Gli ex alleati tedeschi
di
Osvaldo
Biribicchi
All’indomani del 25
luglio, iniziò tra tedeschi e italiani un gioco ambiguo che avrebbe portato sia
la popolazione che le forze armate italiane verso una delle peggiori tragedie
della loro storia. I primi cominciarono a far affluire nella penisola numerose unità per concorrere, apparentemente, a difenderla dagli
angloamericani sbarcati in Sicilia il 10 luglio (in
realtà per premunirsi dall’imminente cambio di schieramento del governo
Badoglio); i secondi iniziarono in segreto
febbrili trattative con gli Alleati per uscire dalla guerra continuando però,
apparentemente, a mostrarsi amici della Germania. Mentre i tedeschi portavano a
termine il posizionamento dei propri reparti, il generale Castellano, a
Cassibile in Sicilia, il 3 settembre 1943 firmava il cosiddetto armistizio corto che, nelle intenzioni
degli italiani, avrebbe dovuto essere reso di pubblico dominio il 12 settembre.
In realtà, il Generale Eisenhower decise
unilateralmente di annunciare l’armistizio, da radio Algeri, l’8 settembre alle
ore diciotto e trenta ed il Maresciallo Badoglio, colto di sorpresa, fu
costretto ad annunciarlo subito dopo, alle diciannove e quarantacinque.
Nell’annuncio radiofonico, Badoglio disse: «ogni atto di ostilità contro le
forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Se
i reparti italiani, in patria ed all’estero, la sera dell’8 settembre furono
colti di sorpresa non lo furono quelli germanici i quali sapevano già cosa
fare, come muoversi e dove attaccare avendo ricevuto ordini esecutivi chiari. Per gli ex alleati degli italiani iniziò la campagna del fronte meridionale, che
aveva l’obiettivo strategico di tenere il più possibile a sud, lontano dal
confine meridionale del Reich, il nemico angloamericano, nella convinzione che
la guerra si sarebbe decisa contro l’Unione Sovietica sul fronte orientale e
soprattutto impedendo uno sbarco in Europa di forze angloamericane provenienti
dalle isole britanniche. Le forze armate italiane, lasciate senza ordini o con
ordini del tutto generici e demoralizzate, si sbandarono. Decine di migliaia di
soldati, completamente ignari dell’avvenuto armistizio, all’alba del 9
settembre 1943 furono sistematicamente attaccati e fatti prigionieri dalle
truppe tedesche. La sorpresa per i soldati italiani fu dunque totale, in un
attimo si ritrovarono, sotto la minaccia delle armi dei vecchi alleati, a dover
decidere se continuare a combattere con loro oppure essere internati in
Germania. Coloro che lasciarono le proprie unità per tornare a casa od unirsi
alle formazioni partigiane, quando scoperti, furono fucilati senza processo in
quanto considerati volgari banditi. Fuori dai confini nazionali, in Corsica, in
Albania, nell’Egeo, in Grecia, in Francia in Jugoslavia alcuni reparti
riuscirono ad unirsi alle forze partigiane locali che combattevano contro i tedeschi,
altri opposero a questi una strenua resistenza. Alla data dell’armistizio, i cittadini
in armi erano circa 4 600 000. Una massa enorme che nel giro di poche ore
avrebbe perso la già ridotta capacità di combattimento. Nei vari teatri
operativi fuori dai confini nazionali stazionavano circa 900 mila uomini: 260
mila in Grecia e nelle isole dell’Egeo, 300 mila in Croazia, Slovenia,
Dalmazia, Montenegro e Bocche di Cattaro, 230 mila uomini in Francia e Corsica,
più di 100 mila in Albania. Una forza apparentemente formidabile, in realtà
terribilmente debole, senza direttive da parte del capo del governo Badoglio,
del generale Ambrosio, capo di stato maggiore generale e del generale Mario
Roatta capo di stato maggiore dell’esercito. Quel che rimaneva della marina e
dell’aeronautica si consegnò agli angloamericani in applicazione delle clausole
armistiziali, mentre il Re, il maresciallo Badoglio e le più alte autorità
civili e militari abbandonarono immediatamente Roma e si rifugiarono a Brindisi
lasciata dalle truppe tedesche e subito occupata dalle forze alleate. Nel
momento in cui il Re e Badoglio sbarcarono a Brindisi nacque il cosiddetto
Regno del Sud allo scopo di garantire formalmente la continuità, la sovranità
dello Stato italiano. In realtà con la firma, il 29 settembre 1943,
dell’armistizio lungo, l’atto nel quale vennero precisate le condizioni della
resa senza condizioni già contenute genericamente nell’armistizio di Cassibile
(armistizio corto), l’Italia fu costretta a fornire ai liberatori
angloamericani tutto ciò che rimaneva delle proprie risorse finanziarie ed infrastrutturali.
L’attività amministrativa del governo Badoglio fu sottoposta al diretto
controllo degli Alleati. Ma torniamo alle ore che seguirono la
proclamazione dell’armistizio, quelle più delicate in cui le truppe sul terreno
avrebbero dovuto ricevere ordini operativi chiari e comprensibili, che sono ben
altra cosa degli annunci radiofonici, dai rispettivi comandi superiori per poi
agire di conseguenza. Eloquente al
riguardo quanto riportato dal generale di corpo d’armata Carlo Cigliana nel suo
scritto Le cinque settimane più
controverse della guerra d’Italia: «Alle 2,30 del 9 settembre, il Comando
Supremo, dopo aver constatato (con rammarico) che il “Promemoria n. 2” non era giunto
al Comano Gruppo Armate Est né al Comando dell’Egeo (per un complesso di 14
Divisioni), inviò ai Comandi dipendenti un lungo telegramma cifrato nel quale,
dopo aver riportato gli ordini principali del “Promemoria n. 2”, confermava il
comunicato Badoglio. Ma anche questo ordine, in realtà un pò sibillino perché
si poteva ormai uscire dall’equivoco, arrivò troppo tardi, quando cioè molte
unità, all’alba del giorno 9, attaccate dai reparti motorizzati tedeschi,
abbondantemente appoggiati dagli Stukas, erano già state travolte di sorpresa o
stavano difendendosi disperatamente. In Italia, nonostante la “Memoria 45”,
giunta a destinazione il 7 settembre, i vari Comandi, per mancanza di
successivi ordini esecutivi, si trovarono all’ultimo momento nella necessità di
agire di iniziativa; peraltro il contenuto del proclama Badoglio, che
prescriveva solo di reagire ad “eventuali attacchi da qualsiasi altra
provenienza”, creò indecisioni che ebbero tragiche conseguenze […] Erano così
cominciate a giungere a Roma richieste urgenti di chiarimenti, che si erano poi
intrecciate con l’annuncio ufficiale del proclama Badoglio, tanto che Roatta,
nella notte, fece trasmettere a tutti i Comandi dipendenti l’ordine di reagire
con la forza ad ogni violenza tedesca. Ma non si usciva ancora dall’equivoco perché
questi ordini erano sempre una conferma del proclama Badoglio ed erano comunque
tardivi perché molti reparti più staccati non fecero neppure in tempo a
ricevere disposizioni prima di essere attaccati dalle truppe tedesche che
avevano anch’esse udito il proclama Badoglio ed avevano già ricevuto l’ordine
esecutivo di attacco, da tempo predisposto»[1]. Leandro Giaccone in Considerazioni sull’armistizio fa una osservazione che ci aiuta
ulteriormente ad inquadrare quell’evento nel contesto del tempo: «L’otto
settembre 1943 gli angloamericani proclamarono improvvisamente al mondo la resa
incondizionata che l’Italia cinque giorni prima aveva segretamente firmato a
Cassibile. Prima di noi, nel corso della seconda guerra mondiale, si erano già
arrese una dozzina di nazioni: Finlandia Estonia Lituania Polonia, Norvegia
Danimarca Olanda Belgio, Francia Jugoslavia e Grecia; infine si arrenderà anche
la Germania. Sono tutti eguali i macroscopici fenomeni militari e gli infiniti
drammi umani che si verificarono, come da noi, così in tutte le altre nazioni
all’atto dell’armistizio imposto dal vincitore. Una differenza fondamentale
distingue però l’otto settembre italiano, il settembre nero, dalla disfatta di
tutti gli altri Stati europei. Tutti gli altri non scelsero il momento della
loro resa; la subirono quando vi furono materialmente obbligati dalla invasione
armata del proprio territorio. Solo l’Italia scelse liberamente il momento
della sua resa, rompendo un’alleanza che la Germania nazista aveva trasformato
in sudditanza, per riprendere la sua antica collocazione tra le democrazie
occidentali europee. La dissoluzione dell’esercito e l’invasione dell’intero
territorio nazionale furono il prezzo pagato dai responsabili per questa fondamentale
scelta politica […] Badoglio aveva impiegato l’esercito come copertura delle
trattative armistiziali, dopo aver constatato l’impossibilità di impiegarlo
unitariamente contro la Germania; e l’otto settembre egli sapeva anche che
all’atto della comunicazione dell’armistizio l’ordine di “difendersi se
attaccati” votava i reparti all’olocausto tattico. Il Maresciallo capo del
Governo ha la responsabilità di aver gettato sulle spalle di tutti gli ignari
comandanti, dalle Armate ai Plotoni, la tragica scelta di sua esclusiva
competenza: la resa anche ai tedeschi, o una lotta disarticolata e senza
speranze contro l’alleato, nel momento stesso in cui lo Stato si era arreso al
nemico. All’alba del 9 settembre infine, il Re, il Governo ed il capo di S.M. generale
assunsero congiuntamente la responsabilità storica di NON DIFENDERE ROMA, per
non coinvolgerla in azioni di guerra. A seguito di questa decisione il capo di
S.M. dell’esercito ordinò al generale
Carboni di ritirare su Tivoli tutte le truppe dislocate nella zona di Roma.
Carboni fu dunque l’unico comandante di Grande Unità che all’atto
dell’armistizio ricevette un ordine scritto dal suo superiore diretto. Ordine
generico, incompleto ma tecnicamente eseguibile e chiarissimo nelle sue
implicazioni politiche e operative. Accadde però che proprio questo Generale
fin dall’alba del giorno 9 si rese irreperibile per incapacità di comando e
personale viltà, lasciando tutta la pesante responsabilità operativa al suo
modesto capo di S.M. Ricomparso a Tivoli nel pomeriggio, accettò di trattare
una resa proposta dal nemico, che prometteva di non condurre prigioniere in
Germania le truppe da lui dipendenti. Al mattino successivo infine Carboni
ordinava al suo corpo d’armata ancora in via di ripiegamento su Tivoli, di
rigirarsi e muovere all’attacco delle colonne tedesche intorno a Roma. Mentre i
reparti erano impegnati in questi caotici movimenti, nel pomeriggio del 10
settembre Carboni si arrendeva al nemico, accettandone l’ultimatum, senza aver
impiegato in combattimento i reparti efficienti ai suoi ordini»[2]. La
difesa della Capitale, nella confusione generale, fu un’altra pagina opaca. Ma
quali erano le forze tedesche ed italiane dispiegate a nord ed a sud di Roma? «La
3a divisione di fanteria, Panzergrenadier (generale Graeser), dotata di
semoventi e con circa 200 veicoli blindati e un totale di 15 mila uomini, oltre
a un rinforzo di carri armati, attestata dapprima tra Monte Amiata e il
versante nord del lago di Bolsena, si sposta da un lato verso Chiusi e la valle
del Tevere, dall’altro sul versante sud del lago, in modo da controllare l’area
di Viterbo sino alla via Aurelia […] A Sud e Sud-ovest della capitale opera la
2a divisione paracadutisti (generale
Barenthin) trasferita a fine luglio dalla Francia, collocata tra Fiumicino,
Pratica di Mare, Ardea, Colli Albani, gravitante sull’Ostiense, con 12 mila
uomini […] Sui luoghi di combattimento due divisioni tedesche (rinforzate quanto a uomini e mezzi ma con
non più di 30 mila uomini) contrastano sette divisioni italiane con un numero
di uomini mai del tutto precisato ma, di fatto, nettamente superiore, non meno
di 60 mila, con dotazione di artiglierie e relativo munizionamento»[3].
Sulle operazioni militari tedesche
da
settembre a dicembre 1943, è stata fatta un’interessante analisi da Filippo
Stefani. «La campagna dei tedeschi in Italia, benché conclusasi con la
capitolazione - da mettere peraltro in relazione con i contemporanei
avvenimenti sui fronti occidentale ed orientale - fu sotto il profilo
tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Favorita inizialmente
dagli errori dei comandi italiani ed alleati e successivamente dalle manovre
alleate di corto respiro, essa non solo perseguì lo scopo strategico che Hitler
e l’OKW si erano ripromessi - tenere lontane dal territorio nazionale tedesco
le forze alleate sbarcate in Italia e proteggere il fianco meridionale dello
schieramento germanico - ma andò oltre le aspettative. Impegnò, è vero, per 20
mesi oltre mezzo milione di uomini, che avrebbero potuto trovare impiego sul fronte
orientale e su quello occidentale, ma essa si pose come esigenza
strategico-militare irrinunciabile per la Germania dopo la resa dell’Italia.
Colta di sorpresa, non già dal distacco italiano dal quale si era cautelata, ma
dall'annuncio dell'armistizio, la Germania si era trovata a dover fronteggiare
simultaneamente l'avanzata dell'8ª armata britannica in Calabria, gli sbarchi
della stessa armata nei porti della Puglia, lo sbarco della 5ª armata a
Salerno, la debole e breve reazione italiana. Le forze del maresciallo Kesselring
riuscirono: a ritardare l’avanzata dell’8ª armata britannica fino a quando
necessario per portare in salvo la 15ª divisione granatieri corazzati e la 16ª
divisione corazzata che l’8 settembre si trovavano in Calabria; a impadronirsi
quasi senza colpo ferire di Roma ed ad assicurarsene il possesso per circa 8
mesi; a contenere la testa di sbarco alleata di Salerno per il tempo necessario
a costituire una posizione difensiva continua dall'Adriatico al Tirreno - la
linea Reinhardt - che nel settore occidentale s'imperniava sulla stretta di
Mignano; a disarmare, congiuntamente con le forze del maresciallo Rommel, la
grandissima parte delle unità italiane dislocate nell'Italia
centro-settentrionale. Ancora maggiori sarebbero stati i risultati positivi
qualora Hitler e l'OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due
divisioni richieste fin dal mese di agosto e non avessero scisso il comando
delle forze tedesche in Italia tra la giurisdizione del maresciallo Kesselring (Italia
centro meridionale) e quella del maresciallo Rommel (Italia settentrionale),
comandante del gruppo di armate “C”. Hitler e l’OKW avevano considerato persa
in partenza l'Italia centro-meridionale e con essa le forze del maresciallo Kesselring,
tanto che fin dall'agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla
10ª armata del generale Vietinghoff. Se il maresciallo Kesselring avesse potuto
disporre di altre 2 divisioni, quasi certamente avrebbe evitato la perdita dell'importante base di Foggia, avrebbe potuto ributtare
a mare le forze sbarcate a Salerno, le quali, indipendentemente dal
mancato rinforzo delle unità tedesche, furono egualmente sul punto di doversi
reimbarcare, ed avrebbe potuto aver ragione delle unità inglesi a Termoli, dove
il fallimento del contrattacco della 16ª divisione corazzata fu dovuto al fatto
che questa giunse in ritardo e venne impiegata forzosamente alla spicciolata,
come pure avrebbe potuto rimediare subito al cedimento della 15ª divisione panzergrenadier
in corrispondenza di Mignano, senza essere costretto ad abbandonare
prematuramente la linea Reinhardt. La caduta del passo di Mignano e della quota
1170 che lo comanda avrebbe potuto essere fatale ai tedeschi qualora il
maresciallo Kesselring, nonostante la penuria delle forze, non si fosse
premunito mediante l'allestimento della retrostante linea Gustav. Finalmente,
di fronte all'evidenza dei fatti, Hitler si decise a creare in Italia un unico
comando che affidò al maresciallo Kesselring nominato comandante supremo del
settore sud-occidentale-gruppo armate C. Delle forze già alle dipendenze del
maresciallo Rommel, ben 4 divisioni (delle quali 3 corazzate) però vennero
inviate sulla fronte orientale e solo 3 (la 44ª, la 334ª di fanteria e la 5ª
alpina) poterono sul momento affluire nell'Italia meridionale, oltre alla 90ª
granatieri corazzati appena recuperata dalla Corsica»[4]. Tale analisi è estremamente interessante in
quanto sottolinea come le potenzialità tedesche in Italia nel settembre 1943 fossero
davvero notevoli. Kesselring chiese due divisioni che se gli fossero state
assegnate sicuramente gli avrebbero consentito di ottenere successi maggiori.
Non dobbiamo però minimizzare neppure le potenzialità italiane all’indomani
dell’8 settembre, specialmente intorno alla capitale, abbandonata
precipitosamente dalle massime autorità politiche e militari senza aver prima
emanato tempestivi e chiari ordini operativi alle dipendenti unità. In merito all’azione del comandante in capo
tedesco in Italia in quelle convulse giornate a cavallo dell’8 settembre,
scrive Stefani: «Non ebbe torto il maresciallo Kesselring di lamentarsi di non
essere stato ascoltato a suo tempo circa la costituzione del comando Rommel: l’esistenza
di questo duplice comando in Italia e la strana soggezione di Hitler verso
Rommel ebbero per conseguenza il continuo rifiuto delle mie ripetute richieste
di un paio di divisioni di rinforzo con le quali la portata dei successi
iniziali avrebbe potuto assumere la dimensione strategica del reimbarco delle
unità della 5ª armata statunitense a Salerno»[5]. Kesselring probabilmente aveva ragione, ma si
devono considerare altri due elementi non presi in esame né da lui né da Stefani: la
resistenza ed il contrasto che le forze armate italiane posero in essere nei
giorni immediatamente successivi alla proclamazione dell’armistizio. Ci si
riferisce, ad esempio, ai combattimenti che si ebbero a Roma, alla Montagnola,
alla Magliana, a Porta San Paolo, che impegnarono per oltre tre giorni la 3a
Divisione Paracadutisti tedesca, che giunse con i suoi primi elementi nella
zona della testa di ponte di Salerno solo cinque giorni dopo l’inizio dello
sbarco stesso, anziché, nel primo o nel secondo giorno. In questa ultima
ipotesi il suo peso sarebbe stato veramente determinante. Il secondo elemento
da prendere in considerazione è che la maggior parte dei reparti tedeschi si attardò
a disarmare le truppe italiane, a raccoglierle e a radunarle; un più accorto impiego
di questi reparti, sollecitati a marciare verso sud, avrebbe dato a Kesselring sicuramente
risultati maggiori. Anche in questo caso è di tutta evidenza che, seppur
indirettamente, le forze italiane abbiano aiutato gli
Alleati nello sbarco a Salerno. Per i tedeschi la campagna del fronte meridionale, campagna d’Italia per gli Alleati,
sarebbe stata molto dura e terminò il 2 maggio 1945 quando fu annunciata la
resa, firmata il 29 aprile a Caserta, di tutte le forze tedesche in Italia. Sei
giorni dopo fu proclamata la resa generale tedesca in Europa.
BIBLIOGRAFIA
Cigliana C., Le cinque settimane più controverse della
Guerra d’Italia in La Guerra di
Liberazione-Scritti del Trentennale, Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio
Storico, 1976.
Giaccone L., Considerazioni sull’armistizio, in Otto settembre 1943 – L’armistizio italiano
40 anni dopo, Atti del Convegno Internazionale (Milano 7-8 settembre 1983),
Ministero della Difesa-Comitato Storico «Forze Armate e Guerra di Liberazione»,
Roma, 1985.
Prinzi G., Coltrinari M.,
Salvare il Salvabile – La crisi
armistiziale dell’8 settembre 1943: per gli Italiani, il momento delle scelte,
Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2008.
Stefani F., Storia della dottrina e degli ordinamenti
dell’esercito italiano, Roma, Ministero della Difesa Stato Maggiore
dell’Esercito-Ufficio Storico, 1984-1987, vol. IV.
Vallauri C., Soldati-Le forze armate italiane
dall’armistizio alla Liberazione, UTET Libreria, Torino, 2003.
[1]
Carlo Cigliana, Le cinque settimane più
controverse della Guerra d’Italia, in La
Guerra di Liberazione-Scritti del Trentennale, Stato Maggiore
dell’Esercito-Ufficio Storico, 1976, pp. 61-62.
[2]
Leandro Giaccone, Considerazioni sull’armistizio,
in Otto settembre 1943 – L’armistizio italiano 40 anni dopo, Atti del
Convegno Internazionale (Milano 7-8 settembre 1983), Ministero della
Difesa-Comitato Storico «Forze Armate e Guerra di Liberazione», Roma, 1985, pp.
421-428.
[3] Carlo
Vallauri, Soldati-Le forze armate italiane dall’armistizio alla Liberazione,
UTET Libreria, Torino, 2003, p. 64.
[4]
Filippo Stefani, Storia della dottrina e
degli ordinamenti dell’esercito italiano, Roma, Ministero della Difesa
Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio Storico, 1984-1987, vol. IV, p.
[5] Ivi, p.
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