Napoleone e i
principi dell’arte della guerra
Napoleone
aveva sicuramente assimilato la teoria dell’arte della guerra sin dai tempi
della scuola di Brienne, alla quale l'aveva iscritto il padre e, soprattutto,
alla scuola militare di Parigi, dove però i risultati negli studi non furono
brillanti: diventò infatti sottotenente
di artiglieria classificandosi tra gli ultimi del suo corso.
Ciò
peraltro non deve stupire se si pensa che Napoleone era un piccolo nobile di
una provincia d'oltremare, la
Corsica , in mezzo ai più noti rampolli della grande nobiltà
francese che lo prendevano in giro per la sua pelle olivastra e la scarsa
conoscenza del francese. Anche allora probabilmente non era estraneo il
principio della raccomandazione.
Inoltre,
non si deve dimenticare che Napoleone Buonaparte (così si chiamava fino al
marzo del 1796, quando francesizzò il proprio nome in Bonaparte) non
padroneggiava la lingua francese come i suoi compagni di scuola ed eccelleva in
matematica ma non nelle altre materie.
La
teoria ha codificato i principi dell’arte della guerra sostenendo che essi sono
immutabili nel tempo. Nella storia moderna i maestri in materia sono stati,
come tutti sappiamo, Machiavelli e Clausewitz e nei testi didattici delle
scuole militari moderne sono ormai consolidati alcuni principi fondamentali che
tutti conosciamo, come la massa, la velocità, la sorpresa.
Machiavelli
è stato sicuramente studiato da Napoleone ed è stata pubblicata anche
un'edizione de “Il principe” annotata da Napoleone; il testo sarebbe stato
ritrovato nella carrozza dell'imperatore al rientro dall'infausta campagna di
Russia. Le annotazioni di Napoleone appaiono verosimili perché sostanzialmente
confronta la figura del principe con se stesso, ma si ritiene che l’opera sia
sostanzialmente apocrifa.
Clausewitz,
invece, ha scritto la sua opera “Della guerra” avvalendosi delle esperienze e
degli ammaestramenti tratti anche e soprattutto dalla strategia e dalla tattica
napoleonica.
Il celebre
aforisma di Clausewitz “La
guerra non è soltanto un atto politico, ma un vero strumento politico: una
prosecuzione dell'attività politica, una sua continuazione con altri mezzi” è una perspicace osservazione della vicenda
napoleonica.
Bonaparte
fu prevalentemente un autodidatta ed era notoriamente un grande lettore e
conosceva approfonditamente i classici della storia e della strategia, da Tito
Livio a Giulio Cesare e Machiavelli, per non citare che i più noti, e ne
portava i testi con sé anche durante le campagne di guerra. Derivò però la sua
vera cultura in tema di strategia e di tattica soprattutto dagli insegnamenti
del Maresciallo Maillebois, un condottiero francese della metà del settecento
che egli studiò e apprezzò in modo particolare.
Napoleone
tuttavia non fu mai un teorico bensì un grande pragmatico. Le memorie che dettò
a Sant'Elena possono apparire come una codificazione di principi dell'arte
della guerra che egli aveva sperimentato e padroneggiato. Non è così: sono
piuttosto un tentativo brillantemente riuscito di mettere in rilievo per la
posterità le sue straordinarie capacità non solo di ingegno ma anche di lavoro, determinazione e soprattutto di
ambizione.
Napoleone
Bonaparte durante le sue campagne, sia come giovane generale, sia come Primo
Console e anche come imperatore, ha applicato i principi dell'arte della guerra
in maniera intuitiva e pragmatica; egli stesso sostiene, infatti, che nessuna
battaglia è uguale alla successiva e che nessuna battaglia è condotta e
terminata come era stata pianificata.
Il
piano strategico-tattico preventivo è indubbiamente necessario ma è ancor più
necessario, affermava, avere il coraggio e la capacità di adattarlo alla
situazione del momento e all'evolvere del conflitto ([2]).
L’immaginario
collettivo è, ad esempio, affascinato dalla vittoria di Austerlitz nella
campagna del 1805 contro la terza coalizione (Inghilterra, Austria e Russia)
che si concluse appunto con quella
celeberrima battaglia.
Ma
quella campagna non fu caratterizzata solo dall’esito della giornata di
Austerlitz ma, soprattutto, dalla determinazione e dalla capacità
dell'Imperatore di spostare nel giro di un mese dalle coste della Manica un
esercito di 300.000 uomini, con i quali si riprometteva di invadere
l’Inghilterra, attraversare vittorioso tutta l'Europa per giungere oltre
Vienna, ad Austerlitz appunto, concentrando nel momento e nel luogo più idoneo
le forze per battere la coalizione avversaria ([3]).
Ritengo
che sia più interessante, piuttosto che analizzare sotto il profilo teorico la
genialità di Napoleone, conoscerne le vicende più significative. In altri e più
chiari termini s’impara di più la strategia e la tattica studiando l’evoluzione
delle campagne dei grandi condottieri piuttosto che mandare a memoria il
Clausewitz. Ho scelto a questo scopo le fasi iniziali delle due campagne
d'Italia del 1796 e del 1800, dove egli, ancora giovanissimo (nel 1796 aveva
solo 27 anni), seppe agire con quella genialità pratica che è l’essenza della
sua arte della guerra.
Non
a caso ho scelto queste due campagne, anche se altri eventi bellici successivi
hanno un maggior valore nell'immaginario collettivo (mi riferisco alle
battaglie di Austerlitz, Jiena o Wagram,
per non citare che alcune delle 100 battaglie combattute da Napoleone).
Si
tratta di operazioni belliche condotte su un territorio che noi italiani ben
conosciamo ma soprattutto, più che nelle altre, da esse si può capire come
Napoleone abbia armonizzato brillantemente movimento, massa e sorpresa e come
esigenze politiche, esigenze strategiche ed esigenze tattiche siano state un
insieme inscindibile nella sua mente.
La fase iniziale della prima campagna d’Italia ([4])
Nel
1796 durante la guerra contro la prima coalizione (Inghilterra, Austria,
Piemonte) il Direttorio riteneva che il fronte principale fosse a nord delle
Alpi e considerava le operazioni dell’Armata d’Italia secondarie e destinate
solo a fare cassa nella ricca Italia.
L’offensiva
di Bonaparte ribaltò la gravitazione degli sforzi e le sue brillanti vittorie
furono la dimostrazione della bontà della sua strategia. Contravvenne anche
alle direttive del Direttorio che intendeva salvaguardare il Piemonte dei
Savoia mentre egli volle neutralizzarlo e costringerlo a una pace separata.
Partendo da Nizza arrivò quasi alle porte di Vienna. La sua genialità rifulse
nella prima parte della campagna, quando aveva di fronte ancora le due armate
piemontese ed austriaca.
Contro
due armate, una austriaca di 40.000 uomini al comando del feldmaresciallo
Beaulieu e una piemontese di 42.000 uomini al comando del feldmaresciallo
Colli, avendo a disposizione 47.000 uomini in pessime condizioni, facendo leva
sulla disciplina ma anche sulla promessa di onori e di bottino, riuscì a
galvanizzare una truppa sfiduciata, senza soldo, senza viveri e senza scarpe, a
separare le due armate, battere la piemontese costringendola, dopo appena un
mese dall’inizio delle ostilità, all’armistizio di Cherasco e proseguire poi
contro gli austriaci. Fu certo aiutato in questo dalla mancanza di cooperazione
tra gli avversari che fecero a gara per farlo vincere.
In
sintesi, gli austriaci e i piemontesi commisero errori esiziali:
·
operarono con
obiettivi divergenti (salvare Torino e salvare Milano) ed esclusivamente in difensiva;
·
non
strinsero un patto di comando unico;
·
disseminarono
le forze (doppie dei francesi);
·
non
coordinarono operazioni di soccorso reciproco;
·
non
sfruttarono successi locali, che pur ci furono.
Bonaparte
non fece invece praticamente errori e l’offensiva che condusse all’armistizio
di Cherasco fu una guerra lampo “ante litteram”.
La fase iniziale della seconda campagna d’Italia ([5])
Anche
nella seconda campagna risalta, prima ancora che l’aspetto tattico, la grande
intuizione strategica. Bonaparte, Primo
Console, costituì in brevissimo tempo un’armata di riserva a Digione, valicò le
Alpi dove nessuno lo aveva immaginato possibile, aggirò l’intera armata
austriaca protesa dal Piemonte verso la Provenza sull’onda dei successi ottenuti l’anno
precedente, realizzando così la sorpresa
non solo in campo tattico ma addirittura strategico. Battè infine l’armata
austriaca al comando del feldmaresciallo von Melas a Marengo (14 giugno 1800).
Marengo
non fu però il capolavoro di Bonaparte che egli si sforzò di far credere, in
verità riuscendoci. Tanto fu brillante la manovra che condusse l’armata
francese nella pianura padana alle spalle degli austriaci quanto la condotta
dello scontro di Marengo fu miope. Napoleone errò nella valutazione delle
intenzioni del nemico e disperse le forze. Il Corpo di Desaix solo
fortunosamente ritornò in tempo sul campo di battaglia.
La
battaglia di Marengo non consentì l’annientamento dell’Armata di von Melas,
lasciò i contendenti alla sera del 14 giugno sulle stesse posizioni sulle quali
si trovavano al mattino, indebolì quasi nella stessa misura austriaci e
francesi. Fu vinta da Bonaparte solo
perché il Comandante in capo austriaco non trovò di meglio che arrendersi
spontaneamente. Marengo non pose termine alla guerra che sarebbe terminata solo
a febbraio dell’anno successivo (Pace di Lunéville), dopo la vittoria, questa
sì determinante, del Generale Moreau a
Hohenlinden nel dicembre del 1800.
Il felmaresciallo von Melas
accumulò sbagli su sbagli:
·
perse
l’occasione di occupare la
Provenza in primavera;
·
sottovalutò
l’Armata di riserva e non averla bloccata sulle Alpi;
·
disseminò
l’Armata in Piemonte e in Lombardia;
·
accettò lo
scontro invece di portarsi verso Mantova o Genova;
·
suddivise
la propria cavalleria, che era un punto di forza determinante;
·
non
effettuò ricognizioni sul terreno, pur avendo preso l’iniziativa;
·
costituì
colonne d’attacco “ad hoc” smembrando reparti organici;
·
informò
scarsamente i Comandanti in sottordine sul piano d’operazioni;
·
non motivò
i reparti alla vigilia della battaglia;
·
abbandonò
al nemico il giorno 13 sera proprio l’area di Marengo che il giorno dopo fu
costretto a riconquistare a caro prezzo.
A Marengo anche Bonaparte non
fu però immune da errori:
·
non
individuò a tempo le intenzioni offensive degli austriaci;
·
distaccò
tre Divisioni (Desaix e Lapoype) in inutili esplorazioni;
·
non
perseguì l’annientamento dell’Armata austriaca.
Conclusioni
Napoleone
fu indubbiamente un grande tattico ma soprattutto fu un grande stratega. Si
celebrano le sue battaglie ma si trascura il fatto che a quelle battaglie vinte
Napoleone giunse attraverso concezioni strategiche ad amplissimo respiro,
soprattutto per allora ([6]). In
entrambe le campagne d’Italia non furono solo importanti le singole battaglie
ma grandioso e ardito disegno strategico che ne fu la premessa.
Le
vicende della prima e della seconda campagna d’Italia ([7])
insegnano che tra i principi dell’arte della guerra sia da aggiungere “saper
approfittare della fortuna” e non è un paradosso. Essa ha giocato un ruolo
molto importante in queste due campagne e non solo in queste: a Marengo Desaix
avverte il rombo del cannone e arriva in tempo mentre a Waterloo Grouschy,
inviato da Napoleone fuori dell’area della battaglia, sente il rombo del
cannone ma non rientra, ritenendo di dover eseguire il primitivo ordine
dell’imperatore. Gli esiti furono ovviamente opposti.
Emblematica,
sotto questo profilo, l’operazione Voltri nella prima campagna, voluta dal suo
predecessore, da lui non condivisa ma utilizzata per distrarre forze nemiche
dalla direttrice di gravitazione dello sforzo ([8]).
Adottò
sempre rapidi mutamenti degli schieramenti e delle direzioni d’attacco in
funzione dell’evolvere delle situazioni ([9]) ([10]).
Seppe
con intelligenza suddividere i reparti sul territorio, mantenerli leggeri per
muovere più agevolmente ([11]),
per sopravvivere con approvvigionamenti e saccheggi e per confondere il nemico
sulla direzione dello sforzo principale, e concentrarli nel momento decisivo
per realizzare la massa facendo leva sulla velocità di spostamento delle truppe
([12]).
“L’Imperatore
fa la guerra con le nostre gambe” dicevano i “grognard”([13]). I
soldati francesi erano in prevalenza contadini di leva, che muovevano solo con
l’armamento, il munizionamento e quei pochi viveri che venivano distribuiti,
dormivano all’addiaccio al fuoco dei bivacchi quando non trovavano case
coloniche dove rifugiarsi ([14]).
Ciò,
al contrario degli austriaci, militari di carriera i quali, come scrisse
Napoleone a Sant’Elena, non si capiva come facessero a combattere così
appesantiti.
Aveva
un rapporto privilegiato con i soldati che a Lodi lo soprannominarono “il
piccolo caporale” e che chiamava i miei figli, anche se poi non esitava a
sacrificarli a migliaia, anziché con i generali che teneva piuttosto a
distanza, e visitava i reparti con frequenza (a differenza degli austriaci) ([15]).
Una
sua costante preoccupazione fu la ricerca della sorpresa attraverso la scelta
di linee d’operazione alternative e
dovunque mantenendo il segreto sulle proprie intenzioni ([16]).
Ebbe
l’intuizione e sperimentò l’impiego delle artiglierie a massa anziché
disperderle a supporto diretto dei singoli reparti ([17]).
Privilegiò anche l’impiego a massa della cavalleria; nell’Armata di riserva la
cavalleria era tutta al comando di Murat, mentre gli austriaci, pur avendo
reparti di cavalleria ben più efficienti ed equipaggiati dei francesi, non
seppero impiegarla a massa, cosa che avrebbe cambiato l’esito della battaglia ([18]).
Napoleone
può essere considerato l’inventore delle unità complesse pluriarma (Divisioni e
Corpi d’Armata) da utilizzare come pedine autonome, mentre gli austriaci
consideravano il reggimento solo come unità organiche e non necessariamente
operative, che in combattimento potevano essere scisse per ricostituire altri
reparti “ad hoc”.
Per
quanto riguarda l’organizzazione di Stato maggiore, è’ noto che Berthier fu il
Capo di Stato maggiore per eccellenza di Napoleone, bravo a tavolino, meno
quale Comandante. Occorre però precisare che Bonaparte utilizzò gli Stati
maggiori quasi esclusivamente come organi per la redazione e la diffusione
delle sue direttive verbali, piuttosto che come organo di consulenza in senso
moderno.
La
consapevolezza della sua superiorità oppure l’urgenza gli faceva spesso
scavalcare lo Stato maggiore e colloquiare direttamente con i Comandanti in
sottordine. Inoltre, sovrapponeva più canali per far giungere lo stesso ordine,
a causa del rischio che i corrieri a cavallo potessero essere intercettati.
La
logistica e l’organica non dovevano costituire un ostacolo al perseguimento dei
movimenti e delle operazioni: l’armata di riserva che scavalcò le Alpi fu
completata e approvvigionata marcia durante e ancora quando era giunta di a sud
dei passi alpini.
In
sintesi, Bonaparte applicava i principi fondamentali della guerra in modo
intuitivo con audacia e grande flessibilità, contro avversari lenti e metodici,
che operavano con concezioni mutuate dai loro predecessori ([19]) ([20]).
Sostanzialmente nessun nuovo principio ma una determinata pragmatica e
realistica applicazione degli stessi. Perseguiva i propri obiettivi con grande
determinazione, senza mai darsi per vinto, costi quel che costi anche in vite
umane.
Curiosamente
ed inspiegabilmente, Napoleone non promosse l’innovazione nei mezzi e nei
materiali: il fucile era quello del 1777 ad avancarica e laborioso da impiegare
(Mod. Charleville), con una gittata utile di 100 metri , così come le
artiglierie che risalivano alle realizzazioni di Gribeauval.
Voglio
terminare con un’altra caratteristica di genialità di Bonaparte, la sua
capacità di rappresentare gli eventi a proprio uso e consumo, con una maestria
nell’arte della comunicazione che aveva già messo in luce nella prima campagna,
modificando fatti, tempi e perdite, ad uso della fama delle sue truppe ma
soprattutto sua ([21]). Ciò che non gli riuscì sul campo gli riuscì
nella propaganda.
Il
resoconto francese della battaglia di Marengo (ma dovrei dire i resoconti
perché ne esistono ben quattro, l’ultimo dei quali presentato a Napoleone
Imperatore proprio a Marengo nell’anniversario della vittoria) fu via via
addomesticato, stravolto e mistificato sin dal primo momento e negli anni
successivi; furono redatte quattro relazioni successive francesi, nelle quali
si volle dimostrare che l’esito della battaglia non fu dovuto al caso ma a una
precisa decisione strategica del Primo Console. Lo scopo era evidente: si
trattava di una provvidenziale vittoria che consentiva al Primo Console di
consolidare il proprio potere in Francia, anche se non concludeva la guerra
contro l’Austria.
Sotto
il profilo della mitizzazione del Personaggio, è emblematica la
rappresentazione del passaggio del Primo Console sul Gran San Bernardo: il
famoso quadro di David con Napoleone su un cavallo bianco. La realtà è ben
diversa: lo superò a dorso di mulo e rischiò pure di cadere in un burrone.
[1] Questo aforisma, come tutti gli altri
riportati nel testo sono tratti da vari testi di memorie di Napoleone.
[2] En guerre, la théorie est bonne pour donner
des idées générales, mais la strict exécution de ces règles sera toujour
dangereuse: ce sont les axes qui doivent servir à tracer la courbe
[3] Je veux que me troupes soient essentiellement
mobiles et q’elles puissent se transporter subitement de l’est à l’ouest, du
nord au midi, selon les proiets de ma politique.
[4] La fase iniziale si svolse nell’aprile del 1796 in Liguria e nel basso
Piemonte, tra Savona e Cherasco (Vds il
teatro operativo su cartina allegata). La campagna si concluse poi nell’ottobre
del 1797 con la pace di Campoformio.
[5] Mi riferisco alle operazioni che, iniziate
con l’entrata in Italia dell’armata di riserva, si conclusero con l’armistizio
di Alessandria (maggio-giugno 1800). La campagna proseguì poi fino al febbraio
del 1801 (Vds le cinque cartine allegate sulle tre fasi dell’offensiva e sulla
battaglia di Marengo).
[6] La campagna d’Egitto aveva
l’ambizioso obiettivo di colpire La Gran Bretagna nelle Indie.
[7] Gli austriaci le definiscono “campagna 1796-97 in Italia” e “campagna 1800 in Italia”.
[8] La guerre ne
se compose que d’accidents. Bien que tenue de se plier à des principes
généraux, un chef ne doit jamais perdre de vue tout ce qui pet le mettre à même
de profiter de ces accidents. Le vulgaire appellerait cela bonheur, et ce ne
serait pourtant que la propriété du génie.
[9] Un plan de
campagne doit avoir prévue tout ce que l’ennemi peut faire et contenir en lui-même
les moyens de la déjouer. Les plans de campagne se modifient à l’infini, selo
les circonstances, le génie des chefs, la nature des troups et la topographie
du théâtre de la guerre.
[11] Il est cinq choses que ne doit jamais
quitter le soldat: son fusil, ses cartouches, son sac, ses vivre pour quatre
jours au moins, et son outil de pionnier.
[12] Le secret des grandes
batailles consiste à savoir s’étendre et se concentrer à propos …… Ce n’est pas
en disséminant le troupes et en les éparpillant q’on arrive à un résultat…. Ce ne sont pas
le troupes qui vous manquent, c?est la manière de le réunir et d’agir avec
viguer. La vitesse, à la guerre, est la moitié du succès.
[13] Nome gergale degli orgogliosi veterani delle
guerre napoleoniche.
[14] Le
mellieur soldat n’est pas tant celui qui se bat que celui qui marche…… Chaque soldat a troi paires de souliers:
une aux pieds, deux dans le sac.
[15] Un
homme qui n’a pas de considération pour les besoins du soldat de devrait jamais
le commander.
[16] Il n’y a pas
nécessité de dire ce que l’on a l’intention de faire dans le même
moment où on le fait.
[17] Le canon, comme toute les autres armes,
doit être réunie en
masse si l’on veut obtenir un résultat important.
[18] La méthode de
mêler des pelotons
d’infanterie avec la cavalerie est vicieuse, elle n’a que d’inconvénients; la
cavalerie cesse d’ètre mobile. Elle est gênée dans tous ses mouvements, elle
perd son impulsion, et l’infanterie est compromise; au premier mouvement de la
cavalerie, elle est sans appuis.
[19] La perte du temps est irréparable à la guerre; les raisons que l’on
allègue sont toujour mauvais, car le opérations ne manquent pas que par les
retards.
doit la diminuer de la moitié ou d’un tiers; à
la guerre tout est moral. [21] Rien
n’est plus contraire aux regles militaires que de faire connaître
la force de son armée ….. lorsqu’on est conduit à parler de se forces, on doit
les exagérer à les rendre redoubtable en doubland ou en triplant le nombre; et,
au contraire, lorsq’on parle de la force de l’ennemie, on doit la diminuer de
la moitié o d’un tiers: à la guerre, tout est moral.