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venerdì 20 aprile 2012

Una nota di Luigi Manfredi


Napoleone e i principi dell’arte della guerra

Une armée n’est rien que par la tête ([1])


                                                                      Premessa

 Napoleone a Sant’Elena affermò, conscio delle sue eccezionali qualità, che anche dopo la sconfitta di Waterloo di lui si sarebbe parlato in futuro mentre invece i suoi avversari sarebbero stati dimenticati. Anche in questo la sua intuizione è stata esatta: pare che su Napoleone Bonaparte siano state scritte più opere che su qualsiasi altro personaggio storico.



Napoleone aveva sicuramente assimilato la teoria dell’arte della guerra sin dai tempi della scuola di Brienne, alla quale l'aveva iscritto il padre e, soprattutto, alla scuola militare di Parigi, dove però i risultati negli studi non furono brillanti: diventò infatti  sottotenente di artiglieria classificandosi tra gli ultimi del suo corso.



Ciò peraltro non deve stupire se si pensa che Napoleone era un piccolo nobile di una provincia d'oltremare, la Corsica, in mezzo ai più noti rampolli della grande nobiltà francese che lo prendevano in giro per la sua pelle olivastra e la scarsa conoscenza del francese. Anche allora probabilmente non era estraneo il principio della raccomandazione.



Inoltre, non si deve dimenticare che Napoleone Buonaparte (così si chiamava fino al marzo del 1796, quando francesizzò il proprio nome in Bonaparte) non padroneggiava la lingua francese come i suoi compagni di scuola ed eccelleva in matematica ma non nelle altre materie.



La teoria ha codificato i principi dell’arte della guerra sostenendo che essi sono immutabili nel tempo. Nella storia moderna i maestri in materia sono stati, come tutti sappiamo, Machiavelli e Clausewitz e nei testi didattici delle scuole militari moderne sono ormai consolidati alcuni principi fondamentali che tutti conosciamo, come la massa, la velocità, la sorpresa.



Machiavelli è stato sicuramente studiato da Napoleone ed è stata pubblicata anche un'edizione de “Il principe” annotata da Napoleone; il testo sarebbe stato ritrovato nella carrozza dell'imperatore al rientro dall'infausta campagna di Russia. Le annotazioni di Napoleone appaiono verosimili perché sostanzialmente confronta la figura del principe con se stesso, ma si ritiene che l’opera sia sostanzialmente apocrifa.



Clausewitz, invece, ha scritto la sua opera “Della guerra” avvalendosi delle esperienze e degli ammaestramenti tratti anche e soprattutto dalla strategia e dalla tattica napoleonica.



Il celebre aforisma di Clausewitz “La guerra non è soltanto un atto politico, ma un vero strumento politico: una prosecuzione dell'attività politica, una sua continuazione con altri mezzi” è una perspicace osservazione della vicenda napoleonica.



Bonaparte fu prevalentemente un autodidatta ed era notoriamente un grande lettore e conosceva approfonditamente i classici della storia e della strategia, da Tito Livio a Giulio Cesare e Machiavelli, per non citare che i più noti, e ne portava i testi con sé anche durante le campagne di guerra. Derivò però la sua vera cultura in tema di strategia e di tattica soprattutto dagli insegnamenti del Maresciallo Maillebois, un condottiero francese della metà del settecento che egli studiò e apprezzò in modo particolare.



Napoleone tuttavia non fu mai un teorico bensì un grande pragmatico. Le memorie che dettò a Sant'Elena possono apparire come una codificazione di principi dell'arte della guerra che egli aveva sperimentato e padroneggiato. Non è così: sono piuttosto un tentativo brillantemente riuscito di mettere in rilievo per la posterità le sue straordinarie capacità non solo di ingegno ma anche di  lavoro, determinazione e soprattutto di ambizione.



Napoleone Bonaparte durante le sue campagne, sia come giovane generale, sia come Primo Console e anche come imperatore, ha applicato i principi dell'arte della guerra in maniera intuitiva e pragmatica; egli stesso sostiene, infatti, che nessuna battaglia è uguale alla successiva e che nessuna battaglia è condotta e terminata come era stata pianificata.



Il piano strategico-tattico preventivo è indubbiamente necessario ma è ancor più necessario, affermava, avere il coraggio e la capacità di adattarlo alla situazione del momento e all'evolvere del conflitto ([2]).



L’immaginario collettivo è, ad esempio, affascinato dalla vittoria di Austerlitz nella campagna del 1805 contro la terza coalizione (Inghilterra, Austria e Russia) che si  concluse appunto con quella celeberrima battaglia.



Ma quella campagna non fu caratterizzata solo dall’esito della giornata di Austerlitz ma, soprattutto, dalla determinazione e dalla capacità dell'Imperatore di spostare nel giro di un mese dalle coste della Manica un esercito di 300.000 uomini, con i quali si riprometteva di invadere l’Inghilterra, attraversare vittorioso tutta l'Europa per giungere oltre Vienna, ad Austerlitz appunto, concentrando nel momento e nel luogo più idoneo le forze per battere la coalizione avversaria ([3]).



Ritengo che sia più interessante, piuttosto che analizzare sotto il profilo teorico la genialità di Napoleone, conoscerne le vicende più significative. In altri e più chiari termini s’impara di più la strategia e la tattica studiando l’evoluzione delle campagne dei grandi condottieri piuttosto che mandare a memoria il Clausewitz. Ho scelto a questo scopo le fasi iniziali delle due campagne d'Italia del 1796 e del 1800, dove egli, ancora giovanissimo (nel 1796 aveva solo 27 anni), seppe agire con quella genialità pratica che è l’essenza della sua arte della guerra.



Non a caso ho scelto queste due campagne, anche se altri eventi bellici successivi hanno un maggior valore nell'immaginario collettivo (mi riferisco alle battaglie di Austerlitz, Jiena o  Wagram, per non citare che alcune delle 100 battaglie combattute da Napoleone).



Si tratta di operazioni belliche condotte su un territorio che noi italiani ben conosciamo ma soprattutto, più che nelle altre, da esse si può capire come Napoleone abbia armonizzato brillantemente movimento, massa e sorpresa e come esigenze politiche, esigenze strategiche ed esigenze tattiche siano state un insieme inscindibile nella sua mente.





La fase iniziale della prima campagna d’Italia ([4])



Nel 1796 durante la guerra contro la prima coalizione (Inghilterra, Austria, Piemonte) il Direttorio riteneva che il fronte principale fosse a nord delle Alpi e considerava le operazioni dell’Armata d’Italia secondarie e destinate solo a fare cassa nella ricca Italia.



L’offensiva di Bonaparte ribaltò la gravitazione degli sforzi e le sue brillanti vittorie furono la dimostrazione della bontà della sua strategia. Contravvenne anche alle direttive del Direttorio che intendeva salvaguardare il Piemonte dei Savoia mentre egli volle neutralizzarlo e costringerlo a una pace separata. Partendo da Nizza arrivò quasi alle porte di Vienna. La sua genialità rifulse nella prima parte della campagna, quando aveva di fronte ancora le due armate piemontese ed austriaca.



Contro due armate, una austriaca di 40.000 uomini al comando del feldmaresciallo Beaulieu e una piemontese di 42.000 uomini al comando del feldmaresciallo Colli, avendo a disposizione 47.000 uomini in pessime condizioni, facendo leva sulla disciplina ma anche sulla promessa di onori e di bottino, riuscì a galvanizzare una truppa sfiduciata, senza soldo, senza viveri e senza scarpe, a separare le due armate, battere la piemontese costringendola, dopo appena un mese dall’inizio delle ostilità, all’armistizio di Cherasco e proseguire poi contro gli austriaci. Fu certo aiutato in questo dalla mancanza di cooperazione tra gli avversari che fecero a gara per farlo vincere.



In sintesi, gli austriaci e i piemontesi commisero errori esiziali:

·         operarono con obiettivi divergenti (salvare Torino e salvare Milano) ed esclusivamente  in difensiva;

·         non strinsero un patto di comando unico;

·         disseminarono le forze (doppie dei francesi);

·         non coordinarono operazioni di soccorso reciproco;

·         non sfruttarono successi locali, che pur ci furono.



Bonaparte non fece invece praticamente errori e l’offensiva che condusse all’armistizio di Cherasco fu una guerra lampo “ante litteram”.



La fase iniziale della seconda campagna d’Italia ([5])



Anche nella seconda campagna risalta, prima ancora che l’aspetto tattico, la grande intuizione strategica.  Bonaparte, Primo Console, costituì in brevissimo tempo un’armata di riserva a Digione, valicò le Alpi dove nessuno lo aveva immaginato possibile, aggirò l’intera armata austriaca protesa dal Piemonte verso la Provenza sull’onda dei successi ottenuti l’anno precedente,  realizzando così la sorpresa non solo in campo tattico ma addirittura strategico. Battè infine l’armata austriaca al comando del feldmaresciallo von Melas a Marengo (14 giugno 1800).



Marengo non fu però il capolavoro di Bonaparte che egli si sforzò di far credere, in verità riuscendoci. Tanto fu brillante la manovra che condusse l’armata francese nella pianura padana alle spalle degli austriaci quanto la condotta dello scontro di Marengo fu  miope.  Napoleone errò nella valutazione delle intenzioni del nemico e disperse le forze. Il Corpo di Desaix solo fortunosamente ritornò in tempo sul campo di battaglia.



La battaglia di Marengo non consentì l’annientamento dell’Armata di von Melas, lasciò i contendenti alla sera del 14 giugno sulle stesse posizioni sulle quali si trovavano al mattino, indebolì quasi nella stessa misura austriaci e francesi.  Fu vinta da Bonaparte solo perché il Comandante in capo austriaco non trovò di meglio che arrendersi spontaneamente. Marengo non pose termine alla guerra che sarebbe terminata solo a febbraio dell’anno successivo (Pace di Lunéville), dopo la vittoria, questa sì determinante, del Generale Moreau  a Hohenlinden nel dicembre del 1800.



Il felmaresciallo von Melas accumulò sbagli su sbagli:



·         perse l’occasione di occupare la Provenza in primavera;

·         sottovalutò l’Armata di riserva e non averla bloccata sulle Alpi;

·         disseminò l’Armata in Piemonte e in Lombardia;

·         accettò lo scontro invece di portarsi verso Mantova o Genova;

·         suddivise la propria cavalleria, che era un punto di forza determinante;

·         non effettuò ricognizioni sul terreno, pur avendo preso l’iniziativa;

·         costituì colonne d’attacco “ad hoc” smembrando reparti organici;

·         informò scarsamente i Comandanti in sottordine sul piano d’operazioni;

·         non motivò i reparti alla vigilia della battaglia;

·         abbandonò al nemico il giorno 13 sera proprio l’area di Marengo che il giorno dopo fu costretto a riconquistare a caro prezzo.



A Marengo anche Bonaparte non fu però immune da errori:



·         non individuò a tempo le intenzioni offensive degli austriaci;

·         distaccò tre Divisioni (Desaix e Lapoype) in inutili esplorazioni;

·         non perseguì l’annientamento dell’Armata austriaca.





Conclusioni



Napoleone fu indubbiamente un grande tattico ma soprattutto fu un grande stratega. Si celebrano le sue battaglie ma si trascura il fatto che a quelle battaglie vinte Napoleone giunse attraverso concezioni strategiche ad amplissimo respiro, soprattutto per allora ([6]). In entrambe le campagne d’Italia non furono solo importanti le singole battaglie ma grandioso e ardito disegno strategico che ne fu la premessa.



Le vicende della prima e della seconda campagna d’Italia ([7]) insegnano che tra i principi dell’arte della guerra sia da aggiungere “saper approfittare della fortuna” e non è un paradosso. Essa ha giocato un ruolo molto importante in queste due campagne e non solo in queste: a Marengo Desaix avverte il rombo del cannone e arriva in tempo mentre a Waterloo Grouschy, inviato da Napoleone fuori dell’area della battaglia, sente il rombo del cannone ma non rientra, ritenendo di dover eseguire il primitivo ordine dell’imperatore. Gli esiti furono ovviamente opposti.



Emblematica, sotto questo profilo, l’operazione Voltri nella prima campagna, voluta dal suo predecessore, da lui non condivisa ma utilizzata per distrarre forze nemiche dalla direttrice di gravitazione dello sforzo ([8]).

Adottò sempre rapidi mutamenti degli schieramenti e delle direzioni d’attacco in funzione dell’evolvere delle situazioni ([9]) ([10]).



Seppe con intelligenza suddividere i reparti sul territorio, mantenerli leggeri per muovere più agevolmente ([11]), per sopravvivere con approvvigionamenti e saccheggi e per confondere il nemico sulla direzione dello sforzo principale, e concentrarli nel momento decisivo per realizzare la massa facendo leva sulla velocità di spostamento delle truppe ([12]).



“L’Imperatore fa la guerra con le nostre gambe” dicevano i “grognard”([13]). I soldati francesi erano in prevalenza contadini di leva, che muovevano solo con l’armamento, il munizionamento e quei pochi viveri che venivano distribuiti, dormivano all’addiaccio al fuoco dei bivacchi quando non trovavano case coloniche dove rifugiarsi ([14]).

Ciò, al contrario degli austriaci, militari di carriera i quali, come scrisse Napoleone a Sant’Elena, non si capiva come facessero a combattere così appesantiti.



Aveva un rapporto privilegiato con i soldati che a Lodi lo soprannominarono “il piccolo caporale” e che chiamava i miei figli, anche se poi non esitava a sacrificarli a migliaia, anziché con i generali che teneva piuttosto a distanza, e visitava i reparti con frequenza (a differenza degli austriaci) ([15]).



Una sua costante preoccupazione fu la ricerca della sorpresa attraverso la scelta di linee d’operazione alternative  e dovunque mantenendo il segreto sulle proprie intenzioni ([16]).



Ebbe l’intuizione e sperimentò l’impiego delle artiglierie a massa anziché disperderle a supporto diretto dei singoli reparti ([17]). Privilegiò anche l’impiego a massa della cavalleria; nell’Armata di riserva la cavalleria era tutta al comando di Murat, mentre gli austriaci, pur avendo reparti di cavalleria ben più efficienti ed equipaggiati dei francesi, non seppero impiegarla a massa, cosa che avrebbe cambiato l’esito della battaglia ([18]).



Napoleone può essere considerato l’inventore delle unità complesse pluriarma (Divisioni e Corpi d’Armata) da utilizzare come pedine autonome, mentre gli austriaci consideravano il reggimento solo come unità organiche e non necessariamente operative, che in combattimento potevano essere scisse per ricostituire altri reparti “ad hoc”.



Per quanto riguarda l’organizzazione di Stato maggiore, è’ noto che Berthier fu il Capo di Stato maggiore per eccellenza di Napoleone, bravo a tavolino, meno quale Comandante. Occorre però precisare che Bonaparte utilizzò gli Stati maggiori quasi esclusivamente come organi per la redazione e la diffusione delle sue direttive verbali, piuttosto che come organo di consulenza in senso moderno.



La consapevolezza della sua superiorità oppure l’urgenza gli faceva spesso scavalcare lo Stato maggiore e colloquiare direttamente con i Comandanti in sottordine. Inoltre, sovrapponeva più canali per far giungere lo stesso ordine, a causa del rischio che i corrieri a cavallo potessero essere intercettati.



La logistica e l’organica non dovevano costituire un ostacolo al perseguimento dei movimenti e delle operazioni: l’armata di riserva che scavalcò le Alpi fu completata e approvvigionata marcia durante e ancora quando era giunta di a sud dei passi alpini.



In sintesi, Bonaparte applicava i principi fondamentali della guerra in modo intuitivo con audacia e grande flessibilità, contro avversari lenti e metodici, che operavano con concezioni mutuate dai loro predecessori ([19]) ([20]). Sostanzialmente nessun nuovo principio ma una determinata pragmatica e realistica applicazione degli stessi. Perseguiva i propri obiettivi con grande determinazione, senza mai darsi per vinto, costi quel che costi anche in vite umane.



Curiosamente ed inspiegabilmente, Napoleone non promosse l’innovazione nei mezzi e nei materiali: il fucile era quello del 1777 ad avancarica e laborioso da impiegare (Mod. Charleville), con una gittata utile di 100 metri, così come le artiglierie che risalivano alle realizzazioni di Gribeauval.



Voglio terminare con un’altra caratteristica di genialità di Bonaparte, la sua capacità di rappresentare gli eventi a proprio uso e consumo, con una maestria nell’arte della comunicazione che aveva già messo in luce nella prima campagna, modificando fatti, tempi e perdite, ad uso della fama delle sue truppe ma soprattutto sua ([21]).  Ciò che non gli riuscì sul campo gli riuscì nella propaganda.



Il resoconto francese della battaglia di Marengo (ma dovrei dire i resoconti perché ne esistono ben quattro, l’ultimo dei quali presentato a Napoleone Imperatore proprio a Marengo nell’anniversario della vittoria) fu via via addomesticato, stravolto e mistificato sin dal primo momento e negli anni successivi; furono redatte quattro relazioni successive francesi, nelle quali si volle dimostrare che l’esito della battaglia non fu dovuto al caso ma a una precisa decisione strategica del Primo Console. Lo scopo era evidente: si trattava di una provvidenziale vittoria che consentiva al Primo Console di consolidare il proprio potere in Francia, anche se non concludeva la guerra contro l’Austria.



Sotto il profilo della mitizzazione del Personaggio, è emblematica la rappresentazione del passaggio del Primo Console sul Gran San Bernardo: il famoso quadro di David con Napoleone su un cavallo bianco. La realtà è ben diversa: lo superò a dorso di mulo e rischiò pure di cadere in un burrone.







[1] Questo aforisma, come tutti gli altri riportati nel testo sono tratti da vari testi di memorie  di Napoleone.
[2] En guerre, la théorie est bonne pour donner des idées générales, mais la strict exécution de ces règles sera toujour dangereuse: ce sont les axes qui doivent servir à tracer la courbe
[3] Je veux que me troupes soient essentiellement mobiles et q’elles puissent se transporter subitement de l’est à l’ouest, du nord au midi, selon les proiets de ma politique.
[4] La fase iniziale si svolse nell’aprile del 1796 in Liguria e nel basso Piemonte, tra Savona e Cherasco  (Vds il teatro operativo su cartina allegata). La campagna si concluse poi nell’ottobre del 1797 con la pace di Campoformio.
[5] Mi riferisco alle operazioni che, iniziate con l’entrata in Italia dell’armata di riserva, si conclusero con l’armistizio di Alessandria (maggio-giugno 1800). La campagna proseguì poi fino al febbraio del 1801 (Vds le cinque cartine allegate sulle tre fasi dell’offensiva e sulla battaglia di Marengo).
[6] La campagna d’Egitto aveva l’ambizioso obiettivo di colpire La Gran Bretagna nelle Indie.
[7] Gli austriaci le definiscono “campagna 1796-97 in Italia” e “campagna 1800 in Italia”.
[8] La guerre ne se compose que d’accidents. Bien que tenue de se plier à des principes généraux, un chef ne doit jamais perdre de vue tout ce qui pet le mettre à même de profiter de ces accidents. Le vulgaire appellerait cela bonheur, et ce ne serait pourtant que la propriété du génie.
[9] Un plan de campagne doit avoir prévue tout ce que l’ennemi peut faire et contenir en lui-même les moyens de la déjouer. Les plans de campagne se modifient à l’infini, selo les circonstances, le génie des chefs, la nature des troups et la topographie du théâtre de la guerre.
[10] L’on pourra m’accuser de témérité: jamais de lenteur.
[11] Il est cinq choses que ne doit jamais quitter le soldat: son fusil, ses cartouches, son sac, ses vivre pour quatre jours au moins, et son outil de pionnier.
[12] Le secret des grandes batailles consiste à savoir s’étendre et se concentrer à propos …… Ce n’est pas en disséminant le troupes et en les éparpillant q’on arrive à un résultat…. Ce ne sont pas le troupes qui vous manquent, c?est la manière de le réunir et d’agir avec viguer. La vitesse, à la guerre, est la moitié du succès.
[13] Nome gergale degli orgogliosi veterani delle guerre napoleoniche.
[14] Le mellieur soldat n’est pas tant celui qui se bat que celui qui marche…… Chaque soldat a troi paires de souliers: une aux pieds, deux dans le sac.
[15] Un homme qui n’a pas de considération pour les besoins du soldat de devrait jamais le commander.
[16] Il n’y a pas nécessité de dire ce que l’on a l’intention de faire dans le même moment où on le fait.
[17] Le canon, comme toute les autres armes, doit être réunie en masse si l’on veut obtenir un résultat important.
[18] La méthode de mêler  des pelotons d’infanterie avec la cavalerie est vicieuse, elle n’a que d’inconvénients; la cavalerie cesse d’ètre mobile. Elle est gênée dans tous ses mouvements, elle perd son impulsion, et l’infanterie est compromise; au premier mouvement de la cavalerie, elle est sans appuis.

[19] La perte du temps est irréparable à la guerre; les raisons que l’on allègue sont toujour mauvais, car le opérations ne manquent pas que par les retards.
[20] À la guerre, l’audace est le plus beau calcul du génie.
doit la diminuer de la moitié ou d’un tiers; à la guerre tout est moral. [21] Rien n’est plus contraire aux regles militaires que de faire connaître la force de son armée ….. lorsqu’on est conduit à parler de se forces, on doit les exagérer à les rendre redoubtable en doubland ou en triplant le nombre; et, au contraire, lorsq’on parle de la force de l’ennemie, on doit la diminuer de la moitié o d’un tiers: à la guerre, tout est moral.

giovedì 19 aprile 2012

Intervista di Osvaldo Biribicchi

“Nous sommes dans un cul-de-sac”

storia di Lucia Ottobrini

 Maria, Leda, nomi di battaglia di Lucia Ottobrini, Medaglia d'Argento al Valor Militare, la prima gappista italiana che, sistematicamente, a partire dal 9 settembre 1943, ha condotto azioni individuali e di gruppo contro i nazifascisti. È una delle quattro ragazze, assieme a Carla Capponi, Marisa Musu e Maria Teresa Regard, dei Gruppi di Azione Patriottica fondati a Roma dopo l'8 settembre 1943. Nel libro L'ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli, Donzelli Editore, la Ottobrini è citata quattordici volte. Leggendo questo libro sulla Resistenza romana rimasi subito incuriosito dalla figura di questa giovanissima combattente, per metà alsaziana e metà romana. La immaginai forte, determinata, forse anche spietata, di poche parole e, al tempo stesso, generosa e di grande sensibilità d'animo. Due posizioni contrastanti tra loro. Ma chi era e chi è questa donna che non riuscivo ad inquadrare perfettamente? Cercai altri libri, articoli di giornale per conoscerne meglio la storia, la vita. La svolta c'è stata quando, grazie all'amico Giovanni Cecini, autore del Libro I soldati ebrei di Mussolini edito da Mursia, ho conosciuto il Professore Mario Fiorentini, classe 1918, insigne matematico, esponente di spicco della Resistenza romana ed italiana, decorato con tre Medaglie d’Argento al Valor Militare, tre Croci di Guerra al Merito, la Medaglia Donovan dell’Office of Strategic Services (USA), la Medaglia della Special Force (Regno Unito) e, cosa più importante, marito di Lucia Ottobrini. L’incontro, già di per sé eccezionale, con il Professor Fiorentini mi ha consentito di conoscere Lucia di persona. Alla travolgente loquacità di Mario, fonte inesauribile di aneddoti e storie legate al suo passato di combattente, affascinante affabulatore che, con incredibile disinvoltura, passa da argomentazioni matematiche a temi legati alla cultura, all'arte, al teatro, all'impegno sociale, fa da contrappunto la austera riservatezza di Lucia. Lei, cattolica convinta, tollerante verso le altri fedi religiose, non ama parlare del suo passato in generale né, tanto meno, di quel tragico periodo che va dall'8 settembre 1943 al 15 giugno 1944 in cui fu protagonista prima della guerriglia urbana a Roma poi, dopo la nota azione di Via Rasella, della guerra partigiana in montagna, nel settore Tiburtino.

Lucia, seconda di nove figli, nasce nel 1924 a Roma ove vi rimane fino all'età di cinque mesi, ossia fino al momento in cui i suoi genitori decidono di trasferirsi in Francia, a Mulhouse, una ricca e laboriosa città dell'Alsazia meridionale, a ridosso delle frontiere con la Svizzera e la Germania, dove i bisnonni materni erano emigrati alla fine dell'Ottocento ed avviato una solida attività commerciale. Mulhouse è una città a vocazione industriale e mineraria che, negli alterni passaggi di mano, dopo la Grande Guerra era tornata a far parte della Francia. È in questa città, ove convivono sfruttati e mal pagati minatori ed operai italiani, polacchi, cecoslovacchi e francesi, che Lucia cresce e si forma, ove acquisisce quella coscienza sociale, quella sensibilità verso gli emarginati verso i più deboli che non l'abbandoneranno più e andranno a formare la base su cui poggerà il suo successivo impegno politico, la sua lotta armata contro il nazifascismo, contro le ingiustizie. La famiglia di Lucia, comprendendo in questo termine anche i tanti cugini e zii, è bella e numerosa. Tutti si vogliono bene e, soprattutto, sono molto uniti fra loro e con la comunità italiana di Mulhouse. Una vecchia foto di famiglia, in bianco e nero, scattata in occasione di un matrimonio, li ritrae tutti insieme, vicini, stretti. Nell'osservare la foto, si rimane affascinati, oltre che dal ragguardevole numero di componenti di questa famiglia, dai volti sereni delle persone, dagli sguardi fieri. Tutti, grandi e piccoli, eleganti nei loro abiti, sono caratterizzati dalla compostezza di portamento, segno esteriore di una agiatezza raggiunta attraverso non pochi sacrifici ed un duro ed intelligente lavoro. Ebbene, con l'occupazione della Francia, nel 1940, da parte dei tedeschi, questa famiglia viene direttamente e tragicamente colpita, spezzata dai nazisti. Alcuni parenti ebrei vengono brutalmente prelevati nelle loro case, deportati e gasati ad Auschwitz. Idealmente, è come se quella foto in bianco e nero venisse stracciata.

Per Lucia è un colpo particolarmente duro che le fa crescere dentro una rabbia sorda, profonda verso ogni forma di prepotenza, di arroganza, di ingiustizia. A seguito di questi eventi, Lucia ed i suoi fanno ritorno a Roma, in una casa assegnata loro dallo Stato nel periferico e povero quartiere di Primavalle.

È un periodo di grande avvilimento. I genitori vanno alla ricerca di un lavoro, lei è assunta come operaia alla Zecca dello Stato. L'avvicinamento all'antifascismo avviene attraverso la conoscenza, nella primavera del 1943, del giovane Mario Fiorentini di famiglia ebrea piccolo-borghese. Fiorentini è in contatto con gli ambienti culturali ed artistici della città. È in amicizia con scrittori come Ugo Betti, Giorgio Caproni, Francesco Jovine, Sibilla Aleramo, Sandro Penna e Vasco Pratolini; con pittori come Vedova, Turcato, Guttuso, Purificato. Conosce registi, quali Squarzina, Lizzani, Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi, Mario Landi ed attori di teatro e cinema come Gassman, Lea Padovani, Nora Ricci, Caprioli e Bonucci. L'intesa fra i due giovani è immediata, naturale; si completano a vicenda. Lucia, educata e cresciuta in un ambiente sociale avanzato, multireligioso; che parla correntemente, oltre all'italiano, il francese ed il tedesco; che considera la Francia, messa in ginocchio dai nazisti ed aggredita dall'Italia, la sua seconda patria; che ha avuto nella sua numerosa famiglia dei parenti ebrei deportati e gasati ad Auschwitz; lei alsaziana proveniente da una realtà che l'ha portata a conoscenza, ancor prima degli stessi ebrei piccolo-borghesi romani, delle spaventose realtà dei campi di sterminio nazisti, accoglie con estrema naturalezza i principi antifascisti. Nella prima metà del 1943 frequenta, insieme a Mario Fiorentini, gli ambienti culturali ed artistici di Roma e partecipa alle prime azioni politiche: comizi lampo e manifestazioni di protesta. Il primo incarico politico, affidatogli da Laura Lombardo Radice, consiste nella raccolta di indumenti, medicine e cibo per i prigionieri politici. Nello stesso periodo, Mario entra in contatto con gli antifascisti di “Giustizia e Libertà”, di ispirazione democratica e repubblicana. Ed è nelle file di questo movimento politico, dal carattere popolare ed interpartitico, che, dopo la caduta del Fascismo nell'agosto del 1943, Lucia, Mario e Franco di Lernia, guidati da Fernando Norma, partecipano agli Arditi del Popolo. All'appuntamento dell'8 settembre 1943, quando i tedeschi occupano Roma, Lucia arriva dunque preparata: politicamente, spiritualmente e militarmente. Lei, rispetto a Mario, che in seguito sarebbe diventato suo marito, il compagno affettuoso della sua vita, agli altri giovani intellettuali, ai suoi coetanei è politicamente in vantaggio per il semplice motivo che ha conosciuto prima di loro, in Alsazia, la brutalità dei nazisti. La Ottobrini, fortemente ideologizzata e con un bagaglio di sofferenze anche più pesante e tragico di quello di Mario, che pure aveva subito le leggi razziali, che aveva visto, il 16 ottobre 1943, portar via brutalmente dai nazisti i suoi genitori i quali solo fortunosamente erano riusciti ad evitare la deportazione ad Auschwitz, non esita nemmeno un istante a scendere in campo contro gli occupanti. Il 10 settembre, dopo che si erano spenti i furiosi combattimenti iniziati la notte dell'8 con l'attacco dei paracadutisti tedeschi alle postazioni del I Reggimento Granatieri nei pressi del ponte della Magliana e proseguiti a Porta San Paolo, Lucia e Mario sono in via del Tritone, all'angolo di via Zucchelli, ad osservare muti ed angosciati il transito dei carri armati e delle truppe tedesche di occupazione. Lo sfilamento non è ancora terminato che Mario prende Lucia per un braccio ed esclama “nous sommes dans un cul-de-sac”. Subito dopo, vanno alla Pineta Sacchetti, al Flaminio, a Monteverde a raccogliere le armi abbandonate nelle caserme, soprattutto bombe ed esplosivi. In questa particolare e concitata ricerca, gli iniziatori della guerriglia urbana sono guidati da un Ufficiale dell'Esercito, il Tenente Prat. Ai primi di ottobre del 1943 è, insieme a Mario Fiorentini, tra i fondatori dei Gruppi Armati Patriottici Centrali i quali hanno lo scopo di indebolire il potenziale bellico nazista a Roma ed impedire che la “Città Aperta” venga utilizzata per il transito delle colonne di rifornimenti dirette al fronte. I GAP romani sono quattro, divisi in otto zone che coprivano l'intero perimetro urbano; ognuna di esse ha un comandante militare, un commissario politico ed un responsabile organizzativo.

La Ottobrini partecipa alle più importanti ed audaci azioni militari dei GAP romani. Fra le più importanti e conosciute, senza contare i ripetuti improvvisi attacchi a colpi di bombe agli automezzi e carri armati tedeschi in sosta ed in transito per il fronte, quella del 4 marzo 1944 davanti alla caserma dell'81° Reggimento di fanteria in via Giulio Cesare, per ottenere la liberazione dei civili arrestati; l'attacco, il 10 marzo, al Battaglione “Onore e Combattimento” della Guardia Nazionale Repubblicana in via Tomacelli; l'attacco in via Rasella, il 23 marzo 1943, alla Compagnia del Reggimento di Polizia SS “Bozen”, formato da altoatesini che avevano optato per la cittadinanza tedesca. Questa azione è pianificata da Fiorentini, fondatore e comandante del Gap Centrale Antonio Gramsci. 
L'attacco, fulmineo, portato a termine da diciassette gappisti, fra cui la Ottobrini e la Capponi, comandati da Carlo Salinari, provoca la morte di trentatre tedeschi, ventotto sul colpo e cinque in ospedale a causa delle gravissime ferite riportate. Un centinaio i feriti. Nessun gappista, invece, rimane ucciso o ferito; nessuno viene catturato. In via Rasella si svolge una vera e propria battaglia. Dopo aver fatto esplodere l'ordigno al passaggio dei militari, i gappisti attaccano a colpi di bombe e d'arma da fuoco i tedeschi, ingaggiano con questi una violentissima sparatoria. Ogni SS ha  cinque o sei bombe a mano appese alla cintola. Anche queste scoppiano e contribuiscono ad accrescere il numero delle vittime. La compagnia SS viene praticamente annientata da un manipolo di guerriglieri che, dopo l'azione, svanisce nel nulla. I tedeschi sono furibondi, dal punto di vista militare il durissimo attacco subito, peraltro nel cuore di Roma, è uno smacco umiliante mai accaduto prima nelle città dell'Europa occupata. Il giorno dopo segue la fulminea tremenda rappresaglia tedesca alle Fosse Ardeatine, ove vengono trucidate 335 persone di età compresa fra i 14 ed i 75 anni. Dopo l'azione di via Rasella, “Maria” e “Giovanni”, ricercati dai nazisti, vengono inviati dalla giunta militare del CLN a dirigere le operazioni nella zona di Tivoli e Castelmadama.  Intanto, a pochi chilometri da Roma, ad Anzio, gli Alleati sbarcati due mesi prima, alle prime luci del 22 gennaio 1944, sono ancora li, inchiodati dai tedeschi. I romani che aspettavano da un momento all'altro l'ingresso degli anglo-americani in città avrebbero dovuto aspettare sino alla domenica del 4 giugno.

Di quel periodo, Lucia ricorda, con il dolore nel cuore, i terribili devastanti bombardamenti americani che si abbattevano quotidianamente sulla povera gente, quella stessa gente che l'8 settembre 1943 aveva festeggiato l'armistizio come la fine di un periodo buio, che aveva visto in quell'armistizio il ritorno a casa di figli e mariti dai lontani fronti di guerra e guardato con ottimismo all'immediato futuro. Lei non comprendeva il senso di quelle devastazioni che colpivano duramente più la popolazione che i tedeschi. Tivoli fu quasi interamente rasa al suolo, case ed ospedali distrutti. Dopo quei bombardamenti, viene inviata sulle alture di Castel Madama per dirigere un nucleo partigiano al quale è affidato il compito, fra gli altri, di preservare una centrale idroelettrica che i tedeschi intendono far saltare. "Niente di particolarmente eroico", afferma in una intervista, "eravamo gente costretta a lottare e non guerrieri in cerca di gloria".
 Sempre di questo periodo, il Professor Fiorentini ama raccontare la pietà di Lucia sia nei confronti dei civili, stremati dai continui, quanto inutili, bombardamenti anglo-americani, che dei tedeschi. A questo riguardo, racconta di quando Lucia, con il cuore straziato, vide una colonna di giovanissimi soldati germanici che, provati dai durissimi combattimenti, stanchi ma orgogliosi, cantavano “Andiamo a casa dove staremo bene”. Nell'ascoltare questa struggente canzone, la gappista alsaziana che capiva il tedesco scoppiò a piangere. In questo episodio è, forse, racchiusa la complessa e profonda personalità di  Lucia Ottobrini.

Sulla sua scelta politica e militare di combattere il nazifascismo, ha dichiarato: “La principale motivazione della mia scelta antifascista fu sicuramente l'entrata in guerra contro la Francia, la mia seconda patria, l'infamia di un'aggressione contro un Paese che era stato già piegato dai tedeschi. Poi le leggi razziali. Molta gente, specie nel "popolino", aveva creduto in una matrice proletaria del fascismo e in una certa propensione ad occuparsi della povera gente e questo spiega il consenso di massa che il fascismo, e il fascino personale di Mussolini, avevano conseguito. Con i fallimenti della campagna di Grecia e di Russia, si capì subito però che la guerra non sarebbe stata la passeggiata imprudentemente promessa. Fu il fatto di aver passato la prima parte della mia esistenza in un ambiente proletario e i miei trascorsi in Francia, che fecero maturare in me la coscienza di stare dalla parte degli operai e del popolo”.

Nel 1953 le è stata assegnata la medaglia d'Argento al Valore Militare con la seguente motivazione:
"Ottobrini Lucia di Francesco e di Domenica De Nicola, Roma, classe, 1924, partigiana combattente. Giovane e ardimentosa partigiana, dava alla causa della Resistenza a Roma e nel Lazio, apporto entusiastico e infaticabile. Raccoglieva e trasportava armi, procurava notizie, contribuiva validamente alla organizzazione di numerosi atti di sabotaggio. Con coraggio virile non esitava ad impugnare le armi battendosi più volte a fianco dei compagni di lotta, sempre dando esempio di impareggiabile ardimento e facendosi ricordare tra le figure rappresentative della Resistenza romana. Zona di Roma, settembre 1943- giugno 1944)".

Ad oltre sessantacinque anni di distanza da quei dolorosi giorni in cui tutti, uomini e donne, furono chiamati a delle scelte difficili e drammatiche, in Lucia rimane un profondo senso di umanità. Un senso di pena per tutte le vittime di quel periodo, compresi quei giovani tedeschi, di cui parlava la lingua, che con la paura nel cuore cantavano “A casa, a casa, che li staremo meglio”. 

Osvaldo Biribicchi
Dalla Rivista "Il Secondo Risorgimento d'Italia"
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