Su "Sport Illustrato e la Guerra" Franco Scarioni raccontò
mirabilmente l'eroica avventura del capitano del 5° reggimento fanteria Ercole
Ercole di Torre Annunziata (Napoli) che fu considerata l'impresa più
avventurosa della nostra guerra aerea
(vedere La Stampa del 3/11/1916 a pag.
4 ultima colonna a destra in alto http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,1/articleid,1183_01_1916_0306_0001_17587930/
)
Per questa azione di guerra in
Albania al Capitano Ercole fu conferita il 26 ottobre 1916 la Medaglia d’Oro al
valor militare con questa motivazione: “Pilota di un apparecchio, attaccato a
circa 3000 metri di altezza da un velivolo da caccia nemico, visti nel
combattimento aereo colpiti a morte i suoi compagni e forati i serbatoi della benzina,
con sangue freddo eccezionale, mentre l‘apparecchio precipitava, lasciata la
mitragliatrice che in quel momento manovrava, benché ferito al braccio
sinistro, riusciva ad afferrare il volante e a raddrizzare il velivolo a meno
di 300 metri da terra e, planando, atterrava presso Zarnec a circa 50 chilometri
dalle nostre linee. Dato subito fuoco all’apparecchio distruttolo, benche
esausto dalla perdita di sangue, riusciva a sfuggire alla cattura. Assalito da
un indigeno, si liberava uccidendolo, e, dopo sette giorni di tensione di
spirito, di grandi sofferenze e di privazioni, dando prova di energia e forza
d’animo straordinarie, riusciva a traversare le linee nemiche ed a presentarsi
ai nostri avamposti sulla Vojussa. Cielo di Zarnec, 13 ottobre 1916.”
Questo il testo integrale
dell’articolo di Franco Scarioni:
“L'eroica
avventura di Ercole”
"Ercole
Ercole da Torre Annunziata {Napoli), capitano fant. batt. aviatori. - Pilota di
un
apparecchio,
attaccato a circa 3000 metri di altezza da un velivolo da caccia nemico, visti
nel
combattimento
aereo colpiti a morte i suoi compagni e forati i serbatoi della benzina, con
sangue freddo eccezionale, mentre l'apparecchio precipitava, lasciata la
mitragliatrice che in quel momento manovrava, benché ferito al braccio
sinistro, riusciva ad afferrare il volante e a raddrizzare il velivolo a meno
di 300 metri da terra, e, planando, atterrava presso Xarnec a circa 50
chilometri dalle nostre linee. Dato subito fuoco all'apparecchio e distruttolo,
benché esausto dalla perdita del sangue, riusciva a sfuggire alla cattura.
Assalito da un indigeno,si liberava uccidendolo, e, dopo sette giorni di
tensione di spirito, di grandi sofferenze e di privazioni, dando prova di
energia e forza d'animo straordinarie, riusciva a traversare le linee nemiche
ed a presentarsi ai nostri avamposti sulla Vojussa. Cielo di Zarnec, 13 ottobre
1916 - Medaglia d'oro.
Il
capitano Ercole si meritò, insieme al tenente Laureati,in occasione del raid su
Lubiana, 18
febbraio
1916, la medaglia d'argento.
Viaggio calmo e regolare.
Dinnanzi e quasi perduti nelle prime luci rosee dell'aurora, e già oltre la
Vojussa tra la sterminata piana
acquitrinosa della palude di Licet Literbuf ed il lungo dorso
montano delle colline di
Malizia,sono i quattro Savoia-Farman che corrono decisi alla loro meta,
volteggiano di già sui bersagli,
osservano, colpiscono, si aggirano in ampie spirali sugli
attendamenti, sopra i parchi di
carreggio, sul nodo stradale e si muovono in evoluzioni ritmiche,
quasi legati nello spazio immenso
da un comando unico, come una squadriglia di cacciatorpediniere
che batta il mare.
Poi i Caproni che corrono per
l'aria verso una meta più lontana. Ed ecco nella rapidissima corsa pel
cielo calmo e terso, per l'aria
limpida e frizzante, la immensa palude, il tortuoso Semeni scintillante
sotto i primi raggi del sole, la
piana folta di pinete di Divjaka e lo Scumbi maestoso nella sua foce
amplissima e giallastra, il
massiccio di Kapo Laghi e finalmente,avanguardia di Durazzo, il piano
brullo infinito di Kavaja e le
case numerose delle borgate disseminate su due file normali ad un
altro folto gruppo di caseggiati.
E qui le prime avvisaglie della
guerra nel cielo. Gli hangars situati a sud del paese hanno di già
spalancato i loro battenti e
quando il primo Caproni corre su di loro e gli altri bersagli celati nella
borgata, lasciando cadere grosse
bombe che scoperchiano i tetti, sgretolano i muri, squarciano i
magazzeni, sollevano immani
colonne di fumo e di terriccio, già scorge sotto di sé a quota bassa
due apparecchi nemici.
Ma di ciò nessuno si preoccupa.
Il secondo Caproni s'indugia per qualche tempo nello spazio,
spiraleggia sopra i bersagli,
attende che il diradarsi del fumo e della terra sospesi nello spazio, gli
permetta di osservare i risultati
del tiro e di scegliere nuovi obbiettivi da colpire. Poi, mentre i due
velivoli nemici, tardi nei
movimenti e pigri nell'ascesa, tentano di portarsi di fianco o sopra il nostro
apparecchio, questi inizia la sua
opera di distruzione. La pioggia di bombe è ancora più intensa, il
fuoco ancor più micidiale. I
grossi calibri raggiungono tutti i bersagli ed i piccoli battono le
contrade, la campagna
immediatamente a ridosso dei caseggiati e sulla quale fuggono terrorizzati
soldati ed indigeni. Di sotto è
per qualche minuto un inferno. Si sfasciano alti caseggiati, volano per
l'aria nuove macerie ed il paese
è tutto preso, tutto gravato sotto un nuvolone giallastro.
Un nuovo più ampio giro sulla
posizione efficacemente battuta, poi ecco drizzata la carlinga verso
l'Adriatico, verso l'isola di
Saseno lontana ma distinta, mentre dal paese che si perde nella
lontananza si drizzano al cielo
densi pennacchi di fumo ed i due velivoli austriaci ansano in una
vana rincorsa.
E' sulla via del ritorno, così
come dopo ogni impresa: da Lubiana, da Trieste, da Fiume e da
Durazzo stessa, che si ingaggia
la decisiva lotta nel cielo.
Gli apparecchi nemici da caccia
si erano elevati nel cielo da Divjaka, dove operavano i Savoia-
Farman e ad una quarantina di chilometri
a sud dal luogo dove i Caproni stavano
contemporaneamente operando.
L'allarme s'era propagato con qualche lentezza, nel mattino che
aveva forse trovato pigre ed
incerte le vedette: ma non giungeva tardi. Erano troppo addentro nel
territorio nemico i grossi
apparecchi italiani perchè potessero sottrarsi all'attacco. E poi non
l'avrebbero mai rifiutato il
combattimento. Lo sapevano gli austriaci e su ciò confidavano e
temevano. Non s'era forse svolto
poco più di un mese prima un serrato e furioso duello aereo fra
otto apparecchi, proprio sulla
baia di Durazzo, nel cuore del territorio nemico a quasi novanta
chilometri dalle linee italiane?
Non s'era di proposito gettato contro un Fokker in uno dei più
appassionanti duelli aerei,
l'eroico capitano Pesci che immolava la sua vita nel gesto ardito, nella
sfida audace? Si sarebbe dunque
svolto nel cielo il secondo epilogo della rinnovata audacia italiana.
LO
SCONTRO AEREO
Un primo Fokker drizzatosi
fulmineo mentre le prime bombe lanciate dai Savoia-Farman
devastavano gli accampamenti di
Divjaka, s'era buttato come un falco sui quattro apparecchi
italiani. D'ogni lato portava
l'attacco: inabissandosi dall'alto, portandosi improvvisamente sui
fianchi, tentando di aprirsi un
varco fra la squadriglia che ancora tutta spiegata in linea di battaglia,
ben collegata ed unita, stava
riprendendo la via del ritorno. Ma ogni attacco s'era spuntato contro
questa alata barriera che
lanciava dalle sue mitragliere ventate di fuoco e s'andava spostando
sull'Adriatico per svolgere su di
un campo meno sfavorevole la sua azione controffensiva. Infine il
Fokker, scoraggiato, abbandonava
la lotta per raggiungere verso il nord il compagno che come un
piccolo punto si delineava nello
spazio verso Kavaja. Segno glorioso della breve, serrata ed
incruenta lotta : la carlinga di
un Savoia-Farman crivellata nella sua aguzza prora da una piccola
rosa di buchi. I proiettili
perforanti austriaci erano sgusciati fra le gambe di due degli audaci
navigatori dell'aria.
Ma non era che una tregua. La
lotta veniva spostata al nord. Sulla via del ritorno i due Caproni si
seguono in linea ad una distanza
di circa 800 metri e poiché non è conveniente attaccare il primo
che potrebbe ricevere immediato
aiuto dall'altro, si tenta la sorpresa sull'ultimo. Infatti quel punto
ch'era segnato appena sul cielo
di Kavaja, ha seguito in una fulminea discesa il volo del secondo
Caproni e l'attacco è seguito
improvviso e decisivo. I nostri navigatori hanno appena il tempo di
avvertire la minaccia e di
gettarsi ai loro posti di combattimento.
Il primo a scorgere il Fokker è
il capitano Corbelli che sta alla mitragliatrice posteriore. Una toccata
di spalla al capitano Ercole e
questi cede i comandi al brigadiere Mocellin e si porta alla
mitragliatrice anteriore. Da
qualunque parte si presenti l'attacco, il nemico avrà degna risposta.
Intanto il capitano Ercole tenta
di richiamare l'attenzione del primo apparecchio sparando qualche
colpo in alto. Ma gli altri non
se ne accorgono che troppo tardi.
La manovra del Fokker è rapida e
facile. Si trova a 3200 metri d'altezza, 500 circa sopra il nostro
apparecchio e scende gradini con
piccoli planés e con brevi richiami in linea di volo. La distanza
diminuisce rapidamente. Il
capitano Corbelli imperturbabile corregge il puntamento della
mitragliera ed attende. Un'ultima
picchiata del Fokker, ed eccolo nella sua inclinazione massima,
apparecchio e mitragliera puntati
su tutto il fusellage del Caproni.
Sembra lo debba investire
violentemente di coda. Le due mitragliere nemiche aprono il fuoco nello
stesso tempo. Per pochi decimi di
secondi il crepitar secco dei colpi domina l'ansar dei motori. Ma è
un'ondata terribile quella che
investe dall'alto in basso la carlinga del Caproni. Il capitano Corbelli
colpito al petto, abbandona la
impugnatura della mitragliera, alza le mani e s'abbatte di schianto
nell'angusta passerella. Le altre
pallottole perforanti crivellano i grossi serbatoi di rame, li
trapassano ed investono tutta la
prora della carlinga.
Il brigadiere Mocellin ha un
sussulto, lascia le leve di comando e si abbatte su di un fianco mentre
due rivoli rossi di sangue gli
solcano dalla fronte tutto il viso. Il capitano Ercole non può muovere il
braccio sinistro. Quasi nello
stesso istante il Fokker sfiorando tutto il Caproni scende
vorticosamente a picco nello
spazio.
Lanciati nel vuoto
Ma v'è ancora un'anima viva
sull'apparecchio di morte che abbandonato a sé si inabissa, quasi per
seguire il tragico destino dei
suoi piloti. Il capitano Ercole, più che vista ha intuito la fulminea e
tragica azione, e quando il
Caproni sta iniziando la paurosa caduta egli è già in piedi aggrappato ai
bordi della carlinga per
raggiungere il seggiolino di guida.
E qui comincia l'odissea del suo
eroismo fra i morti; sulla morta aeronave, nella visione d'una fine
spaventosa egli non lascia
prevalere l'Istinto della conservazione, ma su tutto impone la calma, la
sicura scienza del guidatore. Non
giuoca il tutto per il tutto, contende, nella manovra, la sua vita alla
morte.
Raggiunge il seggiolino,
s'aggrappa ai comandi, gira il volante solo di quanto è necessario per non
mutare in schianto la catastrofe
che già sembra inevitabile. Sotto le sue mani (una è contratta nello
spasimo della ferita che ha al
braccio sinistro) egli calcola lo sforzo che può, che deve subire
l'apparecchio per rimettersi in
linea di volo. Ed è un calcolo freddo, pacato, un richiamo progressivo
e quasi dolce dei timoni nel
precipizio, fra la violenza dell'aria che turbina d'attorno, mozzando il
respiro, nella visione netta,
fatale della terra che si avvicina rapidamente tutta irta di mille ostacoli e
sembra allarghi mostruose braccia
per accogliere il naviglio dell'aria in un ultimo amplesso.
Bisogna pensare a questo immane
sforzo di volontà: bisogna figurarsi la tragica visione di un
convoglio di morti lanciato
perdutamente nello spazio e conteso all'ultima ruina da un moribondo:
bisogna portarsi accanto a questo
purissimo eroe e vederlo così minuscolo com'è, così perduto nella
vastità della carlinga intrisa di
sangue e cosparsa di benzina, la testa di un compagno ucciso
poggiata sulla spalla ferita e
dolorante, lottare senza disperazione contro la morte più disperata. Ed
allora soltanto si sente, si
comprende la maestosa e terribile grandezza del gesto!
A 300 metri dal suolo il generoso
velivolo dolcemente si rimette in linea di volo, mentre il motore
di destra, chissà mai per quale
miracolo, riprende a funzionare. Di sotto il terreno è ampio e brullo.
L'ultimo piane è compiuto con
precisione ed in breve l'apparecchio è fermo sul campo, addossato ad
un'alta siepe.
Per qualche tempo rimane
silenzioso, il gigantesco aereoplano. Non clamore d'intorno, non una
voce, non un allarme. Silenzio
nel cielo e sulla terra. Una pace strana sulla pace dei morti! Ercole è
ancora colle mani aggrappate al
volante. Non può muoversi, non osa: è come prostrato da una
immane stanchezza, preso da un
irresistibile bisogno di riposo, di pace. Poi è la stessa quiete sinistra
che lo circonda, quella che lo
richiama alla realtà. La testa del povero Mocellin gli grava sulla
spalla, quasi sulla ferita. La
scosta e dolcemente la scuote, tenta deviare i due lenti rigagnoli di
sangue che imbrattano il viso, lo
chiama per nome, gli alza un braccio che scivola, nella rigidità e
nel peso grave della morte, su di
un serbatoio.
Allora si leva e come vede dietro
a sé tutto steso il capitano Corbelli, si china su di lui, gli tocca la
fronte ghiaccia, gli accarezza il
bel viso freddo, cereo, composto nella calma e dolce serenità che
aveva nei bei giorni della vita,
gli apre la giubba e quando scorge sul petto glorioso una piccola e
spessa rosa di buchi,
s'inginocchia e piange. Ma il martirio non ha ancora fine!
La sommessa prece pei morti che
Ercole dice nel suo pianto doloroso è interrotta bruscamente,
stornata, da urli o da
imprecazioni. Un energumeno albanese gira forsennatamente attorno
all'apparecchio e sfoga la sua
rabbia a colpi di tridente nei fianchi della carlinga, sulle ali inferiori.
Ercole è come stupito. Si leva,
guazza nel miscuglio di sangue e di benzina, arriva alla prora della
carlinga e con tranquillità, col
polso fermo, così come se dovesse compiere un'altra manovra, leva
da una custodia la Mauser. Spara,
ed il malcapitato indigeno cade sotto l'apparecchio.
Un pericolo s'è però
improvvisamente drizzato. Qualcuno ha dunque visto ed è accorso. Altri
accorreranno ed avranno a guida
la secca detonazione della pistola. Bisogna compiere il sacrificio:
distruggere, distruggere subito e
ad ogni costo. Ma come? Come, se i due morti compagni giacciono
ai loro posti di combattimento,
sereni, composti e quasi sembrano implorare che nessuno li tocchi,
che nessuno violi quello che fu
l'orgoglio loro in vita, ed ora la tomba? Come levarli dall'alta
carlinga, deporli sul terreno e
comporli lontano dall'apparecchio? Come? Come, con un braccio
spezzato, con le forze prostrate
dalla lotta contro gli elementi? Ed il tempo passa veloce, il pericolo
incalza. Da lontano si profilano
figure d'armati. Su nel cielo alto si delinea un punto.
Il
rogo sacro
Una sorda angoscia stringe
l'animo del capitano Ercole. Egli gira smarrito attorno al velivolo
intatto. S'allontana di qualche
passo. Ritorna. S'aggrappa ai pedalini della carlinga. Li lascia. Si
getta a terra scorato, piangente,
rannicchiandosi sotto il suo apparecchio, sotto la tomba dei suoi
morti, mentre la rossa rugiada
che stilla dalla navicella imperla dolcemente la terra e lascia goccie
di rubini sui robusti sky del
carrello.
Poi d'un colpo, come animato da
una forza e da volontà sovrumana, sale freneticamente alla
carlinga, la scavalca, s'abbatte
ginocchioni fra i due morti, e grida nel pianto: "Perdonatemi! fatemi
pietà dell'ultimo oltraggio! Non
mi rimprovererai Corbelli? E tu mio buono, mio fedele Mocellin
non mi porterai rancore?
Perdonatemi! non sono io! E’ il dovere! E’ la Patria! Chiedo perdono a voi
pei vostri cari che piangeranno
lagrime amare, che cercheranno con ansia le vostre tombe per
bagnarle del loro pianto, che mi
chiederanno ragione dell'ultimo vostro sacrificio! Perdonatemi! E'
il dovere! E’ Dio stesso che lo
comanda!"
E con la mano sana che sembra
abbia voluto raccogliere nella sua palma, nelle sue dita, tutta
l'ultima energia d'un corpo e
d'una volontà, strappa i rubinetti, contorce. Poi scende, mentre la
benzina invade e si sparge
copiosa sulle ali, ed appicca il fuoco. S'allontana barcollando per un
centinaio di metri, e s'abbatte
di schianto nel piu folto d'una siepe: tutte le energie l’hanno
abbandonato. Dietro arde il rogo
immenso. Una densa colonna di fumo nero ed acre s'alza in molli
spirali verso il cielo ed un
crepitio secco di fucileria picchietta nell'aria. Le munizioni di bordo
esplodono.
Quando lo spasimo acuto della
ferita lo richiama alla realtà delle cose, attorno alle fumanti rovine
del Caproni è raccolta una
piccola folla, che commenta impaurita e sorpresa. Un prete ortodosso, un
gruppetto di bambini, delle
donne, qualche indigeno armato. Più lontano e fermo, un grosso Aviatik
che s'è appena posato sul
terreno. Due aviatori austriaci scendono, si dirigono verso il Caproni,
s'avvicinano ai monconi
fumiganti, scrutano, toccano, scrollano il capo, ritornano al loro velivolo e
ripartono.
Il dramma è finito per gli
avversari nostri. Anche la folla dirada e presto scompare.
Il capitano Ercole è sempre
appiattato nella siepe, colla ferita che gli sanguina, le labbra arse da una
sete insaziabile, la fronte in
fiamme, l'animo in tumulto. Un gemito, lo stormir di una fronda
potrebbe tradirlo, farlo
consegnare vivo in mano agli odiati nemici, concedere loro l'ultima
soddisfazione.
Bisogna resistere ancora,
vincersi e vincere ad ogni costo. E qui si compie l'ultimo e più fulgido atto
di questa breve epopea. Due
pensieri, due desiderii, due amori campeggiano dominano nell'anima
dell'invitto dominatore dell'aria:
"libertà e patria". Conseguire la prima per potersi ancor e sempre
dedicare all'altra.
L'avventurosa
fuga
E tutto quel che verrà poi:
l'affanno della lunga e dolorante fuga per le sterminate pianure, su per le
selvose valli, per i nudi ed aspri
dorsi montani, entro le fetide ed immense paludi; i tormenti della
fame: le angoscie dei momenti
decisivi: gli spasimi della disperazione: gli impeti folli delle
decisioni estreme: piccoli
epiloghi d'un atto decisivo.
Bisogna affermarsi in un'idea
precisa, in una volontà ferma ed incrollabile: pronunciare il voto,
giurare di compierlo al prezzo di
indicibili sofferenze fìsiche e morali.
Il capitano Ercole si trascina
carponi sull'orlo di uno stagno, leva a stento la giacca, strappa la
manica della maglia e della
camicia, mette a nudo la ferita, quasi a consultare l'oroscopo della sua
libertà. Si disseta dell'acqua
melmosa, in quella lava la piaga ... Ma non si smarrisce ancora. Non si
chiede ansioso se il braccio
resisterà alla cancrena, se le forze lo abbandoneranno presto, se la morte
lo coglierà prima che egli possa
raggiungere e varcare le nostre linee tanto, troppo lontane. Non
pensa e non teme le mille insidie
che lo attendono. Scavalcherà ogni linea intricata di difesa,
sguscierà fra le scolte notturne,
resisterà agli spasimi della sete, ai morsi della fame, a tutte le pene
dell'anima e del corpo. A tutto
egli opporrà la sua ferma, la sua incrollabile, la sua imbattibile fede
nella libertà.
Un attimo solo di dubbio gli
sfiora l'animo. Ed è preso da uno di quei ritorni infantili che
s'affacciano qualche volta sulla
soglia delle situazioni più tragiche. Vuol chiedere alla sorte una
conferma, una nuova affermazione,
quasi una spinta al suo volere. E' superstizioso: è napoletano.
Si fruga nelle tasche. Ma non ha
una moneta sola sulla faccia o sul rovescio della quale leggere il
responso. Enumera allora gli
occhielli dei lacci delle scarpe ... Se pari, s'arrenderà, rimarrà, si darà
vinto al destino..., se impari,
partirà.... "Pari!" risponde ironica la innocua e strana sibilla.
“No! no! non mi arrendo! vivo no!
non mi avranno! mai, mai!..." E l'animo ed il corpo sussultano
sotto questo spasimo di libertà,
sotto questa fiamma purissima d'amor patrio.
Ed il minuscolo eroe, camuffato a
mala pena da indigeno, col braccio dolorante, le labbra arse dalla
febbre della ferita e l'anima
invasa da quella del desiderio, senza un aiuto, senza un soldo, vivrà
miracolosamente per sette lunghi
giorni, camminerà per sette notti e prostrato ma non vinto
giungerà solo in un altro radioso
mattino davanti alle linee nostre sulla sponda nemica della
Vojussa. E dopo che avrà gridato
in un soffio alla scolta italiana il suo nome, appena giunto sulla
nuova terra d'Italia cadrà
ginocchioni per piangere le più dolci, le più care, le più consolatrici
lagrime.
FRANCO SCARIONI
Capitano osservatore
(Dallo "Sport Illustrato e
la Guerra").