Il principio “dell'unitarietà del comando” inteso come unica mente direttiva, in teoria è l'unico ad essere stato rispettato, ma in modo talmente esasperato che tutte le decisioni erano demandate a Hitler. Il principio cosi inteso ha il grosso difetto che al vertice della piramide si ha la visione panoramica della situazione, ma viene persa la sensazione delle concrete possibilità dei reparti. Soprattutto quando si è in carenza di forze, come lo erano i tedeschi, è essenziale che la situazione sia valutata in loco, perché solo in loco possono essere adottati i migliori e più convenienti correttivi. Questo è il corretto esercizio del Comando, non quello che intendeva Hitler e cioè gestire di persona tutto il potere militare avocando a sé ogni decisione in merito all'impegno delle riserve e ai ripiegamenti. Succede così che anche quando le decisioni sono prese, vengono comunicate alle unità in ritardo e sono ormai superate. I Comandanti ai vari livelli sono una ostentazione di volontà combattiva ed un desiderio di gareggiare con le vecchie truppe del CSIR; ma dietro questa vernice brillante si nascondeva un diffuso senso di sfiducia; esso era eco evidente della inefficace propaganda attuata in Patria e della penetrazione nociva della propaganda nemica che si diffondeva sempre più in profondità, appoggiandosi ai recenti successi inglesi In Africa. Di certo, in profondità, le condizioni del morale non erano affatto buone Le motivazioni erano molteplici: l'inverno e il freddo erano alleati dei russi e ostili agli italiani, popolo mediterraneo per eccellenza; la guerra che si combatteva non era sentita, era la guerra di Hitler; la famiglia e la casa erano lontane migliaia di chilometri.
A questo punto, riferendosi ai cinque principi classici e cioè “offensiva (iniziativa)”, “manovra”, massa, “sicurezza” e “sorpresa”, possiamo dire, senza alcun dubbio, che sono stati tutti violati.
Le motivazioni principali sono da ricercarsi:
- negli errori commessi da Hitler nel campo della grande strategia, con la dispersione delle forze nei numerosi Paesi occupati, la scelta di obiettivi divergenti e l'ostinazione con cui ha perseguito l'offensiva anche quando i rapporti di forze, materiali e morali, non erano dei più favorevoli (battaglie di Mosca e Stalingrado);
- nella conseguente assoluta inadeguatezza, per quantità e qualità, delle forze disponibili sul fronte orientale;
- nell'assunzione di un dispositivo tattico e logistico troppo proiettato in avanti;
- nell'immobilismo e nello schematismo dei Comandi ai vari livelli, ormai privi di qualsiasi fantasia operativa.
Considerando poi, sempre panoramicamente, gli altri tre principi non si può non rilevare come anch'essi siano stati profondamente disattesi in quanto l'unitarietà del comando, indubbiamente difficile da mantenere nell'ambito di Grandi Unità miste, è stata inficiata dalle eccessive ingerenze tedesche a livello strategico e tattico.
In ambito Gruppo Armate non è stata nemmeno realizzata l'economia delle forze (due Divisioni) ottenibile con un modesto arretramento dell'ala destra dell’Armata.
In sintesi, nella seconda battaglia difensiva del Don, nessun principio dell'arte della guerra è stato rispettato e il risultato, sotto il profilo militare, è stato un vero disastro. Questo tracollo, che purtroppo è costato la vita a 85.000 italiani, non è altro che una conferma, seppure triste e per certi aspetti ovvia, della eterna validità di tali regole.
In altre parole, un capo può arrischiarsi a violare qualcuno dei principi o a dare la preminenza ad uno piuttosto che ad un altro (ad esempio all'offensiva o alla massa a scapito della sicurezza), ma non può permettersi di disattenderli contemporaneamente tutti senza arrivare al rapido e irreversibile collasso dello strumento.
La presenza italiana sul fronte russo non trova giustificazione esclusivamente da una contrapposizione di tipo ideologico tra fascismo e comunismo, ma anche da elementi di pura convenienza sia politica che economica.
Vi era la convinzione, influenzata da una previsione troppo ottimistica avanzata dall’alleato tedesco, di una rapida e vittoriosa conclusione della guerra in territorio russo, e l’Italia non poteva mancare, assolutamente, ad un evento di cosi tanta rilevanza politico-strategica.
Al sorgere del conflitto, l’esercito italiano attraversava un periodo di grave deficienza derivante da un processo di riorganizzazione non ancora concluso, una situazione degli armamenti non adeguato alla sforzo bellico richiesto, mettendo le forze armate italiane in una condizione di inferiorità sia rispetto all’alleato tedesco sia rispetto al nemico russo.
Questa situazione deficitaria veniva ulteriormente aggravata dall’impiego delle forze armate italiane su diversi scacchieri operativi molto impegnativi sia in fase condotta che di sostentamento.
In contrapposizione a tutti questi elementi di vulnerabilità emerge l’impegno mostrato dai soldati italiani che hanno, nonostante la consapevolezza di una sicura sconfitta, mantenuto un morale sempre elevato e mostrato una resistenza accanita e caparbia come riconosciuto da fonti ufficiali russe.
Certamente il prezzo altissimo, in termini di sangue, pagato sul fronte russo deriva da una visione politica troppo spesso influenzata da quella predominante tedesca e da vertici militari isolati e incapaci di influenzare la manovra generale tedesca rea di non aver fornito, nei momenti cruciali, il necessario supporto per respingere l’offensiva nemica.
La carenza di mezzi corrazzati idonei per condurre azioni offensive, la disponibilità di armi controcarro appena sufficiente per difendersi dalle formazioni carriste operanti a sostegno della fanteria russa, l’ampiezza del settore assegnato e la non sempre sincronizzazione tra unità contigue italiane e tedesche mostrarono, in occasione della prima battaglia difensiva del Don, la totale inadeguatezza, da parte delle forze dell’asse, a contrastare l’offensiva dell’Armata russa sicuramente più determinata ed organizzata.
Tale inadeguatezza si mostrò in maniera ancor più tragica in occasione della seconda battaglia difensiva del Don quando, esaurita una prima fase di logoramento (durata 5 giorni), l’offensiva sovietica poté in soli 3 giorni conseguire notevoli successi strategici.
L’argomento in oggetto si presta a disquisizioni di vario genere, comprese quelle di natura squisitamente politica. La tragedia dell’ARMIR, la triste conclusione della seconda guerra mondiale per il nostro Paese, merita attente riflessioni. Dal nostro studio emergono molte questioni da analizzare, dai problemi riguardanti un equipaggiamento quantomeno inidoneo ad un uso insufficiente dell’arma aerea , tutto questo nel quadro di ordini forse eccessivamente rigidi. Le perdite sul fronte russo furono enormi, considerando i caduti sul campo ed i prigionieri, troppi, che non fecero mai ritorno a casa.
La battaglia che sconfisse l’ARMIR era solo l’ultima parte di una strategia assai complessa.
L’Operazione “Barbarossa” aveva indebolito, sfiancato, logorato i tedeschi; i Sovietici risposero con una strategia basata sulla resistenza , quella che lo schema logico di Neusen definisce “CLOCKING IN RUN”.
(a cura di massimo coltrinari - ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org)