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domenica 31 gennaio 2021

La Spedizione dei Mille: da Genova a Napoli

 



di

Osvaldo Biribicchi

 

 

Nei primi giorni di maggio 1860, a meno di un anno dall’unità d’Italia (17 marzo 1861), un piccolo corpo di spedizione di 1.089 uomini al comando di Giuseppe Garibaldi salpava dallo scoglio di Quarto, a Genova, diretto verso la Sicilia per prendere la guida dei primi moti insurrezionali che stavano scoppiando nell’isola, provocare una sollevazione popolare e la conseguente caduta del governo borbonico. Successivamente portare la rivoluzione nello Stato pontificio e nel Veneto.

La composizione di questo corpo di spedizione era alquanto variegata: «Sono professionisti, studenti, artigiani, operai: tra loro si contano all’incirca 250 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e altrettanti capitani di mare, un centinaio di commercianti, una decina di artisti, pittori e scultori; c’è qualche prete; è presente una donna, Rosalia Montmasson, moglie di Crispi, in abito maschile. Sono quasi tutti italiani, e in gran maggioranza settentrionali: le più rappresentate la provincia di Bergamo (163) e la Liguria (154); i sudditi borbonici sono meno di un centinaio. Ci sono veterani e reclute, patrioti sfuggiti alle forche e alle prigioni, idealisti che inseguono sogni di gloria, letterati in cerca di emozioni, infelici che desiderano la morte, miseri che sperano in una sistemazione. Il più anziano, Tommaso Parodi, genovese, ha quasi settant’anni; il più giovane, Giuseppe Marchetti, di Chioggia, partito col padre, di anni ne ha undici»[1], tutti male armati e peggio equipaggiati. «La spedizione dei Mille costituisce la maggiore delle campagne di Garibaldi. Per la prima volta, infatti, un'impresa garibaldina acquista un valore dichiaratamente nazionale, diventa la forza che consente all'Italia di fare un ulteriore, vigoroso passo in avanti sulla via dell'unità»[2]. Solamente un mese prima, il 2 aprile a Torino, era stato inaugurato il nuovo parlamento con i rappresentanti di sei regioni: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana e Sardegna.                                                                                                                                                In Sicilia, la prima rivolta fu quella cosiddetta della “Gancia”[3], dal nome del convento di Palermo dove si erano rifugiati alcuni rivoluzionari. Garibaldi, inizialmente scettico sull’opportunità della spedizione, di fronte all’intensificarsi dei moti insurrezionali in Sicilia decise di passare all’azione. Vittorio Emanuele II era favorevole all'impresa mentre Cavour era contrario in quanto temeva complicazioni diplomatiche con la Francia e l’Inghilterra unitamente al timore che la Sicilia, una volta liberata da Garibaldi, diventasse una repubblica indipendente. Alla fine Cavour accettò a condizione che il Regno di Sardegna mantenesse un basso profilo, l’impresa avrebbe dovuto avere un carattere “spontaneo”. Bixio fu incaricato da Garibaldi di recuperare le navi necessarie per trasportare i volontari in Sicilia. «Due vapori: il Lombardo ed il Piemonte, comandati il primo da Bixio ed il secondo da Castiglia, furono fissati; e nella notte del 5 al 6 maggio uscirono dal porto di Genova per imbarcare la gente che aspettava, divisa tra la Foce e Villa Spinola. Alcune difficoltà inevitabili in tale genere di imprese non mancarono di contrariarci. Giungere a bordo di due vapori nel porto di Genova, ormeggiati sotto la darsena, impadronirsi degli equipaggi, e costringerli ad ajutare i predoni; accendere i fuochi, prendere il Lombardo a rimorchio del Piemonte, che si trovò pronto, mentre non lo era l’altro, e tutto ciò con uno splendido chiaro di luna, son tutti fatti più facili a descriversi, che ad eseguire, e vi fa mestieri molto sangue freddo, capacità, e fortuna»[4].

Il 7 maggio, Garibaldi fece scalo in Toscana a Talamone vicino ad Orbetello e sbarcò alcuni volontari per far credere che l'impresa fosse diretta verso lo Stato Pontificio. Dopo aver fatto rifornimento di carbone e ricevuto dal locale comandante militare armi e munizioni riprese la navigazione. «La fortuna e la negligenza dei borbonici consentono ai garibaldini di raggiungere l’11 maggio Marsala e di sbarcarvi, malgrado il sopraggiungere di alcuni legni nemici»[5].                       Il 12 maggio Garibaldi si mise in marcia per Salemi «dove, il 14 maggio, venne accolto con grande entusiasmo dalla popolazione. Grazie all'aiuto del barone Giuseppe Triolo di Sant'Anna di Alcamo, che si era a lui unito con una banda di picciotti assunse il dominio in nome di Vittorio Emanuele II re d'Italia»[6].                                                                                                                                All’alba del 15 maggio i Mille iniziarono il movimento in direzione di Palermo, la strada però fu loro sbarrata sulle alture di Calatafimi dalle truppe borboniche al comando del generale Landi. Garibaldi fece schierare i suoi sulle alture di fronte. I due schieramenti, divisi da una valle, aspettavano nelle rispettive posizioni l’attacco nemico; ad un certo momento però alcune compagnie borboniche, contravvenendo agli ordini del generale Landi, attaccarono le posizioni tenute dai carabinieri genovesi[7] i quali fecero avvicinare gli avversari e, dopo una intensa e precisa scarica di fucileria, attaccarono alla baionetta. I borbonici, che non si aspettavano un tale furioso contrattacco, ripiegarono disordinatamente verso le posizioni di partenza. A questo punto la situazione sfuggì di mano allo stesso Garibaldi che, soddisfatto di aver respinto le truppe del Landi, non voleva arrischiarsi ad attaccare le stesse frontalmente, attestate peraltro su una collina difficile da espugnare. Egli fece suonare ripetutamente il segnale di alt per fermare i suoi, ma inutilmente. I carabinieri genovesi, con il loro slancio ed entusiasmo, si trascinarono dietro gli altri garibaldini.

Il combattimento si fece aspro, “caldissimo” come scrisse poi il Landi. Garibaldi comprese che ormai erano in gioco le sorti della giornata ed ordinò l'assalto gettandosi nel cuore della battaglia in mezzo ai suoi uomini. Le truppe borboniche, disorientate dal furioso attacco dei garibaldini, abbandonarono le posizioni. Il 16 maggio Garibaldi entrò a Calatafimi, il giorno successivo riprese la marcia e, superato Partinico, si portò a 15 chilometri da Palermo. La vittoria di Calatafimi impresse una svolta importante agli avvenimenti, l'insurrezione divampò in tutta l'isola. I borbonici si misero sulla difensiva, nei comandi il sentimento prevalente era lo scoramento. I «filibustieri», come li definì il Giornale del Regno delle Due Sicilie, «ora fanno paura». All'alba del 27 maggio le prime colonne garibaldine, appoggiate dalla popolazione, entrarono a Palermo presidiata da 21.000 uomini ben armati. Subito si accesero furiosi combattimenti strada per strada. I borbonici bombardarono la città dal forte di Castellammare e dalle navi, provocando gravi danni e molte vittime tra i civili. Il 30 maggio, il comando militare borbonico di Palermo chiese una tregua di ventiquattro ore che Garibaldi accettò respingendone però alcune clausole ritenute inaccettabili. Il giorno seguente, la tregua fu prolungata di tre giorni ma non risolse la situazione delle forze borboniche le quali alla fine si ritirarono lasciando la città nelle mani di Garibaldi che vi si insediò il 21 giugno.  

Nel frattempo, Francesco II a Napoli, nell'intento di salvare almeno la parte continentale del regno, concesse la Costituzione per conquistarsi le simpatie dei liberali e varò un nuovo governo. Ma era ormai troppo tardi, i liberali chiamati al governo e presenti nel parlamento simpatizzarono apertamente per i garibaldini che, rinforzati da migliaia di volontari, il 20 luglio sconfissero nuovamente i borbonici a Milazzo. Con questa battaglia, una delle più sanguinose (750 dei circa 4.000 garibaldini caddero morti o feriti) si concluse la prima fase dell'impresa dei Mille. Garibaldi, padrone ormai della Sicilia, iniziò a progettare l'attraversamento dello stretto di Messina. Il 18 agosto, eludendo le navi da guerra napoletane, sbarcò a Melito a sud di Reggio Calabria che conquistò il 21 dello stesso mese. Il 7 settembre 1860 entrò a Napoli accolto trionfalmente dalla popolazione mentre Francesco II si rifugiava nella fortezza di Gaeta. «Il nido monarchico, ancor caldo, venne occupato dagli emancipatori popolani, ed i ricchi tappeti delle reggie, furon calpestati dal rozzo calzare del proletario»[8].

Pochi giorni dopo, l'11 settembre, con il Regno delle Due Sicilie ormai caduto sotto la spinta dei Mille e l’esercito pontificio schierato a difendere i confini meridionali, i Sardi invadevano le Marche e l'Umbria, territori da secoli appartenenti allo Stato della Chiesa. Il 18 di quello stesso mese, con il combattimento di Loreto, detto di Castelfidardo, venne di fatto sancita l'annessione delle due regioni al Regno di Sardegna.

Nell'anno successivo, 1861, si sarebbe realizzata l'Unità d'Italia.

 

Bibliografia sommaria

Coltrinari Massimo, Il combattimento di Loreto, detto di Castelfidardo 18 settembre 1860, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2009.

Di Tondo Franco, Campagne Garibaldine, Loesher Editore, Torino, 1977.

Garibaldi Giuseppe, Memorie con una Appendice di Scritti Politici, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1998.

Scirocco Alfonso, Giuseppe Garibaldi, Corriere della Sera, Milano, 2005.

 

Sitografia sommaria

https://www.saassipa.beniculturali.it/istituto/la-sede-gancia/

https://www.salemi.gov.it/comune/vivere/storia/Capitale.html

https://www.storiaememoriadibologna.it/la-spedizione-dei-mille-e-le-campagne-del-1860-2210-evento

 

 

                                              



[1] Scirocco Alfonso, Giuseppe Garibaldi, Corriere della Sera, Milano, 2005, p. 213.

[2]  Di Tondo Franco, Campagne garibaldine, Loesher Editore, Torino, 1977, p. 30.

[3] Convento fondato dai Frati Minori Francescani tra il 1484 e il 1489 in contrada S. Maria di Gesù non lontano dal porto. Attualmente vi si trova una delle due sedi dell’Archivio di Stato di Palermo.

[4] Garibaldi Giuseppe, Memorie con una Appendice di Scritti Politici, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1998, p. 248.

[5] Di Tondo Franco, Campagne garibaldine, Loesher Editore, Torino, 1977, p. 31.

[6] https://www.salemi.gov.it/comune/vivere/storia/Capitale.html

[7] I carabinieri genovesi, complessivamente 59, erano degli iscritti alla Società di Tiro Nazionale armati di carabine proprie..

[8] Garibaldi Giuseppe, Memorie con una Appendice di Scritti Politici, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1998, p. 283.

 

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