Molti studiosi di storia o strategia militare si sono chiesti perché mai alla luce delle considerazioni esposte, i nostri non dichiararono la resa incondizionata sul posto anziché tentare la disperata ritirata che come abbiamo visto, si trasformò in tragedia.
Una prima ragione può ravvisarsi negli ordini stessi, resistere. L’etica militare avrebbe inoltre impedito una resa senza combattere soprattutto perché in quel momento non si capiva bene l’esito che avrebbe avuto la situazione.
Si sperava ancora nell’aiuto della Wermarcht ma soprattutto di poter raggiungere alcuni caposaldi da dove far ripartire un’offensiva in primavera.
Sicuramente ha inciso la consapevolezza che dopo quello che i Russi subirono dai tedeschi, il trattamento per i prigionieri alleati di Hitler sarebbe stato feroce, come infatti fu.
Le contrapposte ideologie fascista e comunista negli anni precedenti la guerra e durante la stessa avevano inoltre creato nell’animo dei combattenti idee distorte sulla fazione opposta. Fra i soldati italiani serpeggiava la paura di morire, ma l’idea di finire in un gulag sovietico non tranquillizzava affatto per cui tranne poche defezioni l’idea di arrendersi non balenò mai nell’animo di quei valorosi.
Analizzando i dati, i documenti che sono diventati disponibili con l’apertura degli archivi di Stato russi, (alla fine della guerra fredda) i numeri dicono che una resa non avrebbe cambiato di molto le cose.
I trasferimenti dal campo di battaglia ai campi di prigionia, attraverso lunghe marce a -40 C. non avrebbero risparmiato più vite, anche perché la stragrande maggioranza di italiani morirono nei gulag e non sul campo di battaglia.
(massimo coltrinari - ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org)
(massimo coltrinari - ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org)
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