La dottrina dell’Esercito tedesco.
Di pari a quella francese, la
dottrina tedesca si basava sulla offensiva, unica forma che portasse alla
vittoria una volta adottata la guerra di movimento. Il generale Moltke, il
vecchio, passò molto tempo ad ammonire tutti in Germania che le guerre future
sarebbero state lunghe e dispendiose, in tutti i pensatori militari come vasti
strati della ufficialità era opinione diffusa che con una rapida e violenta
azione, la guerra futura sarebbe stata rapida e veloce. Un errore questo che
permarrà ben radicato nel pensiero militare tedesco anche dopo la Prima Guerra
Mondiale.
La manovra tedesca, a sostegno
dell’offensiva, doveva basarsi sulla vasta estensione del fronte, non dando
importanza allo spostamento ed alla concentrazione delle masse. Con elementi
esterni inseriti a sostegno, come quella della superiorità della razza tedesca,
della disciplina e della preparazione culturale del tedesco medio, superiore a
tutte quelle degli altri popoli, soprattutto quelli latini e slavi; la dottrina
tedesca si incentrava sul principio che per arrivare alla “debellatio” del
nemico, ovvero al suo annientamento occorreva che le differenti masse
impiegabili si presentassero all’urto simultaneamente, giuntevi per le vie più
brevi, in quanto la vittoria doveva essere ricercata nello sviluppo stesso del
fronte di attacco. Da qui ricercare più che lo schieramento in profondità
quello lineare su fronte vastissima. Chi volesse trovare una spiegazione alla
estensione dei fronti della Grande Guerra (dalla Svizzera al mare, dal Baltico
al Mar Nero, Dall’Astico al mare ecc.) trova gran parte della spiegazione nei
procedimenti di impiego della dottrina tedesca.
In Germania si crearono due
filoni di pensiero per questo tipo di guerra decisamente offensiva: il primo
faceva capo al generale von Bernhardi, minoritario, il secondo al gen.
Schlieffen, capo di Stato Maggiore dal 1891 al 1906, che fu poi il filone che
si impose.
von Bernardi aveva in comune con
lo Schlieffen il concetto che la vittoria si sarebbe ottenuta con la guerra di
movimento, e quindi con l’offensiva, che doveva essere rapida ed energica. Lo
differenziava dallo Schlieffen il dato che riteneva che la manovra tipo “Canne”
non era sempre possibile attuarla. Riteneva che l’azione del difensore nel 1914
era più facile rispetto al passato; riteneva che il difensore stesso si
avvantaggiava della scelta del terreno, mentre l’attaccante trae vantaggi o
dalla iniziativa delle operazioni e dalla potenza morale che è insita
nell’attacco stesso. Per lui era necessario sorprendere l’avversario, di avere
la superiorità dei numeri, ma soprattutto di esaminare la situazione in base al
momento e non secondo uno schema prestabilito. Cardine del suo pensiero era che
l’offensiva non doveva essere considerata una forma definita a priori, ma
occorreva che si adattasse alla reale situazione, potendo assumere tanto la
forma di coinvolgimento e distruzione di una o di tutte e due ali quanto quella
di attacco centrale sfondante. Adattarsi alla realtà, senza schemi preordinati,
in sintesi il pensiero di questo generale tedesco che espose le sue teorie in
volumi molto noti a suo tempo in Germania.[1]
Il pensiero che si affermò in
Germania fu quello facente capo al generale
Schlieffen. Egli preconizzava l’avvolgimento tattico quale unica forma adatta
per ottenere un successo completo e sosteneva che l’obiettivo tattico
principale non doveva mai essere il fronte, ma invece i fianchi ed il retro
essendo gli attacchi frontali inadatti per una decisione, anche se condotti da
masse consistenti e profonde contro
forze inferiori. Le marce di stretto stampo napoleonico caratterizzate dal
movimento dei battaglioni quadrati (i famosi “bataillon carré” di tradizione
francese) dovevano essere bandite e sostituite da marcie eseguite su una
larghissima fronte , in ordine spiegato come se si dovesse dare battaglia.
L’essenza del pensiero
schleffeniano consiste nel non credere al successo dell’attacco centrale
risolutivo e sfondante e, dovendo così agire per le ali, voleva forte quell’ala
del suo schieramento a cui spettava di vibrare il colpo decisivo. A questo
scopo accumulava le riserve proprio in prossimità di questa ala. Nelle
battaglie future gli schieramenti sarebbero stati contrapposti su linee opposte
ad altre linee: avrebbe vinto quell’esercito che avesse potuto aggirare il
fianco, o meglio i fianchi del nemico realizzando l’avvolgimento. Da questo
pensiero discende la concezione che le Armate avrebbero dovuto procedere in avanti
in una lunga linea di battaglia contro la linea avversaria , molto più corta in
profondità costituendo le ali scaglioni avanzati destinati a ribattersi contro
i fianchi del nemico mentre la cavalleria spinta in avanti doveva cercare di guadagnare
il retro dello schieramento nemico.
Le modalità di attuazione sono
presto dette. Si voleva una offensiva fulminea, irresistibile, condotta con
tutte le forze nemiche: l’Esercito doveva procedere in avanti in un sol blocco,
come se fosse un battaglione, tutto travolgendo. Si attuava così una manovra
strategica unica, condotta secondo una determinata direzione, con meta fiale
una battaglia nella quale la risoluzione consisteva nella “debellatio”
integrale di tutte le forze nemiche.
Il pensiero di Schlieffen si è
sviluppato attraverso lo studio sistematico della battaglia di Canne, del 216
a.C. durante la quale Annibale con soli 25.000 distrusse i due eserciti
consolari forti di 80.000 uomini.[2]
Le critiche che si possono
avanzare al pensiero dello Schlieffen si incentrano sul fatto che escludeva
qualsiasi adattamento agli avvenimenti, creata come era su un ragionamento a
priori, mancando di elementi per fronteggiare imprevisti e sorprese e basandosi
esclusivamente sulla incapacità del nemico e sulla imponenza dell’azione che doveva
annichilire il nemico stesso. Il presupposto di tutto il pensiero schleffeniano
era che il nemico restasse inerte, escludendo sia la volontà che la capacità
del nemico di manovrare e quella, ancora più importante, di sottrarsi
all’accerchiamento.
Si era quindi sviluppata, nei
primi anni del secolo, sulla scorta della guerra franco-prussiana e l’eredità
napoleonica una dottrina audace, assoluta, che escludeva iniziative
individuali, poco attenta alla situazione che si sarebbe sviluppata sul campo
di battaglia e così determinata a conseguire l’obiettivo che ci si era dati da
apparire incriticabile.
Come la dottrina francese,
quindi, anche quella tedesca prevalente, si estremizza, lasciando pochissimo
spazio all'azione del Capo, del Condottiero, che si considerava un mero
esecutore di piani già stabiliti.
[1] [1]Bernhardi (von) R., Von Heutingen Kriege, Berlin, 1912. Traduzione
italiana: La Guerra, oggi, varie
edizioni.
[2] Nel 216 a. C. i Romani quasi
soggiogati dalle vittorie di Annibale decisero di fare un grande sforzo
militare portando il loro esercito a 9 legioni. Al Comando dell'Armata furono
preposti i 2 Consoli Paolo Emilio e Terenzio Varrone. Col consenso del Senato
essi si recarono nell'Apulia per dare ad Annibale una battaglia decisiva. Anche
in Annibale era altrettanto sentito il desiderio di una battaglia risolutiva
poiché in questa guerra di avvisaglie vedeva consumarsi inutilmente le sue
forze e cadere a poco a poco il suo prestigio. Perciò, venuta la primavera, con
rapida azione si impossessò di Canne sull'Ofanto dove i Romani tenevano i
magazzini. Questo atto esasperò i Romani e Varrone, in un giorno in cui aveva
il comando dell'esercito, volle venire a battaglia malgrado i prudenti consigli
di Paolo Emilio, il quale avrebbe voluto misurarsi col nemico, ma in terreno
più accidentato, ove poco valesse la superiorità della cavalleria
avversaria. Le forze romane salivano a
circa 80.000 fanti e 6.000 cavalieri, di fronte a 40.000 fanti e 10.000 cavalli
di Cartaginesi. Varrone lasciò 10.000 uomini di guardia al campo sulla riva
sinistra dell'Ofanto, e schierò a battaglia il resto dell'esercito sulla destra
di questo fiume. Le legioni furono ordinate su 3 linee, ma con intervalli e
distanze ristrette, rinunciando al vantaggio della soverchianza del fronte per
avere massa più densa. Pose all'ala sinistra la migliore cavalleria, della quale
prese egli stesso il comando, mentre l'ala destra venne posta agli ordini di
Paolo Emilio. Annibale prese il suo dispositivo dopo aver veduto lo
schieramento del nemico. Il suo piano fu questo: presentando un ordine di
battaglia convesso, egli sperava di attirare i Romani su questo centro
sporgente che rinforzato in tempo opportuno da un corpo di riserva avrebbe
dovuto cedere senza però spezzarsi; allora le sue ali convergendo verso
l'interno avrebbero stretto come in una gigantesca tenaglia l'esercito
avversario. Venuti alle prese, Asdrubale si slanciò arditamente sui cavalli di
Paolo Emilio, che in breve tempo riuscì a sbaragliare, mentre la cavalleria
nemica, opponendo vigorosa resistenza all'attacco della numerosa cavalleria
avversaria, impedì che questi guadagnasse terreno e venisse a molestare le
fanterie cartaginesi. Subito dopo le legioni si azzuffarono col centro di
Annibale, il quale retrocedette lentamente in modo da attirare presso a sè i
Romani. Venuto il momento opportuno gli africani di destra e di sinistra
effettuarono il prescritto movimento di conversione, verso l'interno, mentre i
cavalieri di Asdrubale, sfilando veloci dietro le schiere avversarie,
piombarono da tergo sui cavalli di Varrone che stavano combattendo con i numidi
e rompevano anche quelli. Allora i fanti romani, premuti sui due fianchi dalle
truppe africane e alle spalle dalla cavalleria di Asdrubale, poterono a stento
difendersi. Chiusi entro quel cerchio di ferro che veniva sempre più
restringendosi, i legionari non ebbero più modo né di manovrare, né di valersi
delle loro armi. Invano Paolo Emilio tentò di ristabilire le sorti del
combattimento, egli stesso cadde sul campo mentre Varrone riuscì a scampare con
un centinaio di cavalieri. Le perdite romane furono immense, secondo Polibio
salirono a 70.000 uomini.