a.
Avvenimenti e
provvedimenti in vista del conflitto
(1)
Politici e
diplomatici
Le
condizioni poste con la pace di Villafranca e il successivo trattato di Zurigo
del 10 novembre 1859 avevano deluso la speranza degli italiani che dopo la
valorosa vittoria di Solferino si aspettavano di veder concluso il processo di
unificazione. D’altronde la pace con l’Impero Austro-Ungarico non poteva che
essere un cessate il fuoco da momento in cui lo stesso imperatore si rifiutava
di riconoscere il Regno d’Italia, appellando la penisola come ancora come Regno
Sabaudo.
Tutti
gli attori dell’epoca erano consapevoli che prima o poi l’Italia avrebbe ripreso
le armi contro l’Austria non solo per l’inaccettabile sistemazione dei confini,
ma soprattutto perché l’Austria, conservando il suo dominio sul Veneto e la
disponibilità del Quadrilatero, nonché il desiderio di rivendicare quanto perso
sette anni prima, rappresentava il nemico numero uno. Il Regno d’Italia, per
contro, non era in grado di dichiarare compiuta “l’unità nazionale senza Venezia e Roma. E per ottenere Venezia si
doveva fare la guerra”[i].
L’Italia,
dopo estenuanti trattative diplomatiche, condotte dal Gen. La Marmora, il
Ministro de Barral e il Gen. Govone, inviato speciale a Berlino, ottenne quello
che aveva sempre desiderato: l’alleanza con una grande potenza militare.
L’Italia si era legata alla Prussia in virtù del trattato firmato l’8 aprile
1866. Si trattava di un trattato molto ambiguo soprattutto perché influenzato
dalla difficile figura di Bismark, di natura offensiva e difensiva che
prevedeva quattro condizioni: 1) la guerra deve essere condotta con ogni
energia e nessuna delle due potenze alleate può concludere un armistizio o una
pace senza il consenso dell’altra; 2) tale consenso non può essere rifiutato se
l’Austria cede all’Italia il Veneto e alla Prussia territori equivalenti; 3) il
trattato deve considerarsi senza efficacia se la Prussia non dichiara guerra
all’Austria entro tre mesi dalla firma; 4) l’Italia s’impegna a inviare la sua
flotta in aiuto a quella prussiana nel caso in cui l’Austria invii navi da
guerra nel Baltico.
Come
si può notare, il trattato non prevedeva il carattere di reciprocità in quanto
impegnava l’Italia a entrare in guerra nel caso in cui la Prussia l’avesse
dichiarata, ma non il contrario. Né prevedeva l’intervento di quest’ultima se
fosse stata l’Austria a prendere l’iniziativa contro l’Italia. Tale sbilanciamento,
fu espressamente sottolineato da Bismark che, pur avendo riconosciuto
l’inopportunità di lasciare l’Italia da sola a combattere, affermò
ripetutamente che il trattato non impegnava la Prussia a dichiarare guerra
all’Austria nel caso in cui questa si fosse trovata in conflitto con l’Italia.
In realtà, Bismak in quei giorni fece sapere, attraverso gli opportuni canali
diplomatici che in caso di intervento militare austriaco contro l’Italia, la
Prussia avrebbe onorato i propri obblighi di amicizia nei confronti
dell’alleato italiano. Per ogni altra ipotesi Bismark consigliava vivamente gli
italiani di astenersi da ogni tipo di iniziativa offensiva.
Purtroppo,
la situazione stava prendendo una strada completamente diversa: in Austria
giungevano, da fonti informative di dubbia veridicità, informazioni su presunti
armamenti e movimenti militari italiani sui confini. Erano delle esagerazioni,
ma più che sufficienti per accelerare la mobilitazione e la preparazione
dell’Armata austriaca del Sud ubicata in Veneto[ii].
Nonostante
ciò, qualche settimana dopo (5 maggio 1866), l’Austria, che fino quel momento
si era sempre rifiutata di discutere la questione veneta con l’Italia, offre la
cessione di Venezia alla Francia affinché la girasse all’Italia. I diplomatici
italiani, dietro sollecitazione del Presidente del Consiglio, rifiutano
categoricamente in quanto giungeva troppo tardi per poter essere motivo di
rottura degli accordi con la Prussia.
Agli
inizi di maggio la situazione era quanto più che mai in stallo e le strade per
una soluzione diplomatica sembravano quasi impossibili. La Francia, nel
tentativo di fermare ogni focolaio di guerra, si fa addirittura promotrice di
un Congresso ove discutere tutte le pendenze territoriali, compreso il Veneto.
(2)
Economico
finanziari.
Dopo la crisi politica del dicembre 1865, era diventato Ministro della
Guerra il Gen. Ignazio de Genova di Pettinengo che, tra i primi atti
ministeriali, impose un taglio di bilancio di circa undici milioni. Questo in
realtà si andava ad aggiungere ad un ulteriore taglio, pluriennale, disposto
dal precedente Ministro della Guerra, Gen. Petitti, di circa nove milioni. Alla
vigilia della guerra, quindi, l’esercito poteva contare su un budget decurtato di circa venti milioni che
aveva imposto delle economie soprattutto per quanto riguarda i richiami.
L’Esercito Italiano entrava in guerra con circa 30000 uomini in meno. Questa
carenza si fece sentire soprattutto a livello tattico, dove le compagnie di
fanteria potevano contare su una forza di circa 125 uomini contro i 165/170
delle compagnie imperiali.
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