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martedì 11 febbraio 2014

Angelo Ottaviani. Diaro

Ricordi dell'Impresa Africana" 1935-1936

(prefazione al Diario pubblicato su "Antiquaviva" Quaderni di Studi e Ricerche Ottobre 2013 Anno XV n.4)

L’impresa d’Etiopia rappresenta il culmine del consenso che il popolo italiano accordò al Fascismo nel suo arco ventennale di governo. La proclamazione dell’Impero, nel maggio 1936, rappresenta il successo a tutto tondo del movimento fascista, sottolineato dalle due adunate oceaniche, quella del 5 maggio 1936, quando Mussolini, come Capo del Governo e Duce del Fascismo, si affacciò dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, annunciando al popolo italiano la vittoria etiopica, con la famosa frase “Il Maresciallo Badoglio telegrafa: oggi alle 17, 15, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Adis Abeba”, e quella del 9 maggio, quando richiamò sotto il balcone ancora il popolo italiano, proclamando la ricostruzione dell’Impero, ricollegandosi in modo molto ardito, all’Impero dei Cesari.

L’impresa di Etiopia non era iniziata bene nel 1935. Il ricordo delle sconfitte di Dogali e di Adua aleggiava su tutto. Gli abissini di Menelik avevano dimostrato con queste vittorie a tutti gli Africani che l’uomo bianco poteva essere sconfitto e non era invincibile. L’Italia, agli inizi del novecento, fu l’unica potenza europea che dovette soprassedere alla sua espansione coloniale. Nel 1935 questo progetto fu ripreso, soprattutto per dare uno sfogo alla nostra emigrazione, non essendo la sola Libia sufficiente ad accoglierla.  Mussolini, che vedeva nella guerra d’Etiopia un banco di prova del regime, non esitò a sostituire De Bono, inizialmente al comando delle truppe in Etiopia,  con il più determinato Maresciallo Badoglio; e non esitò a mettere a disposizione ogni sorta di materiale, in armi e munizioni ed inviando tutti gli uomini necessari. Questa disponibilità, e per la prima volta le Forze Armate Italiane combatterono una guerra in abbondanza di mezzi, rappresenta una delle cause della nostra sconfitta nel 1940-1943. Entrammo in guerra nel 1940 contro le potenze mondiali, Francia ed Inghilterra, con scarse riserve sia finanziarie che materiali, ulteriormente depauperate anche dalla guerra di Spagna e d’Albania. Tutto quello che impiegammo nel 1935-1939 sarebbe stato utile nella Guerra Mondiale, come del resto fece la Germania, che tranne una fugace e sperimentale presenza in Spagna con la Legione Condor tenne entro i confini le sue forze armate.
In Etiopia, in ogni caso, le cose andarono bene. Il Maresciallo Badoglio, coordinandosi con le forze di Graziani operanti dalla Somalia, da ottobre 1935 a maggio 1936, partendo dall’Eritrea, lanciò una serie di offensive, punteggiate da battaglie come quella dell’Amba Aradam, del lago Tana, dell’Ascianghi, che a maggio lo portarono ad entrare in Adis Abeba. Ma Badoglio sapeva che con l’entrare nella capitale nemica, come ampiamente dimostrato dalla Storia, vedi Napoleone che nel 1812 entra a Mosca, la guerra non era finita. Infatti non era stato distrutto il grosso dell’Esercito etiope. Occorrevano altre operazioni, che in parte ci furono, ma non sufficienti al conseguimento di quello che oggi chiamiamo l’”end state”. Cioè la vittoria, il conseguimento dell’obiettivo primario. L’Etiopia nel maggio 1936 era stata occupata ma non conquistata. Era una verità che i clamori dei festeggiamenti mise in secondo piano, ma che poi negli anni seguenti pagammo duramente. Badoglio, conscio di questo, iniziò a far rimpatriare quelle truppe che dovevano essere impiegate per distruggere definitivamente l’avversario, come se la vittoria fosse stata conseguita. Rimpatriò lui stesso, carico di gloria e di bottino, lasciando il comando al Maresciallo Graziani, il suo concorrente ai posti principali e di vertice delle Forze Armate Italiane. E Graziani dovette affrontare una snervante quanto sempre più virulente guerriglia che ebbe il suo apice nell’attentato proprio a Graziani stesso nel 1937. Nei quattro anni che seguirono tutte le nostre risorse in colonia furono assorbite da questa guerriglia; purtroppo al momento della dichiarazione di guerra del giugno 1940 la sorte dell’Impero era segnata. Impossibilitato ad essere soccorso dalla madrepatria, in quanto il nemico controllava il Canale di Suez, con scarse risorse disponibili, non aveva i mezzi per nessuna iniziativa strategica (come l’attacco al Sudan su Karthum che avrebbe minacciato nel prosieguo L’Egitto e Suez collegandosi con le forze operanti in Libia); fu solo una difesa, ammantata di valore, ma senza speranza.  Nel maggio del 1941 le forze inglesi ebbero facile gioco a conquistare l’Etiopia, appoggiate dalle forze etiopi, padroni del territorio. Se si può fare una similitudine con i tempi nostri, tranne l’ultimo segmento, la nostra vicenda in Etiopia e simile all’intervento statunitense in Iraq nel 2003 e in Afganistan, subito dopo. Conseguita con relativa facilità, data la grande abbondanza e disponibilità di mezzi e materiali, l’occupazione  dell’ Iraq, le forze statunitensi non riuscirono, per effetto della guerriglia in essere, a conquistare l’Iraq stesso, ritirandosi dopo anni di attentati ed attacchi indiscriminati. In Afganistan lo stesso. Ed in questo paese anche la URSS fallì, occupando il territorio ma non conquistandolo, nel decennio 1979-1989. Ed il fallimento in Afganistan può essere considerano non uno degli ultimi motivi per cui la stessa Urss implose. Stati Uniti e URSS non studiarono a fondo e non trassero lezioni dalla nostra guerra in Etiopia del 1935-1936.

Il Diario di Angelo Ottaviani riverbera, con gli occhi di una Camicia Nera, gli avvenimenti sopra descritti, nel ruolo di gregario, di volontario che lascia la sua casa per libera scelta, per partecipare agli avvenimenti in cui la Patria è impegnata. Occorre porre una riflessione su questo aspetto volontario. Il nostro Risorgimento in cui si compì l’unità della nazione, nell’arco di tempo che va dal 1848 al 1870, con la I Guerra mondiale che rappresenta il suo naturale completamento, è stato caratterizzato dal fenomeno del volontariato. Non occorre fare tanti esempi, elencando tutti i corpi volontari del 1848 e del 1849; basta citare la Spedizione dei Mille ed il nome di Giuseppe Garibaldi per avere una dimensione della entità del fenomeno. Nel maggio del 1915 ci fu una gara ad arruolarsi, “ad avere un posto alla frontiere per combattere il nemico ereditario” come allora la nostra propaganda sottolineava. Nella guerra del 1936 vi fu lo stesso entusiasmo di popolo, ancorché incanalato dalla organizzazioni del Partito Nazionale Fascista e  recepito e raccolto nella istituzione voluta da Benito Mussolini e fondata il 1 febbraio 1923 che va sotto il nome di Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Questa Milizia, che doveva rappresentare il fascismo in armi ed in guerra, con afflusso dei volontari, da vita a Divisioni Camicie Nere (Divisioni CCNN) organicamente costituite appositamente per l’esigenza etiopica. Un volontariato che ha base regionale se non locale, infatti Ottaviani la scia Nepi con 19 suoi compagni, e fortemente ideologizzato. Un fenomeno che si può quasi dire di massa che si manifestò nel 1936, ma che non si manifestò nel maggio-giugno 1940 al momento della dichiarazione di guerra. Una contraddizione che qui non vi è lo spazio per approfondire, rimando alla monumentale biografia che Renzo de Felice ha scritto su Mussolini, e quindi sul fenomeno fascista, ma che anticipa i sintomi di quella disgregazione morale e di motivazione che poi avremo in misura sempre crescente per tutti i 39 mesi della guerra mondiale.
In Etiopia l’entusiasmo e la motivazione non viene meno, come emerge dalle pagine del Diario. Dalla concentrazione per esercitazioni nell’area a ridosso del porto di imbarco, Napoli, alla partenza, ove il saluto del Principe Ereditario rappresenta quella adesione di casa Savoia al Fascismo inequivocabile, al viaggio, che tutto sommato è tranquillo, pur passando in acque ostili, controllate dalla Gran Bretagna, l’impresa sembra più una grande manifestazione di popolo che una vera guerra. Anche l’impatto con l’ambiente operativo è  positivo: riga dopo riga traspare la fiducia nei Capi, nell’esito finale, nel senso di essere partecipe di giorni che saranno ricordati. La descrizione delle manovre per le varie battaglie sono recepite come elementi che punteggiano la giornata, la progressione verso esiti positivi, dati quasi per scontati, con la descrizione del nemico visto come “massa”, che, nonostante tutti gli sforzi che fa, deve battere in ritirata e darsi a precipitosa fuga. Colpisce come Ottaviani ripete, in modo quasi costante, la sua ammirazione per l’azione dell’aviazione, l’arma “fascistissima” che ha la prima occasione di dimostrare tutta la sua potenzialità. Sono fresche nella memoria degli Italiani le imprese Mediterranee ed Oceaniche di Italo Balbo, le transvolate che posero al centro dell’attenzione di tutto il mondo l’Arma Azzurra che in quegli anni era veramente di riferimento per tutte le aereonautiche, alla ricerca di uno sviluppo in cui ancora ci si discuteva tra il più leggero, il dirigibile, e il più pesante, l’aereo, dell’aria. Ottaviani nel suo diario sottolinea l’azione  dei nostri aerei, che colpiscono il nemico oltre le sue linee, in profondità. Non vi è cenno all’uso dei gas, che tanta simpatia del resto del mondo ci costò, e che a posteriori si rilevò un arma non definitiva, ma che fu una delle molle che compattò la resistenza etiopica, che poi pagammo molto cara.
Un altro aspetto da sottolineare sono le descrizioni non guerresche, che si intervallano nel Diario. La vita sulle ambe, la popolazione, le condizioni geografiche, di vita ed umane. I luoghi storici delle nostre precedenti azioni (Adua, Macallè, Forte Galliano, il cippo Toselli)) sono ricordati ma non commentati, quasi a voler sottolineare che sono ricordi in cui gli Etiopi risultano essere vincitori, l’esatto contrario di quello che lui in quel momento sta vivendo. Infine una nota particolare: l’accenno ai Caduti. Riverente, serio, onesto e di tutto rispetto, ma accettato come una cosa ineluttabile. Oggi le nostre missioni di pace vengono vissute e gestite con costi di vite umane a costo zero; quando, per fatalità o per azione avversa, un nostro Soldato cade, si ferma la Nazione. Un diverso impatto dettato dal diverso sentimento nazionale. Allora, i nostri Padri avevano per i Caduti in guerra, a livello emotivo generale, lo stesso atteggiamento che oggi noi abbiamo per le vittime degli incidenti della strada; una necessità, accettata con fatalismo e rassegnazione; i nostri Padri aggiungevano una forte componente di virilità.
Il Diario si chiude con la descrizione della fine della campagna, vista da lontano ed il rimpatrio, vissuto tutto senza trionfalismi. Molto significativo in quando si manifesta in questo atteggiamento il senso della scelta, il senso di appartenenza, il senso del dovere compiuto, il lavoro ben fatto, e l’essere soldati, l’orgoglio di avere dato tutto alla Patria, con tutto quello che significa. 
Un Diario che, pur nella sua dimensione, vale la pena di riproporre a tutti, non solo alla nuove generazioni, ma anche a quelle più o meno anziane, per un esempio di come si devono educare i figli, per come si deve vivere il senso di appartenenza, il vivere affrontando sacrifici e privazioni, per un bene superiore comune, che, nell’orizzonte che vediamo tutti i giorni, sembrano parole non solo sbiadite ma a molti incomprensibili.


Massimo Coltrinari,

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