di
Osvaldo Biribicchi
Nei primi giorni
di maggio 1860, a meno di un anno dall’unità d’Italia (17 marzo 1861), un
piccolo corpo di spedizione di 1.089 uomini al comando di Giuseppe Garibaldi salpava
dallo scoglio di Quarto, a Genova, diretto verso la Sicilia per prendere la
guida dei primi moti insurrezionali che stavano scoppiando nell’isola, provocare
una sollevazione popolare e la conseguente caduta del governo borbonico.
Successivamente portare la rivoluzione nello Stato pontificio e nel Veneto.
La composizione di
questo corpo di spedizione era alquanto variegata: «Sono professionisti,
studenti, artigiani, operai: tra loro si contano all’incirca 250 avvocati, 100
medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e altrettanti capitani di mare, un
centinaio di commercianti, una decina di artisti, pittori e scultori; c’è
qualche prete; è presente una donna, Rosalia Montmasson, moglie di Crispi, in
abito maschile. Sono quasi tutti italiani, e in gran maggioranza settentrionali:
le più rappresentate la provincia di Bergamo (163) e la Liguria (154); i
sudditi borbonici sono meno di un centinaio. Ci sono veterani e reclute,
patrioti sfuggiti alle forche e alle prigioni, idealisti che inseguono sogni di
gloria, letterati in cerca di emozioni, infelici che desiderano la morte,
miseri che sperano in una sistemazione. Il più anziano, Tommaso Parodi,
genovese, ha quasi settant’anni; il più giovane, Giuseppe Marchetti, di
Chioggia, partito col padre, di anni ne ha undici»[1],
tutti male armati e peggio equipaggiati. «La spedizione dei Mille costituisce
la maggiore delle campagne di Garibaldi. Per la prima volta, infatti,
un'impresa garibaldina acquista un valore dichiaratamente nazionale, diventa la
forza che consente all'Italia di fare un ulteriore, vigoroso passo in avanti
sulla via dell'unità»[2].
Solamente un mese prima, il 2 aprile a Torino, era stato inaugurato il nuovo
parlamento con i rappresentanti di sei regioni: Piemonte, Liguria, Lombardia,
Emilia-Romagna, Toscana e Sardegna. In Sicilia, la prima rivolta fu quella
cosiddetta della “Gancia”[3],
dal nome del convento di Palermo dove si erano rifugiati alcuni rivoluzionari. Garibaldi,
inizialmente scettico sull’opportunità della spedizione, di fronte
all’intensificarsi dei moti insurrezionali in Sicilia decise di passare
all’azione. Vittorio Emanuele II era favorevole all'impresa mentre Cavour era contrario
in quanto temeva complicazioni diplomatiche con la Francia e l’Inghilterra unitamente
al timore che la Sicilia, una volta liberata da Garibaldi, diventasse una
repubblica indipendente. Alla fine Cavour accettò a condizione che il Regno di
Sardegna mantenesse un basso profilo, l’impresa avrebbe dovuto avere un
carattere “spontaneo”. Bixio fu incaricato da Garibaldi di recuperare le navi
necessarie per trasportare i volontari in Sicilia. «Due vapori: il Lombardo ed il Piemonte, comandati il primo da Bixio ed il
secondo da Castiglia, furono fissati; e nella notte del 5 al 6 maggio uscirono
dal porto di Genova per imbarcare la gente che aspettava, divisa tra la Foce e
Villa Spinola. Alcune difficoltà inevitabili in tale genere di imprese non
mancarono di contrariarci. Giungere a bordo di due vapori nel porto di Genova,
ormeggiati sotto la darsena, impadronirsi degli equipaggi, e costringerli ad
ajutare i predoni; accendere i fuochi, prendere il Lombardo a rimorchio del Piemonte, che si trovò pronto, mentre non lo era l’altro, e tutto ciò con uno
splendido chiaro di luna, son tutti fatti più facili a descriversi, che ad
eseguire, e vi fa mestieri molto sangue freddo, capacità, e fortuna»[4].
Il 7 maggio,
Garibaldi fece scalo in Toscana a Talamone
vicino ad Orbetello e sbarcò alcuni volontari per far credere che l'impresa fosse
diretta verso lo Stato Pontificio. Dopo aver fatto rifornimento di carbone e ricevuto
dal locale comandante militare armi e munizioni riprese la navigazione. «La
fortuna e la negligenza dei borbonici consentono ai garibaldini di raggiungere
l’11 maggio Marsala e di sbarcarvi, malgrado il sopraggiungere di alcuni legni
nemici»[5].
Il 12 maggio Garibaldi si mise in marcia per Salemi
«dove, il 14 maggio,
venne accolto con grande entusiasmo dalla popolazione. Grazie all'aiuto del
barone Giuseppe Triolo di Sant'Anna di Alcamo, che si era a lui unito con una
banda di picciotti assunse il dominio in nome di Vittorio Emanuele II re
d'Italia»[6].
All’alba del 15 maggio i Mille iniziarono
il movimento in direzione di Palermo, la strada però fu loro sbarrata sulle
alture di Calatafimi dalle truppe borboniche al comando del generale Landi.
Garibaldi fece schierare i suoi sulle alture di fronte. I due schieramenti, divisi
da una valle, aspettavano nelle rispettive posizioni l’attacco nemico; ad un
certo momento però alcune compagnie borboniche, contravvenendo agli ordini del
generale Landi, attaccarono le posizioni tenute dai carabinieri genovesi[7] i quali fecero
avvicinare gli avversari e, dopo una intensa e precisa scarica di fucileria,
attaccarono alla baionetta. I borbonici, che non si aspettavano un tale furioso
contrattacco, ripiegarono disordinatamente verso le posizioni di partenza. A
questo punto la situazione sfuggì di mano allo stesso Garibaldi che,
soddisfatto di aver respinto le truppe del Landi, non voleva arrischiarsi ad
attaccare le stesse frontalmente, attestate peraltro su una collina difficile
da espugnare. Egli fece suonare ripetutamente il segnale di alt per
fermare i suoi, ma inutilmente. I carabinieri genovesi, con il loro slancio ed
entusiasmo, si trascinarono dietro gli altri garibaldini.
Il combattimento
si fece aspro, “caldissimo” come scrisse poi il Landi. Garibaldi comprese
che ormai erano in gioco le sorti della giornata ed ordinò l'assalto gettandosi
nel cuore della battaglia in mezzo ai suoi uomini. Le truppe borboniche, disorientate
dal furioso attacco dei garibaldini, abbandonarono le posizioni. Il 16 maggio
Garibaldi entrò a Calatafimi, il giorno successivo riprese la marcia e, superato
Partinico, si portò a 15 chilometri da Palermo. La vittoria di Calatafimi impresse
una svolta importante agli avvenimenti, l'insurrezione divampò in tutta
l'isola. I borbonici si misero sulla difensiva, nei comandi il sentimento
prevalente era lo scoramento. I «filibustieri»,
come li definì il Giornale del Regno delle Due Sicilie, «ora
fanno paura». All'alba del 27 maggio le prime colonne garibaldine,
appoggiate dalla popolazione, entrarono a Palermo presidiata da 21.000 uomini
ben armati. Subito si accesero furiosi combattimenti strada per strada. I
borbonici bombardarono la città dal forte di Castellammare e dalle navi,
provocando gravi danni e molte vittime tra i civili. Il 30 maggio, il comando
militare borbonico di Palermo chiese una tregua di ventiquattro ore che
Garibaldi accettò respingendone però alcune clausole ritenute inaccettabili. Il
giorno seguente, la tregua fu prolungata di tre giorni ma non risolse la
situazione delle forze borboniche le quali alla fine si ritirarono lasciando la
città nelle mani di Garibaldi che vi si insediò il 21 giugno.
Nel frattempo, Francesco II a Napoli, nell'intento
di salvare almeno la parte continentale del regno, concesse la Costituzione per
conquistarsi le simpatie dei liberali e varò un nuovo governo. Ma era ormai
troppo tardi, i liberali chiamati al governo e presenti nel parlamento simpatizzarono
apertamente per i garibaldini che, rinforzati da migliaia di volontari, il 20
luglio sconfissero nuovamente i borbonici a Milazzo. Con questa battaglia, una
delle più sanguinose (750 dei circa 4.000 garibaldini caddero morti o feriti)
si concluse la prima fase dell'impresa dei Mille. Garibaldi, padrone ormai
della Sicilia, iniziò a progettare l'attraversamento dello stretto di Messina.
Il 18 agosto, eludendo le navi da guerra napoletane, sbarcò a Melito a sud di
Reggio Calabria che conquistò il 21 dello stesso mese. Il 7 settembre 1860 entrò
a Napoli accolto trionfalmente dalla popolazione mentre Francesco II si rifugiava
nella fortezza di Gaeta. «Il nido monarchico, ancor caldo, venne occupato dagli
emancipatori popolani, ed i ricchi tappeti delle reggie, furon calpestati dal
rozzo calzare del proletario»[8].
Pochi giorni
dopo, l'11 settembre, con il Regno delle Due Sicilie ormai caduto sotto la
spinta dei Mille e l’esercito
pontificio schierato a difendere i confini meridionali, i Sardi invadevano le
Marche e l'Umbria, territori da secoli appartenenti allo Stato della Chiesa. Il
18 di quello stesso mese, con il combattimento di Loreto, detto di
Castelfidardo, venne di fatto sancita l'annessione delle due regioni al Regno
di Sardegna.
Nell'anno successivo,
1861, si sarebbe realizzata l'Unità d'Italia.
Bibliografia sommaria
Coltrinari
Massimo, Il combattimento di Loreto,
detto di Castelfidardo 18 settembre
1860, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2009.
Di Tondo
Franco, Campagne Garibaldine, Loesher Editore, Torino, 1977.
Garibaldi
Giuseppe, Memorie con una Appendice di Scritti Politici, Biblioteca Universale Rizzoli,
Milano, 1998.
Scirocco Alfonso, Giuseppe Garibaldi, Corriere della Sera,
Milano, 2005.
Sitografia sommaria
https://www.saassipa.beniculturali.it/istituto/la-sede-gancia/
https://www.salemi.gov.it/comune/vivere/storia/Capitale.html
https://www.storiaememoriadibologna.it/la-spedizione-dei-mille-e-le-campagne-del-1860-2210-evento
[1]
Scirocco Alfonso, Giuseppe Garibaldi,
Corriere della Sera, Milano, 2005, p. 213.
[2] Di Tondo
Franco, Campagne garibaldine, Loesher
Editore, Torino, 1977, p. 30.
[3]
Convento fondato dai Frati Minori Francescani tra il 1484 e il 1489 in contrada S. Maria di Gesù non lontano dal porto.
Attualmente vi si trova una delle due sedi dell’Archivio di Stato di Palermo.
[4]
Garibaldi Giuseppe, Memorie con una Appendice di Scritti Politici, Biblioteca Universale Rizzoli,
Milano, 1998, p. 248.
[5] Di Tondo Franco, Campagne
garibaldine, Loesher Editore, Torino, 1977, p. 31.
[6] https://www.salemi.gov.it/comune/vivere/storia/Capitale.html
[7] I
carabinieri genovesi, complessivamente 59, erano degli iscritti alla Società di
Tiro Nazionale armati di carabine proprie..
[8]
Garibaldi Giuseppe, Memorie con una Appendice di Scritti Politici, Biblioteca Universale Rizzoli,
Milano, 1998, p. 283.