La Associazione "Un ricordo per la pace" presieduta da Elisa Bonacini ha portato a termine con successo ricerche storiche che hanno stabilito l'esatto punto in cui cadde il padre di Roger Waters, Eric Fletcher Waters. Alcuni dati di queste ricerche, sviluppate per lo studio delle operazioni sulla costa pontina nel gennaio 1944, sono riportati in questo blog, come pure su: www.corpoitalianodiliberazione.blogspot.com, a cui si rimanda per approfondimenti
BLOG DI RIFERIMENTO PER STUDENTI UNIVERSITARI,DI MASTER, FREQUENTATORI DI CORSI DI FORMAZIONE PER INDICAZIONI, APPROFONDIMENTI,RICERCHE, LAVORI INDIVIDUALI E DI GRUPPO, REFERENZE BIBLIOGRAFICHE. Blog di riferimento del Master di I Livello "Storia Militare Contemporanea 1796 - 1960 - UNICUSANO Universtà Telematica Roma (direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org)
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domenica 23 febbraio 2014
lunedì 17 febbraio 2014
Lezioni. Anno 2014 Titolazione generale
La strategia del debole verso il forte.
La Guerriglia ed il Terrorismo
1. Introduzione alla Storia Militare. Il Metodo Storico
2. La Guerriglia oggi. e la nascita dello SM. L'inizio della elaborazione teoretica della Guerriglia
3. La Guerrgilia oggi ed i precedenti nella prima meta dell'ottocento
4. La Guerriglia oggi ed i precedenti nella prima meta del secolo breve
5. La Guerriglia oggi e la terorizzazione della Guerrigilia alla Vigialia della II Guerra Mondiale
6. La Guerriglia oggi ed i precedenti nella seconda metà del secolo breve
7. La Guerrgilia oggi e la storicizzazione.
Truppe Germaniche impegnate in azioni antiguerriglia nella seconda guerra mondiale . Anno 1943. |
per contatti: ricerca23@libero.it
martedì 11 febbraio 2014
Angelo Ottaviani. Diaro
Ricordi dell'Impresa Africana" 1935-1936
(prefazione al Diario pubblicato su "Antiquaviva" Quaderni di Studi e Ricerche Ottobre 2013 Anno XV n.4)
L’impresa
d’Etiopia rappresenta il culmine del consenso che il popolo italiano accordò al
Fascismo nel suo arco ventennale di governo. La proclamazione dell’Impero, nel
maggio 1936, rappresenta il successo a tutto tondo del movimento fascista,
sottolineato dalle due adunate oceaniche, quella del 5 maggio 1936, quando
Mussolini, come Capo del Governo e Duce del Fascismo, si affacciò dal balcone
di Palazzo Venezia a Roma, annunciando al popolo italiano la vittoria etiopica,
con la famosa frase “Il Maresciallo
Badoglio telegrafa: oggi alle 17, 15, alla testa delle truppe vittoriose, sono
entrato in Adis Abeba”, e quella del 9 maggio, quando richiamò sotto il
balcone ancora il popolo italiano, proclamando la ricostruzione dell’Impero,
ricollegandosi in modo molto ardito, all’Impero dei Cesari.
L’impresa
di Etiopia non era iniziata bene nel 1935. Il ricordo delle sconfitte di Dogali
e di Adua aleggiava su tutto. Gli abissini di Menelik avevano dimostrato con
queste vittorie a tutti gli Africani che l’uomo bianco poteva essere sconfitto
e non era invincibile. L’Italia, agli inizi del novecento, fu l’unica potenza
europea che dovette soprassedere alla sua espansione coloniale. Nel 1935 questo
progetto fu ripreso, soprattutto per dare uno sfogo alla nostra emigrazione,
non essendo la sola Libia sufficiente ad accoglierla. Mussolini, che vedeva nella guerra d’Etiopia
un banco di prova del regime, non esitò a sostituire De Bono, inizialmente al
comando delle truppe in Etiopia, con il
più determinato Maresciallo Badoglio; e non esitò a mettere a disposizione ogni
sorta di materiale, in armi e munizioni ed inviando tutti gli uomini necessari.
Questa disponibilità, e per la prima volta le Forze Armate Italiane
combatterono una guerra in abbondanza di mezzi, rappresenta una delle cause
della nostra sconfitta nel 1940-1943. Entrammo in guerra nel 1940 contro le
potenze mondiali, Francia ed Inghilterra, con scarse riserve sia finanziarie
che materiali, ulteriormente depauperate anche dalla guerra di Spagna e
d’Albania. Tutto quello che impiegammo nel 1935-1939 sarebbe stato utile nella
Guerra Mondiale, come del resto fece la Germania, che tranne una fugace e
sperimentale presenza in Spagna con la Legione Condor tenne entro i confini le
sue forze armate.
In
Etiopia, in ogni caso, le cose andarono bene. Il Maresciallo Badoglio,
coordinandosi con le forze di Graziani operanti dalla Somalia, da ottobre 1935
a maggio 1936, partendo dall’Eritrea, lanciò una serie di offensive,
punteggiate da battaglie come quella dell’Amba Aradam, del lago Tana,
dell’Ascianghi, che a maggio lo portarono ad entrare in Adis Abeba. Ma Badoglio
sapeva che con l’entrare nella capitale nemica, come ampiamente dimostrato
dalla Storia, vedi Napoleone che nel 1812 entra a Mosca, la guerra non era
finita. Infatti non era stato distrutto il grosso dell’Esercito etiope.
Occorrevano altre operazioni, che in parte ci furono, ma non sufficienti al
conseguimento di quello che oggi chiamiamo l’”end state”. Cioè la vittoria, il
conseguimento dell’obiettivo primario. L’Etiopia nel maggio 1936 era stata
occupata ma non conquistata. Era una verità che i clamori dei festeggiamenti
mise in secondo piano, ma che poi negli anni seguenti pagammo duramente.
Badoglio, conscio di questo, iniziò a far rimpatriare quelle truppe che dovevano
essere impiegate per distruggere definitivamente l’avversario, come se la
vittoria fosse stata conseguita. Rimpatriò lui stesso, carico di gloria e di
bottino, lasciando il comando al Maresciallo Graziani, il suo concorrente ai
posti principali e di vertice delle Forze Armate Italiane. E Graziani dovette
affrontare una snervante quanto sempre più virulente guerriglia che ebbe il suo
apice nell’attentato proprio a Graziani stesso nel 1937. Nei quattro anni che
seguirono tutte le nostre risorse in colonia furono assorbite da questa
guerriglia; purtroppo al momento della dichiarazione di guerra del giugno 1940
la sorte dell’Impero era segnata. Impossibilitato ad essere soccorso dalla
madrepatria, in quanto il nemico controllava il Canale di Suez, con scarse
risorse disponibili, non aveva i mezzi per nessuna iniziativa strategica (come
l’attacco al Sudan su Karthum che avrebbe minacciato nel prosieguo L’Egitto e
Suez collegandosi con le forze operanti in Libia); fu solo una difesa,
ammantata di valore, ma senza speranza.
Nel maggio del 1941 le forze inglesi ebbero facile gioco a conquistare
l’Etiopia, appoggiate dalle forze etiopi, padroni del territorio. Se si può
fare una similitudine con i tempi nostri, tranne l’ultimo segmento, la nostra
vicenda in Etiopia e simile all’intervento statunitense in Iraq nel 2003 e in
Afganistan, subito dopo. Conseguita con relativa facilità, data la grande
abbondanza e disponibilità di mezzi e materiali, l’occupazione dell’ Iraq, le forze statunitensi non
riuscirono, per effetto della guerriglia in essere, a conquistare l’Iraq
stesso, ritirandosi dopo anni di attentati ed attacchi indiscriminati. In
Afganistan lo stesso. Ed in questo paese anche la URSS fallì, occupando il
territorio ma non conquistandolo, nel decennio 1979-1989. Ed il fallimento in
Afganistan può essere considerano non uno degli ultimi motivi per cui la stessa
Urss implose. Stati Uniti e URSS non studiarono a fondo e non trassero lezioni
dalla nostra guerra in Etiopia del 1935-1936.
Il
Diario di Angelo Ottaviani riverbera, con gli occhi di una Camicia Nera, gli
avvenimenti sopra descritti, nel ruolo di gregario, di volontario che lascia la
sua casa per libera scelta, per partecipare agli avvenimenti in cui la Patria è
impegnata. Occorre porre una riflessione su questo aspetto volontario. Il
nostro Risorgimento in cui si compì l’unità della nazione, nell’arco di tempo
che va dal 1848 al 1870, con la I Guerra mondiale che rappresenta il suo naturale
completamento, è stato caratterizzato dal fenomeno del volontariato. Non
occorre fare tanti esempi, elencando tutti i corpi volontari del 1848 e del
1849; basta citare la Spedizione dei Mille ed il nome di Giuseppe Garibaldi per
avere una dimensione della entità del fenomeno. Nel maggio del 1915 ci fu una
gara ad arruolarsi, “ad avere un posto
alla frontiere per combattere il nemico ereditario” come allora la nostra
propaganda sottolineava. Nella guerra del 1936 vi fu lo stesso entusiasmo di
popolo, ancorché incanalato dalla organizzazioni del Partito Nazionale Fascista
e recepito e raccolto nella istituzione
voluta da Benito Mussolini e fondata il 1 febbraio 1923 che va sotto il nome di
Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Questa Milizia, che doveva
rappresentare il fascismo in armi ed in guerra, con afflusso dei volontari, da
vita a Divisioni Camicie Nere (Divisioni CCNN) organicamente costituite
appositamente per l’esigenza etiopica. Un volontariato che ha base regionale se
non locale, infatti Ottaviani la scia Nepi con 19 suoi compagni, e fortemente
ideologizzato. Un fenomeno che si può quasi dire di massa che si manifestò nel
1936, ma che non si manifestò nel maggio-giugno 1940 al momento della
dichiarazione di guerra. Una contraddizione che qui non vi è lo spazio per approfondire,
rimando alla monumentale biografia che Renzo de Felice ha scritto su Mussolini,
e quindi sul fenomeno fascista, ma che anticipa i sintomi di quella
disgregazione morale e di motivazione che poi avremo in misura sempre crescente
per tutti i 39 mesi della guerra mondiale.
In
Etiopia l’entusiasmo e la motivazione non viene meno, come emerge dalle pagine
del Diario. Dalla concentrazione per esercitazioni nell’area a ridosso del
porto di imbarco, Napoli, alla partenza, ove il saluto del Principe Ereditario
rappresenta quella adesione di casa Savoia al Fascismo inequivocabile, al
viaggio, che tutto sommato è tranquillo, pur passando in acque ostili,
controllate dalla Gran Bretagna, l’impresa sembra più una grande manifestazione
di popolo che una vera guerra. Anche l’impatto con l’ambiente operativo è positivo: riga dopo riga traspare la fiducia
nei Capi, nell’esito finale, nel senso di essere partecipe di giorni che
saranno ricordati. La descrizione delle manovre per le varie battaglie sono
recepite come elementi che punteggiano la giornata, la progressione verso esiti
positivi, dati quasi per scontati, con la descrizione del nemico visto come
“massa”, che, nonostante tutti gli sforzi che fa, deve battere in ritirata e
darsi a precipitosa fuga. Colpisce come Ottaviani ripete, in modo quasi
costante, la sua ammirazione per l’azione dell’aviazione, l’arma
“fascistissima” che ha la prima occasione di dimostrare tutta la sua
potenzialità. Sono fresche nella memoria degli Italiani le imprese Mediterranee
ed Oceaniche di Italo Balbo, le transvolate che posero al centro
dell’attenzione di tutto il mondo l’Arma Azzurra che in quegli anni era
veramente di riferimento per tutte le aereonautiche, alla ricerca di uno
sviluppo in cui ancora ci si discuteva tra il più leggero, il dirigibile, e il
più pesante, l’aereo, dell’aria. Ottaviani nel suo diario sottolinea
l’azione dei nostri aerei, che
colpiscono il nemico oltre le sue linee, in profondità. Non vi è cenno all’uso
dei gas, che tanta simpatia del resto del mondo ci costò, e che a posteriori si
rilevò un arma non definitiva, ma che fu una delle molle che compattò la
resistenza etiopica, che poi pagammo molto cara.
Un
altro aspetto da sottolineare sono le descrizioni non guerresche, che si
intervallano nel Diario. La vita sulle ambe, la popolazione, le condizioni
geografiche, di vita ed umane. I luoghi storici delle nostre precedenti azioni
(Adua, Macallè, Forte Galliano, il cippo Toselli)) sono ricordati ma non
commentati, quasi a voler sottolineare che sono ricordi in cui gli Etiopi
risultano essere vincitori, l’esatto contrario di quello che lui in quel
momento sta vivendo. Infine una nota particolare: l’accenno ai Caduti.
Riverente, serio, onesto e di tutto rispetto, ma accettato come una cosa
ineluttabile. Oggi le nostre missioni di pace vengono vissute e gestite con
costi di vite umane a costo zero; quando, per fatalità o per azione avversa, un
nostro Soldato cade, si ferma la Nazione. Un diverso impatto dettato dal
diverso sentimento nazionale. Allora, i nostri Padri avevano per i Caduti in
guerra, a livello emotivo generale, lo stesso atteggiamento che oggi noi
abbiamo per le vittime degli incidenti della strada; una necessità, accettata
con fatalismo e rassegnazione; i nostri Padri aggiungevano una forte componente
di virilità.
Il
Diario si chiude con la descrizione della fine della campagna, vista da lontano
ed il rimpatrio, vissuto tutto senza trionfalismi. Molto significativo in
quando si manifesta in questo atteggiamento il senso della scelta, il senso di
appartenenza, il senso del dovere compiuto, il lavoro ben fatto, e l’essere
soldati, l’orgoglio di avere dato tutto alla Patria, con tutto quello che
significa.
Un
Diario che, pur nella sua dimensione, vale la pena di riproporre a tutti, non
solo alla nuove generazioni, ma anche a quelle più o meno anziane, per un
esempio di come si devono educare i figli, per come si deve vivere il senso di
appartenenza, il vivere affrontando sacrifici e privazioni, per un bene
superiore comune, che, nell’orizzonte che vediamo tutti i giorni, sembrano
parole non solo sbiadite ma a molti incomprensibili.
Massimo Coltrinari,
lunedì 3 febbraio 2014
Equipaggiamenti La Storia della Gavetta
Il termine Gavetta (o
Gamella che sono sinonimi) è tradizionalmente fatto risalire alla lingua latina
con significato di “scodella”.
Gavetta deriverebbe dal
termine “Gabata”, che a Roma antica aveva una connotazione di origine
straniera, mentre Gamella da “Camella”, probabilmente con chiaro riferimento
alla gobba del cammello che nella sua forma ricorda quella di un recipiente
rovesciato.
Il termine Gavetta e di
più Gamella, nei secoli rinascimentali era legato più al mondo marinaro che a
quello delle truppe di terraferma. Infatti a bordo delle galee e delle navi in
genere veniva così denominata la grossa scodella in cui consumavano il pasto un
gruppo di uomini, in genere sette. Il termine si istituzionalizzò al punto che
con gavetta si indicava un gruppo di sette marinai ammessi al rancio.
Ancora un legame con la
tradizione marinara del termine Gavetta. Nel linguaggio architettonico si
definisce “volta a gavetta” quella ottenuta intersecando una volta a padiglione
con un piano orizzontale: si ottiene così una figura che ricorda la chiglia di
un certo tipo di imbarcazioni. La volta a gavetta viene detta anche “volta a
schifo” ed il termine “schifo”indicava nell’antica costruzione navale una
imbarcazione adibita al servizio di una nave maggiore. Considerando che
“schifo” viene fatto derivare dal longobardo SKIF e che nella lingua inglese
SKIFF sta a definire una leggera imbarcazione a remi o a vela, si può collocare
il termine Gavetta, nella sua primitiva adozione, alle forme navali antiche o
di modello particolare. Un ultima annotazione: se si rovescia la volta a
gavetta, si legge una forma di contenitore che da una parte ricorda un natante,
dall’altra si avvicina in modo particolare a quell’utensile che nella
tradizione umbra viene chiamato “capestio” e che quella marchigiana chiama
“scodella”.
L’Introduzione
dell’uso della Gavetta nelle formazioni militari di terra.
L’uso della gavetta
come contenitore di cibo e strumento per la confezione del rancio (pasto) è
strettamente legato alla tecnica di gestione delle sussistenze nel quadro
storico dell’organizzazione logistica dell’Esercito.
Fino al periodo
napoleonico ogni soldato doveva provvedere da se alla confezione del proprio
rancio, spesso ricorrendo a soluzioni tutt’altro che accettabili come
taverne, cucinerei improvvisate ecc.. Si
iniziò a sentire l’esigenza di uno strumento come la Gavetta nel momento in
cui, passata l’era Napoleonica si istituzionalizzarono le prime caserme, ovvero
edifici funzionalmente concepiti su criteri esclusivamente militari.
Nel clima della
restaurazione, l’espeerienza napoleonica in seno agli eserciti non poteva
essere ignorata. Furono emanate tutta una serie di disposizioni intese a
rendere la struttura militare quanto mai omogenea sulla base dell’ordinamento e
dele capacità operative specifiche dei corpi. Non possiamo portare ad esempio i
vari eserciti europei o quelli pre unitari in quanto sarebbe troppo dispersivo.
Prendiamo a modello l’esercito sardo, che poi nel 1861 diverrà l’Esercito
Italiano.
Nell’ambito della
Intendenza Generale di Guerra, creata il 19 novembre 1816 su trasformazione del
settecentesco Ufficio Generale del Soldo, in cui si trattavano tutte quelle funzoni che oggi sono assolte dal Corpo di
Amministrazione e Commissariato incentrate sulla logistica dell’uomo, furono emanate via via regolamenti che resero
la struttura militare più omogenea.
Nel Regio Editto Penale
Militare del 1822 furono codificati gli oggetti personali del corredo del
soldato in cui figurava un “gamellino” in cui la forma e la capacità non
venivano indicate.
Il termine Gavetta
appare per la prima volta nei nostri ordinamenti nel 1833. Da quella data le
nostre truppe ebbero in dotazioni i modelli di gavetta così come indicato
-
Gavetta modello
1833
-
Gavetta modello
1835
-
Gavetta modello
1872
-
Gavetta modello
1930 grande
-
Gavetta modello
1930 piccola
Il Modello 1833
Il regolamento del 1833
definisce sia i materiale che il modello della Gavetta, destinata ai “bassi
ufficiali” ed ai soldati.
E’ in ferro battuto, di
forma cilindrica, proposta in due versioni una per la cavalleria, (peso 14/16
once circa 450 gr., larghezza 155
mm altezza 89
mm )ed una più bassa e più larga ma della stessa capienza,(
peso 15 once
circa 450 gr., larghezza 175, altezza 57 mm . ) per la fanteria. LA capacità di questo
modello era 1 pinta
equivalente a 1,369
litri .
Il
Modello 1835
L’adozione del modello 1833 non rese soddisfatti e
subito furono proposte modifiche che, acquisite, diede vita al modello 1835,
modello che nelle sue forme sostanziali rimarrà in vigore fino ai nostri
giorni.
Il Regio Biglietto
pubblicato sul Giornale Militare il 11 Agosto 1835 stabiliva, art. 2:
la forma: doveva essere semicircolare con angoli
mistilinei smorzati ad arco; il fondo esterno leggermente convesso, larga 200 mm , alta 150, il
coperchio 38 mm .
è di latta
forte detta doppia, il peso sempre di 450 gr.
composta da due parti distinte, il corpo ed il fondo
tenute insieme da una saldatura a lamina rivoltata sicchè possa reggere al
fuoco
riporta un manico collegato alle estremita per il
trasporto
Questo tipo di gavetta è veramente rivoluzionario,
procurando vantaggi consistenti.
Dotata di un manico ne agevola il trasporto, anche in
caso di completo riempimento; la superficie piana aderiva allo zaino, mentre
quella convessa era più resistente agli urti; i liquidi contenuti, essendo a
sviluppo verticale, erano più controllabili; aveva una sua indubbia
“manualità”.
Il modello fu distribuito
solo alla fanteria ed agli zappatori del genio, mentre la Cavalleria continuava
ad avere la gavetta del modello precedente, era costruito con la lamiera detta
“ a bandone”. Nel 1837 fu distribuita all’artiglieria. La cavalleria continuò
ad usare il vecchio 1833 modello fino al 1855, alla vigilia della spedizione in
Crimea.
Il modello 1872
All’indomani della
Presa di Roma, nel fervore delle riforme volute dal generale Ricotti Magnani
con circolare 124 nota 10 pubblicata sul Giornale Militare 24 giugno 1872 fu
adottata un nuovo tipo di gavetta che, memori delle esperienze della guerra al
brigantaggio, doveva portare delle novità nella confezione del rancio. Il nuovo
modello era in lamiera ed era tale da potervi confezionare il rancio per tre
uomini o il caffè per sei. Di questo modello vennero forniti tutti i dettagli
tecnici, nella forma ricalcava sostanzialmente il modello precedente, mentre la
capacita passava da 1,350
litri a 1,5.
La novità era
costituita dal manico recante uno snodo al centro che permetteva al manico
stesso di adattarsi alla forma convessa della gavetta quando la si applicava
allo zaino. Una piastrina di ottone rivettata a destra del passante metallico
del coperchio recava per ponzunatura il cognome del soldato a cui apparteneva,
che nel 1887 fu sostituito da una lettera dell’alfabeto e da un numero da 1 a 999. Fu distribuita alla
fanteria, mentre la cavalleria continua ad avere il precedente modello
Il modello 1872 rimase
in uso alla Fanteria fino al 1882 anno in cui si torno al precedente modello,
senza specificarne le ragioni
Nel 1896 si adottò,
tranne che per gli alpini e l’artiglieria da montagna un tipo di gavetta più
piccolo per tutte le armi.
Il
modello 1930 grande Il modello 1930 piccola
Negli anni trenta la
gavetta fu completamente riprogettata, ad oltre un secolo dalla sua comparsa,
con materiali tecniche di lavorazioni e particolari nuovi. Si tratto di una
seconda rivoluzione nella storia dell’oggetto di equipaggiamento che venne
realizzato in lamiera d’alluminio che produceva la forma per stampaggio. Si
hanno due vantaggi: l’alluminio era un metallo decisamente più leggero degli
altri fino ad allora usati; la tecnica di lavorazione e stampaggio portava alla
realizzazione di un elemento compiuto senza ricorrere alle saldature. Gli
occhielli di fissaggio del manico erano ottenuti per fusione sempre di
alluminio ed applicati al corpo della gavetta con dei ribattini dello stesso
metallo.
Un altro aspetto
innovativo fu l’attenzione dedicata al coperchio che fu dotato di un comodissimo
manico incernierato sulla parte piana in modo tale da potersi ripiegare
sull’interno del coperchio stesso. Si sanciva così l’utilità di quello che
veniva chiamato comunemente coperchio ma che in realtà diveniva definitivamente
ad essere un proprio contenitore utensile con uso specifico, forse mai
regolamenta ufficialmente, ma inventato di volta in volta dalla fantasia del
soldato stimolata dalle situazioni contingenti.
I modelli di gavetta
del 1930 sono in tutto conformi a quelli attualmente in dotazione; le uniche
differenze consistono nell’essenza, nel modello attuale, dei passanti metallici
per le cinghie di fissaggio e nell’aggiunta di un bottone in alluminio sul
coperchio sul lato opposto al manico. Da notare che aggiungendo un altro
coperchio con il manico ed il bottone in posizione invertita rispetto al
coperchio superiore il manico di ogni coperchio va a fermarsi sul bottone del
coperchio opposto in modo da realizzare una solida chiusura dell’oggetto così
composto.
(Massimo coltrinari. ricerca23@libero.it)
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