I SOLDATI DEL
PRIMO TRICOLORE
Le forze armate
rappresentano sempre lo specchio della nazione, le loro vittorie o sconfitte,
denotano, più di ogni altro evento, la potenza di uno Stato e si riflettono sul
morale del suo popolo e su quel complesso di vincoli e di sentimenti che lo
legano ad esso e che vengono chiamati in un’unica espressione, coscienza
nazionale. Laddove lo Stato non esiste o è ancora in una forma embrionale le
vicende delle forze armate contribuiscono a generare questa coscienza. Non vi è
Paese al mondo in cui l’identità nazionale non si sia sviluppata a seguito di
vicende militari. La mente va agli ex dominions britannici: solo dopo che
andarono a combattere e a morire nella Prima guerra mondiale, negli
australiani, nei neozelandesi, nei canadesi, si formò quella coscienza
nazionale che li fece uscire dalla loro caratteristica di dominions per
diventare uno Stato.
Nell’Italia
della fine del XVIII, solo una violenta spinta dall’esterno poteva mettere in
movimento le acque stagnanti e tale spinta fu data dagli eserciti della
Rivoluzione francese. È qui, dunque, proprio negli anni dal 1796 al 1802 ed
oltre che si accende il crogiolo ove arderanno e si combatteranno le forze che
avrebbero condotto alla formazione dello Stato italiano. Fu nell’Italia del
Nord che i più importanti gruppi giacobini si schierarono a fianco della
Francia rivoluzionaria. Con questo non si vuole ignorare o trascurare l’enorme
rilievo ideale dei giacobini meridionali, ma il gruppo di questi ultimi fu
limitato ed elitario. A causa dell’assenza di vaste classi medie moderne, fu solo
l’élite intellettuale aristocratica a costituire la forza motrice del
giacobinismo meridionale. Nel Nord invece, il giacobinismo ebbe un seguito più
cospicuo e l’adesione militare ebbe, in vista della futura nascita del moderno
Stato nazionale italiano, un’importanza immensa. Creò l’embrione di un esercito
nazionale, svincolato dalla tradizione feudale aristocratico-mercenaria del
Settecento; dette a questo esercito un ideale, una speranza nel futuro e sopra
ogni altra cosa una bandiera nazionale. Il nome di Repubblica Italiana, poi
Regno d’Italia, offrì all’attenzione dell’Europa la prima compagine statale
così chiamata. Le imprese militari delle nuove forze armate italiane furono più
che degne e spesso gloriose. Si formò in esse un gruppo moderno di ufficiali
italiani che avrebbero fornito non pochi quadri alla prima fase del futuro
processo nazionale. La costruzione dell’esercito in Italia costituisce un
momento centrale nella formazione dell’Italia contemporanea, la formazione di
un esercito nazionale è un avvenimento che travalica la storia militare per
investire le vicende della società e del costume.
L’idea nazionale
non poteva concretamente attuarsi e portare alla formazione di uno stato
nazionale moderno se non attraverso la lotta armata. È evidente che in Italia
il processo di formazione del moderno stato nazionale non è stato un fenomeno
indipendente, ma ha finito per inquadrarsi entro le contese che sconvolgevano
l’Europa. L’invasione francese dell’Italia avvenne mentre le terribili guerre
della Prima e della Seconda Coalizione infuriavano dalle acque dell’Atlantico a
quelle del Mediterraneo, dall’Europa Occidentale al Danubio e l’Italia, per la
sua importanza strategica, non poteva non essere coinvolta nell’infernale
ingranaggio della guerra. Se le forze giacobine furono sollecitate, armate e
organizzate dai francesi, gli aiuti militari dei Paesi ostili alla Francia non
mancarono di sostenere la lotta armata dell’opposta parte. È altrettanto chiaro
che, nonostante Napoleone si vantò sempre di aver risvegliato lo spirito
guerriero degli italiani addormentato da secoli, non era sua intenzione avviare
un’emancipazione della penisola ed un suo affrancamento dalla tutela francese,
ma fu solo il desiderio di incrementare con un numero sempre maggiore di uomini
le proprie schiere che lo spinse ad introdurre la leva in Italia. D’altra
parte, il Direttorio non l’aveva mandato, né Bonaparte era venuto in Italia per
democratizzarla, ma unicamente per appropriarsi delle sue risorse belliche e
per imporre la propria pace all’Austria. Inventare, favorire oppure stroncare
la democratizzazione italiana fu, dunque, sia per il Direttorio che per
Bonaparte, strettamente funzionale agli adattamenti del piano strategico.
Diverso il discorso per Gioacchino Murat, il quale, benché all’inizio avesse
avversato l’autonomia degli italiani, una volta diventato re di Napoli, riuscì
a svincolarsi dalla soffocante potestà del cognato, avviando un processo di
vera indipendenza che coincide con l’avvio del processo risorgimentale e che ci
fa considerare quella di Tolentino, l’ultima battaglia napoleonica e la prima
del Risorgimento.
Come i
bolscevichi nell’ex Unione Sovietica, anche i Repubblicani francesi erano
attivi nell’esportare la rivoluzione. Momento essenziale nel processo
rivoluzionario fu l’introduzione di quei governi provvisori che con la loro
attività predeterminarono le condizioni per la democratizzazione degli antichi
Stati e la formazione delle nuove costituzioni. Le municipalità provvisorie
concordarono sulla necessità di creare una Guardia Nazionale a tutela delle
libertà repubblicane. Questa esigenza fu assecondata da Bonaparte, per il quale
era indispensabile garantire l’ordine pubblico e la sicurezza delle retrovie
alle sue truppe impegnate contro le armate austriache.
Il 19 agosto venne istituita la Guardia
Nazionale e la Legione Lombarda che dovevano assicurare l’ordine interno e la
difesa esterna dei territori della Repubblica Transpadana, entità non
ufficialmente riconosciuta, ma costituita dai territori assoggettati al
provvisorio governo Repubblicano dopo la prima campagna d’Italia e riuniva la
Lombardia austriaca con Bergamo e Brescia. Il 24 settembre Bonaparte ordinò di
costituire a Milano, Ferrara e Bologna 3 battaglioni di 600 guastatori e
zappatori da impiegare nei lavori d’assedio a Mantova e di riattamento delle
piazzeforti lombarde. Lo scopo era modesto: disporre di manodopera
militarizzata, e dunque mobile, per supplire alla mancanza o insufficienza
della manodopera locale.
Il 4 ottobre un reparto della civica
reggiana di guardia al castello di Montechiarugolo catturò un reparto di 150
austriaci in ricognizione da Mantova. L’episodio, enfatizzato come “primo fatto
d’armi della libertà italiana”, dette modo a Giuseppe Lahoz, divenuto in
seguito aiutante di campo di Bonaparte, di promuovere una petizione,
sottoscritta da numerosi patrioti, per formare una legione lombarda. Il 6
ottobre l’Amministrazione trasmise la petizione a Bonaparte, il quale si mostrò
a teatro assieme agli “eroi” di Montechiarugolo.
L’8 ottobre Bonaparte autorizzò la
creazione della legione lombarda e il 9 ordinò di convocare a Modena i
rappresentanti delle 4 città Cispadane per costituire una “Legione Italiana”
che prevedeva un organico di 3.471 uomini inclusi 159 ufficiali. La forza era
suddivisa in 7 coorti – sei provinciali (3 milanesi, 1 cremonese, 1
lodigiana/pavese, 1 comasca) e una di patrioti italiani – su 5 compagnie (1
granatieri, 3 fucilieri e 1 cacciatori) di 100 uomini; 1 Divisione di
artiglieria di 62 uomini con 4 pezzi e 1 corpo di cacciatori a cavallo di 120
uomini. Il 6 novembre, a Milano in Piazza Duomo, con cerimonia solenne,
Bonaparte consegnò la bandiera di guerra alla 1a Coorte milanese, l’unica con
quadri completi. Era il primo tricolore che sventolava in testa ad un reparto
militare italiano che il 7 marciò al fronte di Verona. Il riconoscimento di una
legione, istituita e pagata dall’Amministrazione generale, implicava dunque
anche il riconoscimento di fatto della sovranità lombarda e il suo impiego al
di fuori del territorio lombardo, addirittura sul fronte franco-austriaco,
configurava di fatto uno stato di cobelligeranza. I giacobini lombardi
cercarono di trarre il massimo profitto politico dal questo ambiguo statuto
giuridico e il 14 novembre proclamarono l’indipendenza e la sovranità del
popolo lombardo. L’iniziativa fu subito stroncata ma il giorno successivo,
durante la battaglia d’Arcole (15 e 16 novembre), “vari e coraggiosi della legione lombarda furono al fuoco, benché non
avessero avuto ordine di marciare, e riportarono gloriose ferite”, fu con
queste parole che il generale Berthier lodò nel bollettino il comportamento
della legione Lombarda e il valore mostrato sul campo di battaglia conduceva
faticosamente al progredire dell’agognata indipendenza e autodeterminazione
altrimenti preclusa ed avversata sul piano diplomatico.
L’impatto della coscrizione e della
leva, esperienze del tutto nuove nel nostro Paese, fu traumatico, perché i ceti
popolari si opposero in tutti i modi possibili allo sradicamento dei giovani
coscritti dalle loro case. Le manifestazioni più significative di questa
opposizione furono la renitenza e la diserzione, fenomeni che assunsero un
carattere di massa, alimentando un brigantaggio fattosi presto endemico.
Tuttavia, nonostante queste difficoltà, le armate italiane divennero una
realtà. Nei loro ranghi tra il 1797 e il 1815 passarono più di 250.000 uomini,
la metà dei quali caddero in battaglia o morirono per cause connesse alla
guerra. Dunque, nella guerra, fu forgiato l’embrione della futura nazione
italiana. Per valutare l’importanza del ruolo che la tradizione militare italiana
del periodo napoleonico ebbe nel movimento risorgimentale, basterebbe ricordare
la famosa offerta delle aquile della disciolta Guardia Reale Italiana che,
durante la guerra d’indipendenza del 1848, fu fatta al re Carlo Alberto (in
gioventù sottotenente dei dragoni nell’esercito napoleonico) dall’anziano
generale Teodoro Lechi, che quelle aquile custodiva dal 1814, salvandole dalla
consegna al nemico. Gli anni vissuti nell’esercito, prima cisalpino e poi
italiano, ebbero nel processo di realizzazione della coscienza nazionale e del
sentimento patriottico risorgimentale, un’importanza e un valore enormi. Le
vicende trascorse nelle armate napoleoniche operarono una trasformazione
profonda in quelle decine di migliaia di combattenti sotto la bandiera tricolore.
Per uomini sbalzati in terre lontane e straniere quel vessillo diventò un punto
di raccordo ed essi iniziarono ad abbattere le barriere linguistiche, a
superare i limiti posti dal municipalismo e a riconoscersi in una superiore
unità nazionale.
Ma c’è ancora un episodio in cui si
rileva l’importanza delle vicende militare nella nascita della nostra nazione
ed è proprio nell’atto conclusivo della fantastica avventura degli italiani
nelle armate napoleoniche. All’indomani della sconfitta a Tolentino, Murat
abbondonò il regno e salpò per la Francia. Il 22 maggio le truppe borboniche
rientravano a Napoli e Ferdinando IV tornò a sedere sul trono, mentre le città
del Meridione aprivano le porte agli austriaci e ai borbonici. Non così Gaeta:
il suo comandante, maresciallo Alessandro Begani si rifiutò di arrendersi se
non dietro espresso ordine di re Gioacchino e con soli 1.300 uomini si preparò
all’assedio di inglesi, austriaci, toscani, pontifici, insorti borbonici e
regolari del re Ferdinando, resistendo fino al 5 agosto. Napoleone era stato
battuto a Waterloo due mesi prima e ormai era diretto all’esilio di Sant’Elena,
Luigi XVIII era tornato a Parigi, ovunque le bandiere napoleoniche erano state
ammainate, solo quella murattiana di Gaeta sventolava ancora per merito di
pochi valorosi italiani. Si potrebbe obiettare che erano italiani anche molti
degli assedianti, ma questi stavano restaurando un mondo ormai finito. Quelli
che a Gaeta resistevano senza speranza, invece, camminavano con la Storia.