Zignani
Ufficiale di collegamento con la
Missione Militare Britannica: tenente
colonnello Mario Barbi Cinti
Sottocapo di Stato Maggiore: maggiore Ernesto Chiarizia
Alle
dipendenze di detto Comando si ordinarono i seguenti nove comandi militari di
zona, affiancati ai corrispondenti Comandi partigiani di zona: Peza, Dajti,
Berat Dibra, Elbasan, Valona, Mati, Corcia, Argirocastro. Tali comandi erano
retti da un ufficiale superiore, il quale aveva alle dipendenze, sia
disciplinari che d’impiego, reparti non superiori alla forza di un battaglione,
dislocato nella zona militare di competenza. Per la deficienza di armi pesanti
e mezzi speciali, tutti i militari italiani (indipendentemente da qualunque
arma o servizio fossero appartenuti in precedenza) divennero, in questo
inquadramento, dei fanti.
Quasi
subito Zignani chiese espressamente di assumere il comando del III battaglione
italiano. La sua richiesta venne accolta il 3 ottobre. A seguito di questo
movimento il colonnello Ferdinando Raucci assunse il comando militare italiano
della zona di Peza e Chiarizia sostituì Zignani nell’incarico di capo di Stato
Maggiore del C.I.T.a.M.
Alla
metà di ottobre 1943, il C.I.T.a.M. aveva alle proprie dipendenze 13
battaglioni, individuati nelle precedenti nove zone elencate. Vennero pertanto
inviati degli ufficiali inferiori per verificare la consistenza delle forze sul
territorio. Gli ufficiali furono: capitano Kiss per la zona di Dibra, il
tenente De Quattro per la zona del Dajti, il tenente Permartini per la zona del
Mati, il tenente Bondi per la zona di Elbasan, il tenente Marsili per la zona
di Berat, il tenente Guarnieri per la zona di Corcia, il tenente Mazzaglio per
la zona di Argirocastro, il tenente De Dottori per la zona di Valona.
Questa
fu la situazione che – tramite i loro resoconti – arrivò ad Azzi e quindi a
noi:
Zona militare di Peza (al 17 ottobre
1943)
Comandante
truppe italiane: colonnello Fernando Raucci
Comandante
dei partigiani albanesi: Myslym
Reparti
italiani armati
Alle
dirette dipendenze:
1)
Un
battaglione di circa 300 uomini al comandi del tenente colonnello Zignani,
costituito da elementi di varia provenienza;
2)
Battaglione
“Morelli”: circa 750 uomini;
3)
Battaglione
“Mosconi”: circa 450 uomini;
4)
Reparto
di 43 uomini e 26 quadrupedi al comando del colonnello Coviello per servizi
vari nella zona dei forni della base d’Arbana;
Presso
la III brigata partigiana albanese:
1)
Un
reparto di circa 40 uomini della divisione Arezzo,
armati con due fucili mitragliatori, due mortai da 81, due fuciloni anticarro e
11 quadrupedi;
2)
5ᵃ
batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze
al comando del capitano Giannoni su due pezzi con 5 ufficiali, 78 sottufficiali
e truppa, 48 quadrupedi;
3)
Un
nucleo costituito da un subalterno e 11 militari con un pezzo da 47/32 e 7
quadrupedi.
In
totale armati: alle dirette dipendenze 2.370 circa; presso la III brigata 135
uomini circa. Uomini disarmati: imprecisato
Zona militare di Dajti (17 ottobre
1943)
Comandante
delle truppe italiane: maggiore Martino
Comandante
dei partigiani albanesi: non noto
Reparti
italiani armati
1)
I
battaglione del 127° reggimento fanteria Firenze
con 31 ufficiali, 378 sottufficiali e truppa e 40 quadrupedi. Armamento: 62
pistole, 356 fucili, 1.050 bombe a mano, 18 fucili mitragliatori, una
mitragliatrice;
2)
Batteria
d’accompagnamento 127° reggimento fanteria Firenze
con 4 ufficiali, 65 sottufficiali e truppa e 10 quadrupedi. Armamento: batteria
senza pezzi; 7 pistole, 83 fucili, 82 bombe a mano;
3)
Reparto
misto composto dal reparto Comando del 41° reggimento artiglieria con elementi
del 510° battaglione mitraglieri G.a.F., con 7 ufficiali, 71 sottufficiali e
truppa, 14 quadrupedi. Armamento: 2 pistole, 134 fucili, 1 fucile
mitragliatore.
In totale: uomini armati: 42 ufficiali, 514
sottufficiali e truppa; uomini disarmati: non ne risultano.
Zona
militare di Berat (22 ottobre 1943)
Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello
Antonio Curti
Comandante dei partigiani albanesi: Mestan Ujaniku
Reparti italiani armati
1)
Battaglione
di formazione, composto dal XIII raggruppamento G.a.F. di 150 uomini;
2)
Compagnia
autonoma composta dalla 1525 batteria “Breda” da 20 m/m mod. 35 con 120 uomini
al comando del capitano Pietro Conte;
3)
Un
battaglione di formazione di 150 uomini.
Il totale dei militari armati era di circa 420 uomini.
Il totale dei militari disarmato, grosso modo, era il reggimento Cavalleggeri del Monferrato.
Zona
militare di Dibra (13 ottobre 1943)
Comandante delle truppe italiane: generale Gino
Piccini
Comandante dei partigiani albanesi: Haxli Lleshi.
Reparti italiani armati
1)
Un
reparto di formazione di circa 40 uomini al comando del sottotenente Frasce
della divisione Brennero.
Totale uomini: armati 40, disarmati circa 1.250
dislocati per lavori nel triangolo Peshkopia-Zerqan-Dibra.
Zona
militare di Elbasan (16 ottobre 1943)
Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello
Achille Rossito
Comandante partigiano albanese: non noto
Reparti italiani armati
Alle dirette dipendenze:
1)
Un
battaglione di formazione di circa 350 uomini per la quasi totalità provenienti
dalla divisione Arezzo;
2)
Una
compagnia di formazione di 150 carabinieri in parte provenienti dalla colonna
Gamucci.
Presso la I brigata partigiana (comandante Mehmet
Shehu, base a Labinoti):
1)
6ᵃ
batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze
(su due pezzi);
2)
9ᵃ
batteria del 41° reggimento artiglieria Firenze
(su due pezzi);
3)
Una
formazione di 130 militari italiani passati a loro richiesta a reparti italiani
(battaglione “Gramsci”);
4)
Un
reparto salmerie di 100 uomini e 100 quadrupedi forniti dal 127° reggimento
fanteria e dal 41° reggimento artiglieria.
Presso la II brigata partigiani albanesi:
1)
7ᵃ
batteria del 41° reggimento artiglieria in via di costituzione.
Totale uomini: armati, alle dirette dipendenze 500;
disarmati circa 1.200 ripartiti fra Shëngjergj, Orenje e Labinoti, 750
provenienti dalla colonna Gamucci e 500 dalla colonna Brignani provenienti da
Dibra.
Zona militare
di Valona (18 ottobre 1943)
Comandante delle truppe italiane: tenente colonnello
Saraceno
Comandante dei partigiani albanesi: Islam Radovicka
Reparti italiani armati: nessuno
Il totale dei militari italiani disarmati risultanti
al tenente De Dettori era circa 20 ufficiali e 1.500 uomini.
Zona
militare di Mati (16 ottobre 1943)
Comandante dei partigiani albanesi: non noto
Comandante italiano: non specificato
Totale uomini armati: non risultavano
Totale uomini disarmati: circa 300
Zona
militare di Corcia (22 ottobre 1943)
Comandante delle truppe italiane: non noto
Comandante dei partigiani albanesi: non noto
Reparti italiani armati: situazione non nota
Zona
militare di Argirocastro (22 ottobre 1943)
Comandante truppe italiane: non noto
Comandante partigiano albanese: non noto
Questa
la situazione militare ad ottobre 1943, con il Comando Italiano Truppe alla
Montagna in gradi di poter svolgere azioni di una certa importanza contro le
forze tedesche e collaborazioniste che occupavano l’Albania.[3]
Pistoia 8 novembre
2014
[1] Per la
Divisione “Firenze” vds. Massimo Coltrinari,L’”8
Settembre” in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori ed eroismo.
8 settembre-7 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova
Cultura, pagine 265, il particolare il capitolo dedicato a questa divisione.
[2] P. Iuso,
Esercito, guerra e nazione. I soldati
italiani tra Balcani e Mediterraneo orientale 1940-1945, Ediesse, Roma
2008, p. 240; E. Aga Rossi e M.T. Giusti, Una
guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino,
Bologna 2011, p. 314.
[3]
La relazione trae spunto ed origine dalle attività di ricerca iniziata nel 1989
per COREMite, Commissione per lo Studio della Resistenza dei Militari Italiani
all’Estero, voluta dal Ministero della Difesa, per il comparto Albania. In
questo quadro sono stati pubblicati i seguenti volumi:
Massimo Coltrinari, Albania
Quarantatre, L’avviamento dei
Militari Italiani ai campi di concentramento ,Roma, Edizioni Associazione
Nazionale Reduci dalla prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di
Liberazione, 1995, pagine 236.Massimo Coltrinari,L’”8 Settembre” in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori
ed eroismo. 8 settembre-7 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza,
Edizioni Nuova Cultura, pagine 265.Massimo Coltrinari, Paolo Colombo, L’a Divisione “Perugia”. Dalla Tragedia
all’Oblio. Albania 8 settembre-3 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza,
Edizioni Nuova Cultura, pagine 320.Massimo Coltrinari, La Resistenza dei Militari Italiani all’Estero. Albania, Roma,
Ministero della Difesa, Rivista Militare, COREMITE, Commissione per lo Studio
della Resistenza dei Militari Italiani all’Estero, 1999, pag. 1144.Massimo
Coltrinari, Laura Coltrinari, La
ricostruzione e lo Studio di un avvenimento Militare, , Roma Università La
Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 288[3]
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